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“A ciascuno secondo il sue capacità a ciascuno secondo i suoi bisogni”. di A. Angeli
Il 21 gennaio del 1921, alla fine dei lavori del XVII Congresso del PSI, che si svolsero presso il Teatro Carlo Goldoni di Livorno, la frazione Comunista abbandonò i lavori e costituì il Partito Comunista d’Italia. Il 21 gennaio 2021 saranno quindi trascorsi 100 anni da quella data storica, che sicuramente ha influenzato i fenomeni storici che nel tempo si sono susseguiti e che hanno determinato le vicende politiche e sociali del nostro paese: la nascita e la dittatura del fascismo e la seconda guerra mondiale nazifascista. Ma anche altri fatti non meno sorprendenti sono accaduti in questo lungo secolo. La svolta della Bolognina del 3 febbraio 1991, che determina la fine del PCI e la nascita del PDS; il 13 novembre 1994 lo scioglimento definitivo del PSI; poi la costituente socialista promossa da Boselli nel 2007 a Fiuggi, che raccolse quanto rimane del vecchio PSI, che nel congresso del luglio 2008 eleggerà Riccardo Nencini Segretario e adotterà il nome di Partito Socialista Italiano, oggi guidato da un nuovo segretario, Vincenzo Maraio. Oggi, chi si accingesse a compiere un’analisi della presenza della sinistra nel nostro paese non potrebbe parlarne in termini di evoluzione ma, caso mai, d’involuzione o regressione, causata soprattutto dal difficile superamento del paradigma identitario, un fenomeno ancora irrisolto, anche perché nel tempo è intervenuta una revisione sostanziale della forma partito e del modello organizzativo, a causa dell’abbandono della forma ideologica e teorica, per strutturarsi nel modello ideale di rappresentanza democratica e riformista.
E’ quanto si coglie guardando alla vita reale della politica e alla reazione dell’opinione pubblica, poichè dalla deideologizzazione dei processi politici l’attenzione del nuovo modello di partito è rivolta a favorire una visione idealizzante di un nuovo rapporto con l’elettorato il quale, a sua volta, avverte questo cambio di paradigma e reagisce adeguando il suo orientamento e interesse politico. Difatti, alla domanda se il socialismo ha ancora una prospettiva molte associazioni e movimenti cercano di dare una risposta ricorrendo alla storia, alla tradizione e alla cultura del movimento socialista, che ha segnato tanta parte della vita politica del nostro paese. In grande parte delle risposte si cerca di motivare l’impegno per la ripresa o rinascita del socialismo confrontando il livello di inadeguatezza dell’intellighenzia del presente, che ne ha assunto il ruolo di rappresentanza e, impropriamente, ha metamorfizzato le radici originarie della sua cultura scientifica e storia politica. Infatti, accantonata la fase del socialismo scientifico, ( secondo la lettura di Marx della storia vista nell’ottica della lotta di classe ) oggi la ricerca della nuova identità socialista immagina la possibilità di rinnovare l’essenza del socialismo ricorrendo a nominalismi che diano il senso di un movimento attrezzato culturalmente e organizzativamente e pronto a confrontarsi con la globalizzazione economico-finanziaria del XXI secolo: così al socialismo è aggiunto riformista, oppure socialismo liberale o, ancora, socialismo del XXI secolo, una traslitterazione di termini operata con lo scopo di costruire una nuova identità al socialismo nella speranza di intercettare interesse e consenso politico.
“Tenebra dell’immediato” richiamando una frase di Ernst Bloch, è la dimensione dentro cui si muove questa ricerca di una identità socialista, che segni comunque una discontinuità con il passato, per cui al centro di questa ricerca non è più la classe lavoratrice, la lotta di classe e la contrapposizione alla èlite, alla borghesia, ma l’individuo, superando cosi intemeratamente le divisioni di censo e di collocazione sociale. Sono visioni e temi, quelli riguardanti il merito, o l’idea di dare a ciascuno secondo le sue capacità e non secondo i suoi bisogni, sperimentate dal socialismo del XX secolo, al pari dei tentativi di rielaborare teoricamente una visione del socialismo da contrapporre all’analisi Marxista del socialismo scientifico, ricorrendo alle tesi di Proudhon: teorie e strade che si sono dimostrate vie di fuga fallite. Sono esperimenti mentali, quelli di associare il socialismo al liberalismo, che la storia si è già incaricata di dimostrarne l’illogicità politica e sociale; peraltro ipotesi di pensiero già affrontate al pari della democratizzazione del processo politico-economico della società. Ciò che invece queste tesi mettono in campo è l’idea del funzionalismo, inteso come indirizzo metodologico secondo cui tutto è intercorrelato e chiamato a svolgere la propria funzione ai fini dell’obiettivo secondo cui non ci sono classi ma solo diversità, idea che induce a ritenere inesprimibile sociologicamente il principio dell’esistenza di diseguaglianze sociale e di classe.
Se il socialismo oggi non raccoglie consenso nonostante la presenza di un partito organizzato e l’attività di molte organizzazioni, cui adesso si affianca la ripresa del suo storico giornale l’Avanti, dovrebbe costituire materia di studio e approfondimento, magari anche mediante una ricerca tra i giovani per comprendere perché il socialismo non riesce a penetrare e conquistare interesse, invece di limitare le analisi a comparazioni di voto, a studi statistici o valutazioni semplicistiche. Se dopo un secolo di storia il socialismo è ai minimi termini e vive nella speranza di raccogliere percentuali minime, quasi da prefisso telefonico la ricerca dei suoi limiti deve avvenire nell’ambito della società, nel mondo che intende rappresentare e al quale chiedere consenso e forza, e certo non puoi rivolgere la stessa attenzione al mondo del lavoro e al capitale finanziario, al dipendente e allo speculatore, ma chiedere a ciascuno secondo il sue capacità a ciascuno secondo i suoi bisogni, come segnavia per realizzare un socialismo rispondente ai bisogni della società.
Alberto Angeli
Il negazionismo e l’angoscia del nulla. di A. Angeli.
Non credo sia possibile stabilire una data storica alla quale riferire la data di nascita del negazionismo. Forse dal racconto biblico in cui Noè, chiamato a costruire l’Arca sulla quale trasferire tutti gli animali della terra con la sua famiglia, nella previsione del diluvio universale, venne irriso e calunniato dai suoi concittadini che negavano la possibilità di essere stato avvertito da Yahwè. O, scorrendo la bibbia, fermando l’attenzione sulla parte dedicata a Pietro, ricordare la sua negazione: “Nel frattempo, mentre Pietro sedeva nel cortile, una serva gli si avvicinò e gli disse: «Tu eri con Gesù, perché venite tutti e due dalla Galilea!» Ma Pietro lo negò a gran voce, dicendo: «Non so nemmeno di che cosa stai parlando!» Più tardi, fuori dal cancello, una altra serva lo notò e disse a quelli che stavano lì intorno: «Questʼuomo era con Gesù di Nazaret!»Di nuovo Pietro lo negò, stavolta con un giuramento: «Non lo conosco nemmeno quellʼuomo!» disse. Ma, poco dopo, alcune persone gli si avvicinarono e gli dissero: «Sappiamo che sei uno dei suoi discepoli, si capisce dal tuo accento che sei della Galilea!» Pietro cominciò a maledire e a spergiurare. «Non lo conosco nemmeno quellʼuomo là!» diceva.
Improvvisamente il gallo cantò. 75 Allora Pietro si ricordò di ciò che Gesù gli aveva detto: «Prima che il gallo canti, tu mi rinnegherai tre volte». E si allontanò piangendo amaramente”. Ma è il negazionismo dell’Olocausto, della shoah, quello che più ha segnato e segna la storia, che nel tempo si è trasformata in una corrente di pensiero antistorica e antiscientifica il cui principale assunto è la negazione della veridicità dell’Olocausto, ossia del genocidio degli ebrei da parte della Germania nazista.
Oggi, alla schiera dei negazionisti si sono affiancati gli anti-complottisti compulsivi, i revisionisti o storicisti, gli anti cospirazionisti, i no vas, i no covid, i no mask, insomma una falange di paranoici che si oppongono a tutto, anche alla scienza, ritenuta al servizio del potere politico e economico. Le aziende farmaceutiche producono e diffondono il virus, poi speculano sui prodotti sanitari, sulle medicine per le cure, i vaccini. La politica o i politici impongono provvedimenti illiberali, coercitivi, con lo scopo di esercitare un dominio sulla società, il controllo assoluto su ogni aspetto della vita civile, comunitaria. Tutto per coprire “il complotto demo-pluto-giudaico-massonico, è la leggenda dei negazionisti, una sindrome incurabile ma decisamente preoccupante poiché mette sempre come previsione un complesso di fatti persecutori e, ci spiega Umberto Eco, l’integrità del popolo”. E’ dall’analisi del loro linguaggio che si coglie il vuoto di una logica capace di rendere proprietà formali alle cose del mondo. Ecco, appunto, il linguaggio: “Su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere”, così conclude le 7 proposizioni del Tractatus Wittgenstein, una lettura che aiuta a comprendere il linguaggio e a distinguere quelle proposizioni che non sono false ma assolutamente insensate e alla loro insensatezza non possiamo rispondere mettendole in dubbio o negarle, perché si può dubitare e sottoporre a confutazione solo ciò che è esprimibile in termini di verità o falsità. Allora, al negazionista, rimane solo l’ambito dell’angoscia che, come scrive Heidegger, si presenta come un’esperienza del niente, preda della paura, “ che è paura di nulla” chiarisce, poiché il suo oggetto rimane indeterminato.
L’indeterminatezza, è il terreno in cui i negazionisti convogliano le paure, il vuoto del pensiero che ha rinunciato a pensare; insomma il Regno della solitudine in cui si ritrova il negazionista una volta dismessi i simboli nei quali si è avvolto, nascosto durante la prova della sua esistenza consumata nel teatro delle insensatezze. Qui non ci sono messaggi da lanciare, come salvagente lanciato per recuperare senso e significato di idee e modelli culturali, poiché il mare in cui si dovrebbe esercitare il soccorso è il nulla, ovvero il centro della paura. E il superamento della paura è un lavoro che spetta agli psicologi, non alla cultura e al confronto politico.
Alberto Angeli
Alcuni appunti sull’Enciclica “Fratelli tutti” di Papa Bergoglio. di G. Giudice.

Innanzi tutto, una precisazione. Quando si parla di Enciclica si parla di un documento Magisteriale della Chiesa, e non di un documento politico. Però sono d’accordo con lo storico di sinistra Gianpasquale Santomassimo, che questa Enciclica è certo la più radicale scritta da un Papa. Anche se l’impostazione di fondo è quella di rivendicare un universalismo cristiano (“fratelli tutti” è una frase presa da S.Francesco). Ma un universalismo non come corollario di un “eurocentrismo” (come era evidente in Papa Ratzinger) omologante. Tutt’altro. E’ un universalismo che invita a mantenere in vita , soprattutto nel paesi una volta chiamati del III Mondo, la propria identità culturale , a non smarrirla , rispetto alla logica totalizzante del globalismo liberista. E quindi abbiamo una chiara e netta posizione contro il modello neoliberale, con le ingiustizie, le disuguaglianze , lo sfruttamento , fino al ritorno di vere e proprie schiavitù. Che calpesta i diritti dei lavoratori, che mette il profitto al primo posto e disattende il bene comune. Che crea forti disuguaglianze di genere. Che si fonda su un individualismo consumista esasperato. Sono costretto a fare una sintesi, per ragioni di spazio. Il Papa contesta , allo stesso modo il neoliberalismo e le regressioni nazionalistiche (si rivolge evidentemente alla destra radicale. Ora è evidente che questa enciclica è in realtà molto lontana non solo di quella di Leone XIII ed a quella fortemente corporativa di di Pio XI, ma anche da quelle di Woytila e Ratzinger. In realtà Papa Bergoglio dice delle cose che pochissimi della sinistra e socialismo europeo osano (tranne Corbyn) …per non parlare del PD!!!! Qualcuno ha addirittura promosso Bergoglio come capo della sinistra… evidentemente la cosa non ha senso (anche se riflette i malumori e il disorientamento di molta gente di sinistra) …ma alcune suo riflessioni sono certo compatibili con il socialismo. Ma ripeto resta un documento magisteriale. Che poi è giusto contestare il carattere monarchico e non sinodale della Chiesa Cattolica è un altro discorso. Del resto lo stesso Bergoglio ha ammesso (come riferiscono alcune fonti) che per “riformare la Chiesa (come struttura gerarchica e finanziaria è come usare lo spazzolino per pulire le Piramidi d’Egitto”. Del resto , come ha rilevato il cardinale tedesco Kasper , fine teologo e molto vicino a Bergoglio, c’è un complotto di settori importanti della Gerarchia per costringerlo a dimettersi. Ma da buon gesuita Bergoglio non demorde. C’è poi un fondamentalismo laicista (cosa molto diversa dalla laicità di Norberto Bobbio), che fa presa sui “ceti medi riflessivi) ed è un fenomeno tutto borghese. Del resto non dimentico che Riccardo Lombardi aveva un grande interesse verso la sinistra sociale cattolica (vedi Acpol) , la “scelta socialista delle ACLI” e fine dell’unità politica dei cattolici . Del resto molti esponenti delle Acli e della sinistra Cisl entrarono nel PSI nella corrente di sinistra di Lombardi.
Giuseppe Giudice
Ritorna la lotta di classe. di A. Benzoni

Ma è ancora il padronato a condurla. E dopo avere vinto e stravinto (ce lo dice Warren Buffett e in modo del tutto spassionato: “forse abbiamo vinto troppo”) quella precedente; segnata dall’ordoliberismo, con annessa prevalenza delle ragioni economiche su quelle politiche, e della società di mercato sulle altre.Perché? E contro chi o che cosa? Primo e soprattutto perché l’ordoliberismo è morto, colpito dalla pandemia e dall’uso politico della medesima nelle sue stesse fondamenta. Anche se non si sentiva tanto bene nemmeno prima, con gli annessi e connessi dell’arrivo di Trump e della relativa distruzione delle regole e delle istituzioni; queste necessarie per l’esistenza di qualsiasi ordine mondiale e, a maggior ragione, di quello liberista (e, in questo caso, anche liberale…). A sperare nel suo ritorno, i nostalgici e a combatterlo, come se ancora esistesse, quelli della sinistra antagonista. Ma per pure ragioni ideologiche. Nella realtà la pandemia e, ancor più il post pandemia, riporteranno al centro della scena e la politica e lo stato. E in un contesto in cui la fuoruscita dalla crisi può portare verso esiti diversi se non opposti in un mondo che, in partenza, sarà, comunque, più povero, più ingiusto, più chiuso e più disordinato.In questo quadro d’insieme, difficile pensare a un ritorno della lotta di classe nei termini che abbiamo imparato a conoscere lungo tutto l’arco del ventesimo secolo. Il mondo del lavoro e i suoi tradizionali sostenitori non ne hanno i mezzi e la volontà; e il padronato non ne ha l’interesse.In Italia, come in moltissimi altri paesi, il sindacato nazionale continua a perdere capacità contrattuale (sono scaduti da anni un’infinità di contratti, tra cui quello dei metalmeccanici e nessuno fa una piega) senza aver recuperato, anzi, il suo ruolo di “parte sociale”. Mentre i lavoratori si battono, spesso senza successo, ma quasi sempre per non perdere un lavoro che tende a sparire anzi a spostarsi continuamente verso lidi più accoglienti. Spesso in condizioni di impotenza, nell’alternativa tra perdere il lavoro o conservarlo/ottenerlo da altri e alle loro condizioni. In quanto ai socialisti, questi sono sì oggetto di una campagna propagandistica più meno all’insegna del “pericolo rosso”; mentre poi si prodigano in ogni modo per apparire del tutto inoffensivi. Fatte salve le debite eccezioni.In queste condizioni il padronato non ha alcuna necessità di sparare sull’ambulanza; con il rischio di risvegliarne i conducenti. E proprio mentre si trova di fronte a un pericolo infinitamente più grande; il risveglio dello stato. Qui i segnali sono molti. E tutti preoccupanti. Tanto più in quanto la posta in gioco è enorme. Si tratta di sapere come sarà il mondo all’indomani della pandemia e soprattutto quali saranno le forze che lo governeranno e in quale direzione. E, più prosaicamente chi pagherà i costi della crisi e i prezzi del ritorno alla normalità (a partire dalla gestione di debito, ora giunto al 300 per cento e oltre del Pil mondiale e con un’inflazione vicina allo zero). Il tutto in un contesto in cui lo stato si è risvegliato, se non altro per la forza delle circostanze; governando, come se fossimo in guerra, la vita dei cittadini. E qui i segnali di pericolo sono tanti. C’è in primo luogo il ritorno generale di quello che viene chiamato sprezzantemente “assistenzialismo” ma che è in realtà soccorso generalizzato alle persone: dal reddito di cittadinanza, alla sovvenzione ai pasti nei ristoranti, fino ai cosiddetti “stimoli” che hanno portato lo stesso Bolsonaro a sostenere i redditi dei più poveri in una misura superiore rispetto ai precedenti programmi di Lula. E poi ci sono gli interventi a favore delle imprese con l’”assurda pretesa” di avere una voce in capitolo nella loro gestione fino a vagheggiare ipotesi di nazionalizzazione; il ritorno degli uffici del piano; i vincoli ambientali; l’insistenza crescente sui paradisi fiscali e sul dumping fiscale e sociale, gli ostacoli al commercio e quant’altro. Il tutto, in radicale contrasto con il sogno di totale libertà coltivato e praticato nel corso di questi ultimi decenni.Che fare allora? Aderire ad un nuovo compromesso tra capitalismo e democrazia? Troppo presto per parlarne (e quello precedente, all’indomani della seconda guerra mondiale, fu il frutto di circostanze e di eventi eccezionali). Resistere, allora; ma con quali forze?Qui il quadro è molto meno favorevole di quanto si pensi. I partiti liberisti/liberali, come la civiltà che li alimentava, sono in piena ritirata. Mentre, almeno per ora, il “politicamente corretto” pone un fortissimo freno all’alleanza aperta con il populismo di destra, pur ampiamente disposto a offrire i propri servigi. Infine, lo stesso fronte imprenditoriale, compatto tra i soldati, è, nelle altre sfere, profondamente diviso tra gli intransigenti e quelli disposti a pagare dazio al nuovo clima politico.A, speriamo momentaneo, favore dei “duri” c’è, però, il grande disordine mondiale. E l’opinione, condivisa dagli stessi interessati, che gli stati e i governi non siano in grado di concepire e di guidare il ritorno a una nuova e superiore normalità condivisa. E, che, quindi, valga la linea dell’”ognun per sé e nessuno per tutti”.Allo stato e magari alla stessa società l’onore e l’onere di smentire questo convincimento. A partire dal fatto che, senza recupero delle domande interne e un impegno collettivo in tale direzione, l’inurimento del padronato può portare a esiti catastrofici.La partita, naturalmente, è tutt’altro che vinta. Qui e ora si tratta semplicemente di aprirla.
Alberto Benzoni
Un nuovo Governo per gestire le risorse europee e riformare il Paese. di A. Angeli
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“Basta con questo atteggiamento morboso” risponde piccato Conte al giornalista che gli chiedeva del MES. Una dura risposta che è agevole leggere come l’aforisma: dire a suocera perchè nuora intenda; rimbeccare il giornalista per messaggiare a Zingaretti che la sua insistenza sul MES è patologicamente (politicamente) psicotica. Il Conte di cui parliamo è il Conte tornato vincitore dallo scontro sul Recovery Fund, applaudito dalla maggioranza del Parlamento per questo successo; è il Conte immodesto, fino all’umiltà al punto che si propone di gestire lui, direttamente, i 209 mld dei 750 stanziati dall’Europa per una risposta comune alla più grande recessione economica della storia dell’Unione. E’ il Conte autoconvintosi di essere stato l’artefice – certo, dopo avere convinto la Merkel e Macron con la sua incontestata dialettica – predominante su tutta la difficile trattativa durante la quale ha duellato con il capo dei “frugali” Rutt. Si dice sempre che sarà la storia a giudicare, in specie quando ci si trova di fronte a momenti che hanno proprio il sapore di una novità storica, come quella decisa dall’Europa poiché, per la prima volta, è affermato il principio secondo cui una istituzione europea, la Commissione, viene autorizzata a fare debito comune, un tabù che sarebbe stato impensabile solo qualche mese fa.
Ma non giochiamo con gli equivoci: i mallevadori di questo successo sono Merkel e Macron e i Paesi frugali non hanno subito sconfitte, al pari dei quattro di Visegrad che manterranno intatta la loro visione di una democrazia illiberale e la loro sfida alle istituzioni democratiche dell’Europa. Ecco, il successo di Conte termina là dove la Merkel a Macron hanno portato l’Europa, in uno spazio e in una dimensione da esplorare, un nuovo orizzonte politico su cui ricostruire la ragione e la forza dell’Istituzione Europea, una prima forma di federalismo, che potrà avere sviluppi imprevedibili e rifondativi di sistema, di integrazione di aree e comparti finanziari, sociali economici, giuridici, di cui l’accordo sul Recovery Fund è un primo, decisivo passo per incamminare i 27 in quella direzione. E’ qui, su questa linea, che demarca la presunta vittoria di Conte dal disegno che presiede all’accordo sul Recovery, che si avverte la limitatezza, l’impreparazione i limiti di questo Governo e del suo Presidente del Consiglio. La scommessa è di poter ancora recuperare l’Italia quale partner indispensabile e insostituibile per dare contenuto a questa sfida. Allora non illudiamoci, le condizionalità sostanziali introdotte con il Recovery Fund, non potranno essere eluse, escluse, superate: le riforme che i nostri protettori si aspettano siano realizzate dovranno rispettare le compatibilità e conciliarsi con il disegno del cambiamento. Non ci saranno appelli e loro non ci daranno tregua perchè troppo compromessi ed esposti ai rischi di un fallimento.
A Conte mancano le tre qualità che Max Weber riteneva sommamente decisive per l’uomo politico: passione, senso della responsabilità, lungimiranza ( dalla Politica come professione 1919 ). Passione nel senso di Sachlichkeit: [obbiettività] dedizione appassionata a una “causa” (Sache), al dio o al diavolo che la dirige. […] Essa non crea l’uomo politico mettendolo al servizio di una “causa” e quindi facendo della responsabilità, nei confronti appunto di questa causa, la guida determinante dell’azione. Da qui la necessità della lungimiranza – attitudine psichica decisiva per l’uomo politico – ossia della capacità di lasciare che la realtà operi su di noi con calma e raccoglimento interiore: come dire, cioè, la distanza tra le cose e gli uomini. La “mancanza di distacco” [Distanzlosigkeit], semplicemente come tale, è uno dei peccati mortali di qualsiasi uomo politico e una di quelle qualità che, coltivate nella giovane generazione dei nostri intellettuali, li condannerà all’inettitudine politica. E il problema è appunto questo: come possono coabitare in un medesimo animo l’ardente passione e la fredda lungimiranza? La politica si fa col cervello e non con altre parti del corpo o con altre facoltà dell’animo. E tuttavia la dedizione alla politica, se questa non dev’essere un frivolo gioco intellettuale ma azione schiettamente umana, può nascere ed essere alimentata soltanto dalla passione. Ma quel fermo controllo del proprio animo che caratterizza il politico appassionato e lo distingue dai dilettanti della politica che semplicemente “si agitano a vuoto”, è solo possibile attraverso l’abitudine alla distanza in tutti i sensi della parola. Spetterebbe al PD prendere l’iniziativa e mettere i 5stelle di fronte ad una implacabile realtà: cogliere l’opportunità del cambiamento che i Recovery Fund e l’Europa ci prospettano mettendo a punto un programma con un nuovo governo guidato da una personalità che esprima al meglio le tre qualità indicate da Mx Weber. Una scelta da compiere in fretta, entro quest’anno, per intraprendere una nuova strada che porti il nostro Paese al centro dell’Europa con un nuovo modello di sviluppo centrato sul lavoro, la solidarietà, l’istruzione generalizzata, l’assistenza sanitaria universale e gratuita e un progetto per l’ambiente e il clima in linea con i valori contenuti nel programma di cui si è dotata la nuova commissione Europea.
Alberto Angeli
Vittoria? di S. Bagnasco
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Considero positivo, nonostante le criticità, l’accordo raggiunto in Europa sul cosiddetto Recovery Fund, ma non trovo ci sia nulla da esultare, al punto di sproloquiare di vincitori.
Se ci sono dei vincitori vuol dire che ci sono degli sconfitti e questo in ogni caso non va bene in una comunità sovranazionale.
Più produttivo sarebbe tentare di comprendere in cosa consiste l’intervento europeo.
Nessuno ci regala 209 miliardi di euro; stiamo parlando sostanzialmente di debito che andrà restituito e in più sottoposto a condizioni e gradimento del Consiglio europeo.
Le condizioni poste coincidono con le raccomandazioni fatte all’Italia, che da tempo sono viste con sdegno da buona parte del mondo politico italiano, e con gli obiettivi che l’UE si è data (transizione verde e digitalizzazione).
Le raccomandazioni che ci riguardano direttamente sono: riforma del fisco, riforma del lavoro, riforma della giustizia, riduzione del debito e a questo scopo andranno indirizzate tutte le entrate straordinarie, taglio strutturale della spesa pubblica pari a 0,6% del PIL.
Ciascun Paese presenterà entro l’autunno un piano triennale (2021-2023) che, una volta approvato dalla Commissione e dal Consiglio europeo, diventerà esecutivo ma dovrà soddisfare i target intermedi e finali. Il Comitato economico e finanziario verificherà questi target e se in questa sede qualche Paese riterrà che ci siano problemi, potrà chiedere che il Consiglio europeo deliberi la sospensione dell’erogazione dei finanziamenti.
Il piano approvato consentirà di ricevere il 70% dei fondi nel biennio 2021-2022 e il 30% l’anno successivo. L’Italia, dunque, dovrebbe ricevere 146 miliardi nei prossimi due anni e 63 nel 2023, ma attenzione perché il piano è sottoposto a revisione nel 2022, prima della ripartizione della tranche relativa al 2023. Su questi fondi potremo ricevere una anticipazione pari al 10% già a fine anno, diversamente bisognerà attendere con molta probabilità la primavera 2021.
In confronto le condizioni per l’utilizzo del fondo Mes destinato alle spese sanitarie dirette e indirette sono una passeggiata in riva al mare.
Perché si esulta per un prestito condizionato che si chiama Recovery Fund e si ostinano a dire no al prestito immediatamente disponibile rappresentato dal fondo Mes per le spese sanitarie?
In definitiva, si tratta di prestiti con condizionalità minori con il fondo Mes, maggiori con il Recovery.
Quando qualcuno, a partire da Conte, spiegherà perché bisogna esultare per il condizionato prestito del Recovery e stare alla larga dal poco condizionato fondo Mes … allora si potrà cominciare a discutere seriamente, chiudendo la stagione dell’infantilismo politico.
Pioveranno sull’Italia 209 miliardi di euro di cui 81,4 a fondo perduto? Abbiamo vinto la lotteria?
Le cose non stanno esattamente in questi termini.
I cosiddetti aiuti a fondo perduto sono in realtà quasi tutti prestiti; perché questi fondi arrivano dall’emissione di bond da parte della Commissione europea che aumenterà il bilancio dell’Unione Europea messo a garanzia.
Ogni Paese contribuisce pro quota al bilancio dell’UE e con certezza al momento sappiamo che circa 55 miliardi di questi 81,4, erroneamente definiti a “fondo perduto”, dovranno essere restituiti a partire dal 2027. Tutti i prestiti dovranno essere in ogni caso restituiti entro il 2058.
In definitiva, di prestiti stiamo parlando e realisticamente non potrebbe essere diversamente poiché l’UE vive con le contribuzioni dei Paesi membri e se si finanzia sui mercati a sua volta deve rimborsare quanto raccolto.
La cosa vera d cui dovremmo esultare è che per la prima volta i Paesi UE hanno deciso di sottoscrivere un debito comune e abbiamo così l’opportunità di rimettere in piedi il Paese senza ricorrere direttamente ai mercati finanziari facendo lievitare i già stratosferici interessi.
Una opportunità che spetterà a noi saper cogliere.
A questo punto, due considerazioni dal mio punto di vista non secondarie.
Questa “vittoria” è stata comprata svincolando di fatto gli aiuti finanziari dal rispetto dello “stato di diritto” e dei principi fondativi dell’UE, con grande soddisfazione soprattutto di Ungheria e Polonia.
Con questo accordo è altamente probabile che il quantitative easing, di cui l’Italia è il primo beneficiario, non sarà rinnovato e questo deve indurci a grande cautela perché se non operiamo con equilibrio tra assistenza, rilancio dell’economia e risanamento della macchina statale, rischiamo di far schizzare lo spread e di conseguenza i tassi di interesse.
L’altro punto da tenere presente è che adesso in nome della pandemia è stato abbandonato il cosiddetto “capital key”, vale a dire la regola secondo cui la BCE può acquistare titoli dei paesi membri rispettando le quote di partecipazione di ogni Paese al capitale della BCE. Se dovesse essere ripristinato questo principio, l’Italia perderebbe un vantaggio di cui sinora ha goduto.
Si tenga infine presente che la contribuzione di ogni Paese alla BCE è in relazione a due parametri: popolazione e PIL. Anche il bilancio dell’UE è basato per il 70% sulle contribuzioni di ciascun paese con riferimento alla quota di PIL nazionale sulla somma dei PIL dei paesi membri.
Ne consegue che un cittadino lussemburghese contribuisce in misura doppia rispetto a un cittadino italiano; anche un cittadino olandese, finlandese e austriaco contribuisce più di un italiano. Quindi, finiamola di stupirci per la giusta attenzione che questi Paesi hanno per l’utilizzo dei soldi europei.
Abbiamo una grande opportunità, ma non parliamo di vittoria perché la partita deve ancora iniziare e la vera vittoria ci sarà quando ci metteremo alle spalle atavici comportamenti.
Non trasformiamo una non-vittoria in una vera e pesante sconfitta.
Sergio Bagnasco
Se essere mamma fa a pugni col lavoro. di S. Bagnasco
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L’Ispettorato del lavoro ci informa che nel 2019 le donne che hanno lasciato volontariamente il lavoro sono state 37.611; nel 2011 erano state 17.175 e anno dopo anno aumentano incessantemente.
Il 65% delle donne lasciano per le difficoltà di conciliare il lavoro con la cura dei figli.
La fascia di età è concentrata tra 29 e 44 anni, nel pieno quindi della vita professionale.
La vita familiare si conferma poco paritaria e il gap tra i generi ancora enorme.
C’è poco da farfugliare di natalità, se non si affronta la questione del diritto per una donna di essere lavoratrice e madre e la questione della disoccupazione giovanile. Perché mi pare ovvio che i giovani sono disoccupati in modo impressionante non perché si fanno pochi figli ma perché questo Paese non offre opportunità ai giovani dopo aver chiesto alle donne di rinunciare al lavoro o a essere madre.
Le ragioni di questi insuccessi, che con costanza raccogliamo anno dopo anno, sono sempre gli stessi: carenza dei servizi per la prima infanzia, costi troppo alti per l’assistenza attraverso nidi o baby sitter, mancanza di posti al nido, mancanza di parenti a supporto delle giovani famiglie, questione sempre più stringente considerato che sempre più spesso le giovani coppie si formano lontane dai luoghi di origine perché lontano dalle rispettive famiglie hanno trovato lavoro.
La realtà è quindi ancora quella di decenni fa, nonostante i fiumi di parole su occupazione femminile, parità di genere e natalità: la donna troppo spesso è ancora posta di fronte alla scelta tra diventare mamma o lavorare.
Non ci siamo!
Adesso si profila il Family Act, vedremo come si concretizzerà; certamente un passo avanti, ma al momento mi sembra inidoneo a risolvere i problemi reali perché al primo posto non c’è il nido accessibile a tutti e la scuola a tempo pieno.
L’assegno universale e i congedi parentali non compensano la mancanza di adeguati servizi per l’infanzia.
Sergio Bagnasco
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