Laicità
Un esempio storico per costruire un mondo civile e giusto. di A. Angeli

Erodoto, Senofonte, Platone e tanti altri si sono cimentati nel corso del periodo dell’antichità classica ad esplorare e trattare gli aspetti sociali riguardanti l’amore tra persone dello stesso sesso. Tra queste, nelle terre elleniche, la forma più diffusa dei rapporti sessuali tra persone dello stesso sesso era prevalentemente quella tra adolescenti e adulti, che in quel periodo era indicato come pederastia. Dalla lettura dei testi scopriamo che i greci non concepivano l’orientamento sessuale come un identificatore sociale, questo era dovuto al fatto che la società greca non era interessata a distinguere il comportamento sociale dal sesso in cui erano coinvolti i partecipanti, limitandosi a considerare solo il ruolo che ciascuno dei partecipanti assumeva nel rapporto e nell’atto sessuale, indicandoli come passivo o attivo. Si sa con ampiezza di analisi che tali rapporti erano considerati in contrasto con le rigide convenzioni sociali che con tali atti erano violate. Dalle letture dei pensatori dell’epoca non si trovano elementi per valutare come fossero considerati i rapporti sessuali fra le donne e quale fosse il giudizio della società su tale comportamento, soprattutto se si tiene conto di quanto scritto in materia dalla poetessa di Lesbo, Saffo.
Nello scorrere dei secoli, dopo i greci, dei romani e poi dal medio evo e, superando il periodo della modernità fino alle soglie del XXI secolo, anche a causa di una forte ingerenza religiosa nell’orientamento culturale e sociale sulla formazione delle leggi riguardanti appunto i comportamenti considerati innaturali e offensivi della cultura e delle leggi allora in vigore, gli orientamenti omosessuali, transessuali, donne e disabili si palesano come atti criminali e quindi condannabili.
In questo 1°/4 del XXI secolo in molti paesi che fondano la loro cultura su principi di laicità dello stato e su un sistema democratico/ parlamentare, dello svolgimento della vita politica e istituzionale, si colgono significativi cambiamenti e l’adozione di conseguenti provvedimenti di sostegno a LGBT+, compreso il riconoscimento giuridico del matrimonio tra persone dello stesso sesso. Anche da noi, in Italia, la questione dell’orientamento sessuale e dei rapporti tra persone dello stesso sesso è al centro di un difficile scontro di natura culturale, in cui centrale è la ragione di coloro che si battono contro ogni criminalizzazione dell’omofobia. Per raggiungere questo obiettivo è stato predisposto un Ddl da parte del parlamentare On. Alessandro Zan in corso di approvazione al senato della Repubblica, avendo ricevuto già il voto positivo della Camera. L’opposizione della destra, alla quale si è associata IV di Renzi, rende il percorso del Ddl difficile e, a seconda del risultato, con possibili riflessi negativi sulla maggioranza di governo che sostiene Draghi.
Purtroppo, coloro che si battono contro una legge necessaria per introdurre nel nostro sistema diritti inalienabili e sanzioni contro l’omotransfobia e la misoginia, sono la continuità storica di una cultura fascista, autoritaria e una concezione della superiorità razziale, una retrocultura da fa valere contro i più deboli. Merita al proposito ricordare un evento di forte interesse culturale, poiché coinvolge una donna omossessuale. Si tratta di un libro, uscito nel 1925, in cui si dà voce alle lesbiche. L’autrice si chiamava Eve Adams pseudonimo del nome Evelyn Addams, e il suo libro “Lesbian Love”. L’autrice, considerata all’epoca indecente, nata ebrea, trova la sua fine nel Passenger 847 su Transport 63 to Auschwitz.
Il libro, “Lesbian Love”, è una raccolta di racconti e illustrazioni pubblicato nel febbraio 1925. Esplora i risvegli sessuali e la natura che sfida il genere di diverse dozzine di donne di diversa collocazione sociali che Adams aveva incontrato in Greenwich Village e nei suoi viaggi, come commessa itinerante di periodici multilingue rivoluzionari. Ha cambiato i nomi dei suoi personaggi per proteggere le loro identità.
Negli anni ’20, Adams gestiva una sala da tè per lesbiche e un ritrovo letterario nel seminterrato di 129 Macdougal Street nel Greenwich Village. All’epoca, libri come quello della Adams erano considerati indecenti e bruciati . Le sue 150 copie stampate di “Lesbian Love” sono scomparse. Nel tempo il suo lavoro svanì dalla memoria. Suo fratello più giovane, Yerachmiel Zahavy, perse le sue tracce durante la seconda guerra mondiale. Ha inviato lettere alla Croce Rossa chiedendo dove si trovasse, ma sono state restituite senza risposta. In seguito cercò lei e altri membri della famiglia in Israele e negli Stati Uniti, ma senza successo. Sul letto di morte nel 1983, Yerachmiel chiese a suo nipote Eran Zahavy, allora 18enne, di continuare le ricerche. “Devi cercare Chawa”, disse, usando il nome di nascita di Adams. Quello che non sapeva era che sua sorella era stata catturata e mandata nel campo di concentramento di Auschwitz nella Polonia occupata dai nazisti. Il giovane Zahavy mantenendo fede alla richiesta di suo nonno si mise a fare ricerche. Attraverso un contatto con un drammaturgo che aveva scritto pezzi teatrali su Adams, riuscì a ricostruire la vita della lontana parente.
Secondo le cronache Chawa Zloczower è nata il 27 giugno 1891 a Mlawa, in Polonia. Piena di voglia di viaggiare, da giovane si imbarcò sulla SS Vaderland ad Anversa, in Belgio, e, all’età di 20 anni, arrivò da sola a Ellis Island a New York il 4 giugno 1912. Parlava sette lingue, incluso l’ebraico, e scrisse in una lettera a un amico che si sentiva completamente a casa e da nessuna parte. “In tutto il mondo, sono una straniera”, scrisse, “e nel paese in cui sono nata, sono ebrea”. Presto assunse la traduzione inglese del suo nome, Eve. E appoggiandosi a quella che il suo biografo, Jonathan Ned Katz , ha descritto come “la sua persona androgena”, ha combinato “un po’ di Eva, un po’ di Adamo” per un nome più adatto a lei. Preferendo i vestiti da uomo e la compagnia delle donne, Adams ha vissuto la sua vita con audacia in un momento in cui il mondo considerava che l’unico modo decente di viverlo era tenerlo a porte chiuse. Tra i suoi amici annoverava gli anarchici e rivoluzionari Emma Goldman e Alexander Berkman , nonché l’autore di rottura dei tabù Henry Miller .
Il governo degli Stati Uniti considerava Adams un “agitatrice”. Si mosse l’FBI guidata da J. Edgar Hoover , la “Divisione radicale” dell’agenzia, che l’accusa di spionaggio. Fu arrestata nel 1927 da un agente di polizia sotto copertura , Margaret M. Leonard , che era entrata nell’Hangout di Eve e aveva ottenuto una copia di “Lesbian Love”. Il libro fu ritenuto indecente e Adams è stata trattenuta con diverse accuse, tra cui per manifesta condotta disordinata. Fu condannata e trascorse 18 mesi in prigione prima di essere deportata in Polonia il 7 dicembre 1927. Nel 1934 si trasferisce a Parigi, dove, nei caffè, vende libri proibiti, tra cui “Tropic of Cancer” di Henry Miller. Nel giugno 1940, mentre le truppe tedesche si avvicinavano a Parigi, lei fugge nel sud della Francia dove aiuta la Resistenza. Viene arrestata mentre viveva a Nizza e trasporta nel campo di internamento di Drancy a Parigi nel dicembre 1943. Trasferita ad Auschwitz nel 1945, come è stato rilevato dai registri del campo di prigionia, è sottoposta alla doccia con altri 850 ebrei. Una strada nel 18° arrondissement di Parigi, sulla riva destra vicino a Porte de La Chapelle, porta ora il suo nome, celebrando il suo contributo alla città come “attivista pioniera per i diritti delle donne”. Anche una scuola e un asilo sono intitolati a lei, e per questo autunno è prevista una cerimonia di inaugurazione che coinvolge le ambasciate polacca e americana.
Alberto Angeli
S’ode a sinistra uno squillo di tromba! di D. Lamacchia

Curzio Maltese su Repubblica di stamane fa un paragone tra Enrico Letta e Enrico Berlinguer. In sostanza assimila Letta a Berlinguer. Ognuno è libero di associare quello che vuole e se ci si sforza similitudini si trovano anche tra il carciofo e la pastinaca…
Chiarisco subito che è solo una battuta, non ho giudizi negativi su Letta. Solo rimarcare come si possa usare un qualsiasi paragone pur di giustificare l’adesione a questa o a quella linea politica. L’intento di Maltese è cercare di attribuire a Letta caratteri di sinistra. Quindi come meglio che paragonarlo a Berlinguer?
Ora il punto vero è: Letta è di sinistra o no? E ancora cosa vuol dire essere di “sinistra”? Cosa differenzia “destra” da “sinistra? Lungi dall’avere la presunzione di sciogliere nodi che personalità ben più dotate di me non sono state capaci di sciogliere provo a dare una mia modesta interpretazione. Ci si potrebbe sbrigare affermando che nel conflitto capitale-lavoro è di sinistra chi sta dalla parte del lavoro, di destra il contrario. Tuttavia non è sufficiente.
Ad entrare in gioco ci sono componenti che non possono essere ridotte tutte a mera conflittualità socio-economica. Per esempio le ragioni socio-culturali o quelle religiose. Oggi giorno non si può prescindere dalla variabile ecologica per esempio. Per molti essa è la variabile centrale fino a confondere l’ecologia come caposaldo della cultura di sinistra. Per me un’errore. Gramsci è stato il pensatore che maggiormente ha considerato queste variabili. Si pensi al suo concetto di “egemonia” e alle forme e agli strumenti del gruppo dominante di esercitarla. Dunque oltre al lavoro cos’altro?
Partiamo da una considerazione che prova a sintetizzare i concetti, consideriamo le dinamiche in termine di cicli. Il liberismo osserva il ciclo impresa-persona-impresa. Il focus di una visione liberista è l’economicismo rappresentato nell’esempio dall’impresa. Per semplificare in una situazione di crisi il ramo secco è la persona e l’oggetto da preservare è l’impresa. La persona è considerata un mezzo e non un fine. In una cultura di sinistra il ciclo da considerare è persona-impresa-persona. Il focus è la persona, l’impresa un mezzo, ancorché efficiente e produttivo. Il centro della riflessione quindi è quali sono le finalità che un sistema sociale si prefigge. In questo schema sicuramente entrano come variabili importanti temi come la libertà, di pensiero e di azione, delle singole persone e dei soggetti associati. Libertà che è relativa alla sfera economica e non. Come si formano i desideri, le motivazioni al consumo, all’agire? Chi seleziona i bisogni? Chi organizza le risposte ai bisogni?
In altri termini per stare a Gramsci come si formano le dominanti egemoni? Se il centro è l’impresa tutto le si conforma. Diverso se il centro è la persona, la persona che lavora. Il termine “ricchezza” assume significato diverso se la finalità è l’impresa o la persona. Letta da che parte sta? Ora è indubbio che l’attenzione alla persona è l’elemento che più accomuna una visione cattolica a cui egli appartiene e una visione politicamente di sinistra. Non basta però. Ciò è solo una premessa, servono pratiche, programmi, azioni. Giusto come esempi grossolani, articolo 18 si o no? Industria bellica si o no? Ius soli si o no? Bersani, D’Alema o Renzi, Verdini? Ecc.
Buona riflessione.
Donato Lamacchia
La scuola secondo Draghi. di D. Lamacchia

Nel suo discorso di investitura al senato nell’affrontare il tema della scuola ciò che mi ha colpito è stato il riferimento alla scuola privata e alla possibilità dei ragazzi (le famiglie) di scegliere tra alternative.
A partire da un costo base ognuno deve poter scegliere tra scuola pubblica e scuola privata. In sostanza un vecchio obiettivo, in parte già attuato, di finanziare le scuole private, in prevalenza scuole cattoliche. In apparenza questo concetto è giusto facendo credere ad una parità di costi tra le due alternative. In realtà la parità è un inganno perché nella realtà i costi si moltiplicano, ai costi per la scuola pubblica si aggiungono quelli per la privata. A meno di ridurre sensibilmente i primi. Cosa attuata dai precedenti governi di matrice centro-destra. Sappiamo tutti come una scuola rinnovata significhi innanzitutto investimenti, forti, in edilizia scolastica. Per rinnovarne la sicurezza e soprattutto per raggiungere l’obiettivo di dimezzare il numero di alunni per classe, se si vuole attuare una didattica degna del nome. Si aggiungano i costi per l’aumento di personale, insegnante e non, e miglioramento della logistica complessiva e si ha un’idea del volume degli investimenti necessari.
Come è possibile, in pratica distinguere tra pubblico e privato? Gli investimenti richiedono sin dall’inizio di stabilire che indirizzo avere, diversamente si ottiene solo spreco senza raggiungere gli obiettivi. Che dire dell’implicazione sul piano sociale di uno sviluppo delle private? Si favorirebbe la creazione di scuole di serie A e scuole di serie B. Indovinate a chi andrebbero le une e a chi le altre. La scuola è l’elemento base per la creazione di ascensori sociali. Se si vuole dare ad ognuno pari opportunità sociale si deve garantire ad ognuno pari opportunità di formazione!
Veniamo al discorso del pluralismo. Ai sovranisti dell’ultima ora non viene in mente che ogni discorso sull’unità nazionale passi attraverso una unità della formazione? Perché allora la spasmodica richiesta di interventi nel privato? Il pluralismo vero è il pluralismo nella scuola non delle scuole. Si cominci con l’introduzione dello studio della storia delle religioni e non di una sola di esse, per esempio. La scuola deve essere mirata alla formazione di cittadini coscienti e critici non solo di cittadini-produttori. Non si deve sapere solo come ma anche perché.
Riformare la scuola quindi significa avere chiara una visione dello sviluppo sociale che si intende avere per adeguare organicamente la formazione dei suoi componenti. E’ necessario impedire perciò l’esistenza di scuole private? Assolutamente no! Chi la vuole è libero di farla, ma se la paghi! Riguardo ai contenuti scolastici? Sarebbe troppo lungo, magari un’altra volta…Solo una domanda, saprà la sinistra capace di difendere la scuola pubblica? Speriamo!
Donato Lamacchia
Serve una cultura di pace, oggi è minoritaria, di G. Viale
La guerra non è fatta solo di armi, eserciti, fronti, distruzione e morte. Comporta anche militarizzazione della società, sospensione dello stato di diritto, cambio radicale di abitudini, milioni di profughi, comparsa di “quinte colonne” e, viva iddio, migliaia di disertori e disfattisti, amici della pace. Quanto basta per capire che siamo già in mezzo a una guerra mondiale, anche se, come dice il papa, “a pezzi”.
Questa guerra, o quel suo “pezzo che si svolge intorno al Mediterraneo, è difficile da riconoscere per l’indeterminatezza dei fronti, in continuo movimento, ma soprattutto degli schieramenti. Se il nemico è il terrorismo islamista e soprattutto l’Isis, che ne è il coagulo, chi combatte l’Isis e chi lo sostiene? A combatterlo sono Iran, Russia e Assad, tutti ancora sotto sanzione o embargo da parte di USA e UE; poi i peshmerga curdi, che sono truppe irregolari, ma soprattutto le milizie del Rojava e il Pkk, che la Turchia di Erdogan vuole distruggere, e Hezbollah, messa al bando da USA e UE, insieme al Pkk, come organizzazioni terroristiche. A sostenere e armare l’Isis, anche ora che fingono di combatterlo (ma non lo fanno), ci sono Arabia Saudita, il maggiore alleato degli Usa in Medioriente, e Turchia, membro strategico della Nato. D’altronde, ad armare l’Isis al suo esordio sono stati proprio gli Stati uniti, come avevano fatto con i talebani in Afghanistan. E se la Libia sta per diventare una propaggine dello stato islamico, lo dobbiamo a Usa, Francia, Italia e altri, che l’hanno fatta a pezzi senza pensare al dopo. Così l’Europa si ritrova in mezzo a una guerra senza fronti definiti e comincia a pagarne conseguenze mai messe in conto.
La posta maggiore di questa guerra sono i profughi: quelli che hanno varcato i confini dell’Unione europea, ma soprattutto i dieci milioni che stazionano ai suoi bordi: in Turchia, Siria, Iran, Libano, Egitto, Libia e Tunisia; in parte in fuga dalla guerra in Siria, in parte cacciati dalle dittature e dal degrado ambientale che l’Occidente sta imponendo nei loro paesi di origine. Respingerli significa restituirli a coloro che li hanno fatti fuggire, rimetterli in loro balìa; costringerli ad accettare il fatto che non hanno altro posto al mondo in cui stare; usare i naufragi come mezzi di dissuasione.
Oppure, come si è cercato di fare al vertice euro-africano di Malta, allestire e finanziare campi di detenzione nei paesi di transito, in quel deserto senza legge che ne ha già inghiottiti più del Mediterraneo; insomma dimostrare che l’Europa è peggio di loro. Ma respingerli vuol dire soprattutto farne il principale punto di forza di un fronte che non comprende solo l’Isis, le sue “province” vassalle ormai presenti in larga parte dell’Africa e i suoi sostenitori più o meno occulti; include anche una moltitudine di cittadini europei o di migranti già residenti in Europa che condividono con quei profughi cultura, nazione, comunità e spesso lingua, tribù e famiglia di origine; e che di fronte al cinismo e alla ferocia dei governi europei vengono sospinti verso una radicalizzazione che, in mancanza di prospettive politiche, si manifesta in una “islamizzazione” feroce e fasulla.
Un processo che non si arresta certo respingendo alle frontiere i profughi, che per le vicende che li hanno segnati sono per forza di cose messaggeri di pace.
Troppa poca attenzione è stata dedicata invece alle tante stragi, spesso altrettanto gravi di quella di Parigi, che costellano quasi ogni giorno i teatri di guerra di Siria, Iraq, Afghanistan, Libia, Nigeria, Yemen, ma anche Libano o Turchia. Non solo a quelle causate da bombardamenti scellerati delle potenze occidentali, ma anche quelle perpetrate dall’Isis e dai suoi sostenitori, di Stato e non, le cui vittime non sono solo yazidi e cristiani, ma soprattutto musulmani. “Si ammazzano tra di loro” viene da pensare a molti, come spesso si fa anche con i delitti di mafia. Ma questo pensiero, come quella disattenzione, sono segni inequivocabili del disprezzo in cui, senza neanche accorgercene, teniamo un’intera componente dell’umanità.
E’ di fronte a quel disprezzo che si formano le “quinte colonne” di giovani, in gran parte nati, cresciuti e “convertiti” in Europa, che poi seminano il terrore nella metropoli a costo e in sprezzo delle proprie come delle altrui vite; e che lo faranno in futuro sempre di più, perché i flussi di profughi e le cause che li determinano (guerre, dittature, miseria e degrado ambientale) non sono destinati a fermarsi, quali che siano le misure adottate per trasformare l’Europa in una fortezza (e quelle adottate o prospettate sono grottesche, se non fossero soprattutto tragiche e criminali).
Coloro che invocano un’altra guerra dell’Europa in Siria, in Libia, e fin nel profondo dell’Africa, resuscitando le invettive di Oriana Fallaci, che speravamo sepolte, contro l’ignavia europea, non si rendono conto dei danni inflitti a quei paesi e a quelle moltitudini costrette a cercare una via di scampo tra noi; né dell’effetto moltiplicatore di una nuova guerra. Ma in realtà vogliono che a quella ferocia verso l’esterno ne corrisponda un’altra, di genere solo per ora differente, verso l’interno: militarizzazione e disciplinamento della vita quotidiana, legittimazione e istituzionalizzazione del razzismo, della discriminazione e dell’arbitrio, rafforzamento delle gerarchie sociali, dissoluzione di ogni forma di solidarietà tra gli oppressi. Non hanno imparato nulla da ciò che la storia tragica dell’Europa avrebbe dovuto insegnarci.
Una politica di accoglienza e di inclusione dei milioni di profughi diretti verso la “fortezza Europa”, dunque, non è solo questione di umanità, condizione comunque irrinunciabile per la comune sopravvivenza. E’ anche la via per ricostruire una vera cultura di pace, oggi resa minoritaria dal frastuono delle incitazioni alla guerra. Perché solo così si può promuovere diserzione e ripensamento anche tra le truppe di coloro che attentano alle nostre vite; e soprattutto ribellione tra la componente femminile delle loro compagini, che è la vera posta in gioco della loro guerra. Nei prossimi decenni i profughi saranno al centro sia del conflitto sociale e politico all’interno degli Stati membri dell’UE, sia del destino stesso dell’Unione, oggi divisa, come mai in passato, dato che ogni governo cerca di scaricare sugli altri il “peso” dell’accoglienza.
Eppure, fino alla crisi del 2008 l’UE assorbiva circa un milione di migranti ogni anno (e ne occorrerebbero ben 3 milioni all’anno per compensare il calo demografico). Ma perché, allora, l’arrivo di un milione di profughi è diventato improvvisamente una sciagura insostenibile? Perché da allora l’Europa ha messo in atto una politica di austerity, a lungo covata negli anni precedenti, finalizzata a smantellare tutti i presidi del lavoro e del sostegno sociale e a privatizzare a man bassa tutti i beni comuni e i servizi pubblici da cui il capitale si ripromette quei profitti che non riesce più a ricavare dalla produzione industriale. Ma quelle politiche, che non danno più né lavoro né redditi decenti a molti, né futuro a milioni di giovani, non possono certo concedere quelle stesse cose a profughi e migranti. Devono solo costringerli alla clandestinità, per pagarli pochissimo, ridurli in condizione servile, usarli come arma di ricatto verso i lavoratori europei per eroderne le conquiste.
Per combattere questa deriva occorrono non solo misure di accoglienza (canali umanitari per sottrarre i profughi ai rischi e allo sfruttamento degli “scafisti” di terra e di mare, e permessi di soggiorno incondizionati, che permettano di muoversi e lavorare in tutti i paesi dell’Unione); ma anche politiche di inclusione: insediamenti distribuiti per facilitare il contatto con le comunità locali, reti sociali di inserimento, accesso all’istruzione e ai sevizi, possibilità di organizzarsi per avere voce quando si decide il futuro dei loro paesi di origine. Ma soprattutto, lavoro: una cosa che un grande piano europeo di conversione ecologica diffusa, indispensabile per fare fronte ai cambiamenti climatici in corso e alternativo alle politiche di austerity, renderebbe comunque necessaria.
Ma per parlare di pace occorre che venga bloccata la vendita di armi di ogni tipo agli Stati da cui si riforniscono l’Isis e i suoi vassalli, che non le producono certo in proprio.
Guido Viale
Pubblicato su “Il manifesto” il 18/11/2015
http://ilmanifesto.info/serve-una-cultura-di-pace-oggi-e-minoritaria/
La capitale immorale, di A. Asor Rosa
Adesso basta. Roma ha più del doppio degli abitanti di Milano (2.869.169 contro 1.342.385). Quanto ad estensione, il confronto non è neanche pensabile (1.287,36 kmq contro 181,67; se si parla delle due città metropolitane, il divario si allarga a dismisura: 5.363,28 kmq, contro 1.575). Se caliamo la mappa di Milano su quella di Roma, Milano parte dal Quarticciolo e arriva a Porta San Giovanni: non entra neanche nella porzione storica e monumentale della Capitale. Non si capisce quale senso abbia la vana chiacchiera di trasferire il modello dell’una (se c’è) sull’altra.
Naturalmente, si può governare bene una città di medie dimensioni (come Milano) e male una metropoli (come Roma), come anche viceversa. Le dimensioni e i rapporti, però, sono incommensurabili. Roma è al quarto posto fra le grandi città europee, dopo Londra, Berlino e Madrid, non a caso tutte capitali dei rispettivi Stati. Milano si colloca nel campo delle città di medie dimensioni (al tredicesimo posto al livello europeo, credo). Se si deve ipotizzare un rapporto a livello mondiale, l’unica città italiana degna d’esser presa in considerazione è Roma (per questi, e soprattutto per altri motivi, sui quali tornerò più avanti).
Milano “capitale morale”? Qualche anno fa apparve un bel libro, Il mito della capitale morale, forse recentemente ristampato, di Giovanna Rosa (non ci sono parentele, neanche a metà, fra me e l’autrice): libro che nessuno cita, e nessuno mostra di aver letto. Il “mito”, appunto: non “la capitale morale”. Un lungo percorso dal Risorgimento a oggi, fatto di fatti, illusioni e disillusioni, cadute e riprese, riprese e cadute. Del resto, se prendessimo alla lettera per Milano la definizione di “capitale morale”, dovremmo chiederci sul piano storico come sia stato possibile che da siffatta realtà politico-urbanistico-civile siano precipitate sull’Italia le due sciagure politico-istituzionali ed etico-politiche più terrificanti dell’ultimo secolo e mezzo, Benito Mussolini e Silvio Berlusconi. Che Torino, culla della nostra unità nazionale, per questo e per altri motivi, sia più degna di tale definizione?
Su Roma, la Capitale, l’unica città italiana in grado di entrare in una competizione e classificazione internazionale, sono precipitate nel tempo tutte le contraddizioni e tutto il degrado di cui è stato capace (o incapace) questo disgraziato paese, — l’Italia. Roma è, ahimè, il luogo del potere e dei Palazzi: la Presidenza della Repubblica, la Presidenza del Consiglio e il Governo, il Senato, la Camera dei Deputati, i Ministeri, gli organismi dirigenti della Magistratura, della scuola, dell’Università, dei corpi separati dello Stato, ecc. ecc. Tutti, ovviamente, gestiti al novanta per cento da non romani: tutti orientati a difendere interessi che con Roma non avevano niente a che fare. Roma, per quanto mi concerne, è se mai vittima, non carnefice. Quando ha preso democraticamente la parola, lo ha fatto poco e male. Con Alemanno ha dato il peggio di sé, sul piano etico, civile e amministrativo. Anche questo oggi è ampiamente e vistosamente dimenticato e accantonato, per non interferire neanche mentalmente con le procedure di esecuzione sommaria dell’ultimo Sindaco.
A Roma, poi (anche questo avete dimenticato?), c’è il Vaticano. Il Vaticano è al tempo stesso una grande potenza religiosa e una grande potenza temporale, terrena. E, — lo dico con assoluta persuasione, — non può essere che così. Non può essere che così, nessuno, né dal basso né dall’alto, potrebbe impedirlo (Gesù, unico, per volerlo fare, è finito nell’orto di Getsemani e poi sulla croce). La proclamazione del presente Giubileo ne è la più vicina e lampante testimonianza. Esprimo il mio stupore: non c’è commentatore di qualche portata che si sia soffermato come meritava su questo passaggio. Un bel giorno Papa Francesco proclama un Giubileo straordinario della Misericordia. E’ l’ultima mazzata: trenta milioni di pellegrini e migliaia di cerimonie nella Capitale, molto immorale forse, ma di certo molto, molto strapazzata. Siccome è improbabile che il Giubileo si svolga dentro le mura dello Stato Vaticano, che del resto non accoglie quasi nulla di quanto lo riguarda, la città intiera ne sarà travolta. Ci sono state consultazioni preventive in proposito? Qualcuno, al di qua del Tevere, ha risposto che andava tutto bene? Improbabile. Dunque, il Vaticano dispone di Roma come fosse cosa sua (è già accaduto altre volte nella storia, anche dopo il 1870). I poteri democratico-rappresentativi a quel punto sono spinti inevitabilmente in un angolo. Cosa potrebbe dire o fare di fronte a un messaggio universalistico-religioso di tale portata? Ma il messaggio universalistico-religioso si trasforma rapidamente in una serie di Ukase politico-temporali sempre più assillanti e persino da un certo momento in poi anche violenti: avete chiuso le buche? Avete rattoppato le metropolitane? A che punto siete con l’accoglienza? Siete in grado di garantire il ristoro? E la sicurezza, la sicurezza, come va?
Il grande evento di Misericordia vale dunque per tutto il mondo (così almeno si dice): ma non vale per Roma, né per i suoi cittadini, né per i suoi amministratori, che infatti, in tutte le occasioni possibili, sono trattati a pesci in faccia, cooperando inevitabilmente (e diciamo consapevolmente) alla distruzione della loro credibilità e del loro prestigio.
A Roma non ci sono gli “anticorpi”? Sì, questo è un po’ vero. Infatti, a Roma, nelle scorse settimane, e con accelerazione crescente negli ultimi giorni, si è consumata la più imponente e capillare distruzione di anticorpi che si sia mai vista in Italia dalla Liberazione a oggi. Anche qui esprimo il mio stupore: osservatori, avete colto davvero quel che è accaduto a Roma nelle scorse settimane e con accelerazione crescente negli ultimi giorni? Il giudizio sul comportamento e le attitudini dirigenziali del sindaco Marino, — un “marziano”, un inetto, un incapace, un supponente, da un certo momento in poi anche uno poco corretto, — non ha niente a che fare con lo svolgimento e la conclusione della faccenda. Se si dovessero rimuovere dai loro incarichi Sindaci, Presidenti delle Regioni, Ministri, Direttori Generali, Rettori, ecc. ecc., — perché “marziani”, inetti, incapaci, supponenti, poco corretti, ecc. ecc, — assisteremmo in poco tempo al crollo verticale dell’intera macchina politico-istituzionale italiana (sarebbe comunque affare della magistratura, come talvolta già accade, non dei politici). Quel che invece è accaduto a Roma è la defenestrazione dall’alto, — per vie politiche, non legali, intendo, — di un uomo politico che non era in grado (e probabilmente non voleva) garantire le attese dei principali poteri interessati alla vicenda: la nuova forma della politica oggi dominante in Italia, il Vaticano, i poteri economici all’arrembaggio della nuova torta.
Il risultato di tutta la vicenda è che esiste oggi in Italia un Potere Supremo il quale è in grado di sbarazzarsi di qualsiasi ostacolo democraticamente rappresentativo, sostituendolo con la figura fin qui anomala ed eccezionale del Commissario, il quale ovviamente è, e non potrebbe non essere, un delegato al servizio di quel medesimo Potere Superiore. Il quale, essendo anch’esso non determinato dal voto popolare ma, diciamo, da una sorta di autocommissariamento del medesimo (com’è noto, il nostro Presidente del Consiglio non ha goduto di tale investitura), tende a riprodursi per geminazione secondo le medesime modalità.
Roma, se è e resta la Capitale d’Italia, la quarta città europea, una delle più importanti del mondo, dal punto di vista del patrimonio artistico e culturale è senza ombra di dubbio la prima. Questo suscita da un bel po’ di tempo una corrente d’invidia e di gelosia, nazionale e internazionale, da far spavento. Essa si collega, e strettamente si congiunge, al progetto dell’attuale potere politico italiano di farne da tutti i punti di sta una cosa propria. A Roma, più che in qualsiasi altra città italiana, abbiamo a che fare con una massa di potere inimmaginabile altrove: Vaticano, poteri economici forti, potere politico di tipo nuovo, incline al commissariamento della Nazione ovunque sia possibile e a suo avviso necessario, procedono affiancati, e nella medesima direzione (non c’è bisogno di pensare a incontri segreti a Via dei Penitenzieri o a Largo Chigi o magari a Palazzo Vecchio a Firenze: basta pensarla nello stesso modo).
Ce la faranno Roma, e i romani, a rovesciare questa mostruosa tendenza? I romani, senza i quali anche il mito di Roma rischia di diventare un’astrazione, sono delusi, confusi, smarriti. Come volete che siano? Avevano votato trionfalmente per Marino esattamente per dare una svoltata alla storia. Ora forze potenti della politica e dell’informazione si affannano quotidianamente a spiegar loro che Marino era semplicemente un “marziano”, un inetto, un incapace, un supponente, uno poco corretto, ecc. ecc., e a spiegarglielo sono esattamente innanzitutto quelli del suo proprio partito, quelli che avevano chiesto loro di votarlo (neanche uno dei consiglieri comunali “dem” che abbia resistito alla sferza del capo, che vergogna!). Però, al tempo stesso, monta l’indignazione, anzi, una rabbia cupa e violenta, contro tutti quelli che hanno realmente combinato tutto questo, il Potere Superiore e i suoi molteplici alleati.
La Capitale immorale giace così sotto il peso degli errori commessi, quelli suoi, certo, ma soprattutto, soprattutto quelli degli altri. Come ultimo schiaffo viene inviato a governarla un Prefetto dal nome beneaugurante di Tronca. All’Expo, — per sue dichiarazioni, — si è occupato dell’ordine pubblico; in precedenza, dei Vigili del fuoco. Competenze, queste, indubitabilmente adeguate a governare la metropoli Roma, le sue contraddizioni e lacerazioni, e a suscitare in lei i nuovi anticorpi. Nel frattempo il Potere Superiore garantisce che il Giubileo sarà un successo come l’Expo. Tutto è money, d’accordo, ma forse qui siamo andati un po’ troppo oltre. Il Vaticano soddisfatto annuisce.
Per sottrarsi a questa nefasta spirale, ed evitare altre cantonate, ci vorrà un lavoro lungo e in profondità, razionale, sì, ma anche rabbioso. Il tempo delle mediazioni è finito, ne comincia un altro, meno disponibile alle prese in giro.
Se ci sono voci disposte a parlare in questo senso, si facciano sentire presto.
Alberto Asor Rosa
articolo pubblicato su “Il manifesto” il 3 novembre 2015 (http://ilmanifesto.info/la-capitale-immorale/)