Senza categoria
Se essere mamma fa a pugni col lavoro. di S. Bagnasco
.
L’Ispettorato del lavoro ci informa che nel 2019 le donne che hanno lasciato volontariamente il lavoro sono state 37.611; nel 2011 erano state 17.175 e anno dopo anno aumentano incessantemente.
Il 65% delle donne lasciano per le difficoltà di conciliare il lavoro con la cura dei figli.
La fascia di età è concentrata tra 29 e 44 anni, nel pieno quindi della vita professionale.
La vita familiare si conferma poco paritaria e il gap tra i generi ancora enorme.
C’è poco da farfugliare di natalità, se non si affronta la questione del diritto per una donna di essere lavoratrice e madre e la questione della disoccupazione giovanile. Perché mi pare ovvio che i giovani sono disoccupati in modo impressionante non perché si fanno pochi figli ma perché questo Paese non offre opportunità ai giovani dopo aver chiesto alle donne di rinunciare al lavoro o a essere madre.
Le ragioni di questi insuccessi, che con costanza raccogliamo anno dopo anno, sono sempre gli stessi: carenza dei servizi per la prima infanzia, costi troppo alti per l’assistenza attraverso nidi o baby sitter, mancanza di posti al nido, mancanza di parenti a supporto delle giovani famiglie, questione sempre più stringente considerato che sempre più spesso le giovani coppie si formano lontane dai luoghi di origine perché lontano dalle rispettive famiglie hanno trovato lavoro.
La realtà è quindi ancora quella di decenni fa, nonostante i fiumi di parole su occupazione femminile, parità di genere e natalità: la donna troppo spesso è ancora posta di fronte alla scelta tra diventare mamma o lavorare.
Non ci siamo!
Adesso si profila il Family Act, vedremo come si concretizzerà; certamente un passo avanti, ma al momento mi sembra inidoneo a risolvere i problemi reali perché al primo posto non c’è il nido accessibile a tutti e la scuola a tempo pieno.
L’assegno universale e i congedi parentali non compensano la mancanza di adeguati servizi per l’infanzia.
Sergio Bagnasco
Appunti per un dibattito più serio sul MES. di V. F. Russo
.
Il MES (meccanismo per la stabilità dell’Eurozona, alias, fondo salva Stati) nasce nel 2010 come evoluzione della EFSF (strumento per la stabilità finanziaria europea) per offrire assistenza finanziaria sulla base di un emendamento all’art. 136 del TFUE (Trattato sul funzionamento dell’Unione europea). Questo dice che i Paesi membri PM dell’Eurozona “possono attivare il meccanismo se indispensabile per la salvaguardia della stabilità dell’eurozona nel suo insieme e che la necessaria assistenza finanziaria richiesta sarà assoggettata a precisa condizionalità”.
Chiariamo subito che la missione fondamentale del MES è garantire la stabilità finanziaria dell’area euro nel suo insieme e che stabilizzazione finanziaria non significa quella del ciclo economico che resta compito delle politiche economiche dei Paesi Membri (PM). La dotazione iniziale di risorse da prestare ai PM che lo richiedano fu fissata in 500 miliardi ed è stata incrementata successivamente.
L’art. 12 prevede le condizionalità che il MES può collegare alle due principali linee di credito attivabili su richiesta di un PM in difficoltà: a) le PCCL (Precautionary Conditioned Credit Line), che comportano una condizionalità attenuata; e linee di credito rafforzate, ECCL (Enhanced Conditions Credit Line), dove la condizionalità è relativamente maggiore ma sempre concordata nel Memorandum d’intesa.
L’art. 13 prevede i termini della condizionalità che sono concordati all’interno di un Memorandum di intesa tra il paese richiedente assistenza e il MES anche attraverso le c.d. Clausole di azione collettiva a suo tempo fissate dall’Eurogruppo il 28-11-2010. La procedura di richiesta di assistenza da parte degli PM scatta dopo che si sia accertata l’esistenza di un rischio per la stabilità dell’area euro o di uno o più PM. È prevista anche la possibilità di partecipazione del Fondo monetario internazionale FMI in ragione della sua storica esperienza in materia.
L’art. 14 prevede la precautionary financial assistance, ossia, l’assistenza finanziaria precauzionale tesa a prevenire le crisi che, se non affrontate tempestivamente, di norma, portano alla perdita dell’accesso ai mercati finanziari come è successo alla Grecia. Il programma di assistenza preventiva viene elaborato dal Consiglio e dal Direttore del MES sulla base di un Report preparato dalla Commissione europea. Dopo un primo utilizzo delle risorse (prestito oppure il ricavo di un acquisto di titoli del DP (debito pubblico) emessi dal PM richiedente nel mercato primario) il MES d’intesa con la Commissione europea e con la BCE decidono se la linea di credito aperta è sufficiente per continuare oppure se occorre attivare altri strumenti di assistenza finanziaria. Credo che anche da questa sintesi dell’art 14 emerge chiaramente come l’alternativa proposta da alcuni critici del MES (BCE si MES no) è mal posta e infondata. La BCE è comunque coinvolta. Il MES interviene con operazioni analoghe che fa la BCE. Ma c’è di più, senza un intervento preliminare del MES, la BCE non potrebbe attivare le Outright Monetary Transactions OMT che prevedono acquisti illimitati di titoli del debito pubblico di PM in difficoltà nonostante i primi interventi del MES. È coinvolta soprattutto la Commissione che è organo di governo che deve prevenire i rischi di crisi sistemiche della stabilità dell’Eurozona innescati da uno o più PM per motivi diversi, cause simmetriche e asimmetriche. Rebus sic stantibus, il rifiuto di avvalersi degli strumenti di assistenza del MES sarebbe un suicidio.
L’Art. 15 prevede l’utilizzo di linee di credito attivabili dal MES per la ricapitalizzazione di istituzioni finanziarie dei PM. Questi prestiti vengono concessi seguendo la stessa procedura riassunta nell’art. 14: Memorandum d’intesa tra MES e PM richiedenti a seguito di un Report della Commissione europea.
L’art. 16 è rubricato come prestiti (diretti) del MES ed è probabilmente l’articolo che i suoi contestatori hanno in mente quando attaccano questa istituzione. Non lo dicono perché molti di loro non hanno letto il Trattato e parlano per sentito dire. Ai sensi dell’art. 16 il MES offre i suoi prestiti in cambio di programmi di aggiustamenti macro-economici concordati nel Memorandum d’intesa definito anche questo sulla base di un Report della Commissione europea che, di noma, propone le famigerate riforme strutturali. È questa la odiata condizionalità che esponenti dell’opposizione non vogliono trascurando che squilibri macroeconomici nei conti pubblici, nella bilancia dei pagamenti, prima o poi, creano rischi di instabilità non solo per il paese che li ha causati o subiti ma anche per l’area euro nel suo insieme. Trascurando che nella Commissione e nello stesso Board del MES e della BCE ogni PM ha i suoi rappresentanti e che nel MES l’Italia, come la Francia e la Germania, ha potere di veto in ragione dell’entità della sua quota di partecipazione e del suo voto per i casi di particolare urgenza. Trascurando che in una istituzione sovranazionale e anche in uno Stato federale vero e proprio uno Stato federato non ottiene aiuti ad libitum senza alcuna condizionalità. Non pochi Italiani credono nelle favole e nella Fata Misericordiosa che li deve assistere comunque a prescindere da ogni valutazione di merito di credito. E’ noto che non pochi italiani sono creduloni e, per questo motivo, politici disinvolti dell’opposizione e anche del M5S hanno gioco facile a continuare ad ingannare i loro stessi elettori. Chiusa la parentesi, ribadisco che questa appena descritta è la missione fondamentale del MES: assistenza finanziaria ai PM dell’Eurozona aprendo linee di credito, acquistando titoli del debito pubblico emessi dai PM in difficoltà che ne fanno richiesta, offrendo direttamente prestiti ai sensi dell’art. 16 citato. Da ultimo il MES è stato autorizzato ad aprire una linea di credito per le spese sanitarie dirette ed indirette provocate dal Covid-19 ma per carità non solo l’opposizione ma neanche il governo vuole avvalersi di essa.
Come previsto dall’art. 21 del Trattato, il MES si procura la liquidità per svolgere la sua missione emettendo titoli da piazzare nei mercati finanziari, indebitandosi con banche, con istituzioni finanziarie o “con altre persone o istituzioni” – sì proprio così. Detto in altre parole, a ben riflettere il ruolo del MES è quello di un Ufficio del Tesoro e/o del debito pubblico che fa quello che attualmente non possono fare la Commissione europea e la BCE. Se questo è vero, è del tutto infondata la demonizzazione che del MES si è fatta in Italia. Di certo, porta lo stigma del caso Grecia ma pochi sanno o ricordano che a prescrivere quelle operazioni non era il solo MES. Dietro e sopra di esso c’era la Troika formata da delegati della BCE, FMI e CE. E sappiamo ancora chi c’era dietro e sopra la stessa Troika: il Consiglio europeo e l’Eurogruppo. E se l’Italia non avesse voluto il massacro della Grecia avrebbe potuto porre il veto. Ma non l’ha fatto.
Venendo brevemente alle questioni urgenti sul tavolo: come trovare le ingenti risorse per finanziare il rilancio della crescita che, in questa fase, si collega alla riconversione ecologica e alla digitalizzazione dell’economia, ai fabbisogni straordinari di finanziamento degli ammortizzatori sociali, allo sviluppo sostenibile, in sintesi, ai cosiddetti Recovery Bond ed ora anche ad un aggiuntivo e/o collaterale strumento di trasferimenti a fondo perduto, collegati al QFP (Quadro finanziario poliennale) non ancora approvato è stato posto e sollevato anche dalla Presidente della CE Ursula Von Der Leyen la questione di soluzioni ponte nel suo recente discorso davanti al PE. Se si dovesse prendere sul serio la proposta di una soluzione ponte non vedo altra soluzione “tempestiva” che l’utilizzo del MES che, nel giro di qualche mese, potrebbe essere autorizzato ad aprire nuove linee di credito previa emissione dei famigerati eurobond. Ogni altra soluzione rischia di slittare alla Primavera 2021 se non oltre.
Ancora non sappiamo cosa significhi esattamente l’aggancio del Recovery Fund al QFP (non un vero bilancio come a disposizione di ogni governo di un paese centralizzato o decentralizzato). Secondo me, non significa granché o meglio può significare che il servizio del debito pubblico emesso dal Fondo sarà finanziato con i contributi dei PM al QFP – ancora non approvato. La cosa non cambia radicalmente rispetto al modo in cui viene finanziato il MES. Agganciare l’emissione di eurobond alla contestuale costituzione di una capacità fiscale all’interno del bilancio come alcuni propongono è proposta fumosa per due motivi principali: 1) richiede tempi lunghi per raggiungere un accordo tra i PM pur in presenza di elaborate proposte di diversa consistenza e provenienza; 2) perché data l’entità delle risorse necessarie per la grande trasformazione e per uscire dalla recessione servono alcune migliaia di miliardi di euro e non vedo tributi propri che possano finanziare un tale livello di spesa pubblica. Ragionevolmente possono finanziare il servizio del nuovo debito pubblico da emettere. Ma data la natura delle spese da fare (a media e lunga produttività) è scelta obbligata ed equa ricorrere alla emissione di debito pubblico.
Ho spiegato in miei interventi precedenti che per come è finanziato il QFP non c’è solidarietà se non in termini minimi in relazioni ai fondi strutturali, regionali e in generale di coesione. Infatti, il QFP è costruito con il metodo dei saldi netti: ognuno contribuisce in base al PIL; poi cerca di riprendersi il massimo possibile riducendo la contribuzione netta. anche questa è concorrenza fiscale al ribasso.
L’altro modello, in una necessitata fase transitoria, è e resta quello del MES questo costruito sulla base del modello BCE; qual è allora la differenza? Agganciando il Recovery Fund al QFP avremmo un modello generale analogo a quello della BCE per interventi su shock simmetrici e asimmetrici; il MES resterebbe uno strumento speciale complementare e integrativo per correggere o combattere shock asimmetrici riguardanti uno o più PM con squilibri particolari sui conti pubblici, sul debito, nella sanità pubblica, ecc.
In Italia il MES è stato demonizzato dallo stesso governo Conte per via del dissenso interno alla stessa maggioranza di governo che ripetutamente ha dichiarato che non si avvarrà dei finanziamenti che potrebbe ricevere per le spese sanitarie dirette e indirette che ha dovuto effettuare a causa del Covid-19. Raffinati giuristi mettono in evidenza che la Commissione e la BCE sono istituzioni europee previste dai Trattati e quindi di diritto comunitario mentre il MES è una istituzione creata con un Trattato intergovernativo e quindi di diritto internazionale. Come economista osservo che gli obiettivi di politica economica perseguiti sono gli stessi anche il MES è istituzione europea in ragione della missione che gli è stata affidata. E questa può riassumersi nel coordinamento delle politiche economiche e finanziarie che la Commissione non riesce a conseguire nonostante le norme del Patto di stabilità e crescita, del semestre europeo, del MES e quelle del Fiscal Compact di cui, a suo tempo, si è detto e scritto di peggio rispetto al MES.
Nella teoria della politica economica si sono sempre contrapposte due visioni di condotta pratica della stessa: regole o discrezionalità. I paesi egemoni dell’UE che non si fidano degli altri né di loro stessi hanno scelto di sviluppare le regolamentazioni più particolareggiate ma si scontrano con quelli che prendono sottogamba dette regole. Secondo studi e ricerche del FMI le regole elaborate direttamente nei Trattati e negli annessi regolamenti, direttive e raccomandazioni sono state sempre ampiamente violate e/o ignorate. Nel frattempo per via della globalizzazione e della piena libertà dei movimenti di capitale si sono sviluppate le società di rating che guidano gli investitori internazionali e valutano le prospettive di crescita dei vari paesi del mondo. In altre parole, si è sviluppata una certa funzione di monitoraggio (secondo alcuni di disciplina) dei mercati che, in qualche caso, essa è stata utilizzata a fini di lucro. Nella UE, alcuni governi egemoni hanno ammonito i PM poco propensi al rispetto delle regole concordate minacciando di lasciarli in preda a detta “disciplina dei mercati” ma neanche questa ha funzionato secondo le aspettative. La mia valutazione è che non è possibile elaborare regole scritte casistiche che prevedano tutti gli eventi futuri. Pochi avevano previsto l’arrivo della crisi dei mutui subprime e il suo diffondersi a livello mondiale nel 2008. Nessuno ha previsto l’arrivo del Covid-19. Il senno di poi ci conferma che l’UE ha affrontato male e tardi la prima crisi. Adesso sta rispondendo meglio e più rapidamente alla Pandemia e alla recessione ma resta il fatto che l’assetto istituzionale e gli strumenti a disposizione sono inadeguati. Non abbiamo l’Unione bancaria, meno che mai un mercato unico dei capitali, non abbiamo un vero e proprio governo al centro in grado di svolgere una politica economica ad un tempo unitaria e debitamente articolata a livello continentale. Abbiamo un Parlamento europeo senza il potere sovrano di istituire tributi propri. Abbiamo al vertice un Consiglio europeo giano bifronte più attento agli interessi nazionali che a quelli europei. Va sostituito con un Senato federale eletto direttamente dai cittadini europei. Anche i nuovi strumenti che sono stati proposti recentemente che segnano una significativa svolta nella direzione giusta restano insufficienti rispetto alla dimensione e complessità dei problemi da affrontare. PQM è urgente abbandonare la prevista Conferenza e riaprire il cantiere delle riforme istituzionali per passare ad un assetto di stampo più genuinamente federale. L’unica istituzione che può aprire una tale fase costituente è il Parlamento europeo. Ma sarà in grado di farlo?
Vincenzo F. Russo
Tratto dal Blog personale dell’autore al link: http://enzorusso.blog/2020/05/25/appunti-per-un-dibattito-piu-serio-sul-mes/
Superare la povertà per una vera libertà dell’uomo. di A. Angeli
.
Ogni catastrofe «naturale», come possiamo definire quella del Covid 19, rivela l’estrema fragilità delle classi popolari e, in certa misura, anche del ceto medio, categorie sociali così esposte che la loro vita e sopravvivenza perdono valore e si scoprono poveri. E’ in questa circostanza che, allora, riflettiamo sul significato della compassione per i poveri, la quale nella sfera comunicativa della politica è mascherata con astuzia perché ritenuta diseducativa, come accade in ogni epoca, per l’impegno di pensatori che hanno cercato di giustificare la miseria e hanno scritto testi impegnativi contro una politica seriamente diretta a sradicarla.
La compassione rappresenta un esercizio di filantropia tra i più antichi della storia dell’umanità, esercitato nel corso dei secoli per liberare l’uomo da ogni tormento di coscienza nei confronti dei meno fortunati. Eppure, poveri e ricchi, nel corso della storia, sono vissuti a fianco a fianco in un rapporto decisamente difficile, quando non pericoloso. Già Plutarco affermava che «lo squilibrio tra ricchi e poveri è la più antica e la più fatale di tutte le malattie delle Repubbliche». Si tratta di una convivenza non facile, socialmente e politicamente, quando non moralmente, per cui i problemi che ne derivano, in specie quello di giustificare le fortune di taluni a fronte della cattiva sorte di altri, sono la matassa da dipanare da parte di molti intellettuali e studiosi della materia sulla quale si sono impegnati in ogni tempo.
Una prima indicazione ci viene dalla Bibbia: i poveri soffrono in questa valle di lacrime, ma saranno ricompensati in un mondo migliore. Un inciso biblico mirabile ma inconcludente, poiché lascia ai ricchi di godersi il loro benessere terreno senza provare alcuna gelosia per il fatto che ai poveri è concessa la fortuna di vivere una vita bellissima nell’aldilà. Più avanti nel tempo, siamo nel 1776, agli albori della rivoluzione industriale Inglese, esce la Ricerca sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni, di Adam Smith. In quel lavoro il problema della divisione ricco/povero, così come i tentativi per risolverlo, sono già descritti e strutturati nella loro forma moderna.
In pendant con Adam Smith, Jeremy Bentham (1748-1832) escogita la formula dell’«utilitarismo», che per circa mezzo secolo esercitò un’influenza straordinaria sul pensiero britannico. «Si deve intendere per principio di utilità – scrive Bentham nel 1789 – il criterio secondo il quale una qualsiasi azione è approvata, o al contrario disapprovata, in funzione della sua tendenza ad accrescere o a diminuire il grado di felicità della parte il cui interesse è in gioco». Qui l’inciso spiega come la virtù debba essere autocentrica e tale deve rimanere. Per semplificare il concetto, il problema della convivenza tra un ristretto numero di ricchi e una massa di indigenti doveva considerarsi risolto con il raggiungimento del «massimo beneficio per i più». Nella sostanza, la società faceva del suo meglio a vantaggio del maggior numero possibile di persone. Mentre per tanti altri potevano essere situazioni sgradevoli poiché per loro la fortuna non si era presentata all’appuntamento. Comunque le cose non rimangono ferme, tanto che nel 1830 sboccia una nuova formula, ancora oggi molto seguita poiché rimuove i rimorsi dalla coscienza pubblica. È la tesi associata ai nomi del finanziere David Ricardo (1722-1823) e del pastore anglicano Thomas Robert Malthus (1766-1834). Nella sintesi il loro pensiero si può riassumere nella formula: se esiste l’indigenza, la colpa è tutta dei poveri e della loro fecondità, poiché il mancato controllo della fertilità ha conseguenze sulle risorse limitandone la loro disponibilità. Malthus lo spiega a chiare lettere nel suo saggio: i ricchi non hanno alcuna responsabilità, dispongono di più tempo per gli svaghi e sono più attenti alla proliferazione; i poveri, no! Sono totalmente indisciplinati e quindi portano tutta la responsabilità della loro condizione. La storia non si ferma. Prende corpo una nuova tesi di negazionismo, che riscuote enorme successo, perché associa il Darwinismo sociale al nome di Herbert Spencer (1820-1903). Secondo la sua tesi, la suprema regola della vita economica è parallela a quella biologica della «sopravvivenza dei più adatti», espressione a torto attribuita a Charles Darwin (1822-1882). Un contenimento della povertà, trascurandone l’assistenza, sarebbe il mezzo più natutale per migliorare la razza umana, che uscirebbe rafforzata dal giusto ridimensionamento dei deboli e degli sconfitti. Al proposito c’è una frase, che ci appaga di questo darwinismo sociale sfrenato, che fu decantata in un celebre discorso da John D. Rockefeller, il capostipite della dinastia: «La varietà di rose American Beauty può acquistare lo splendore e il profumo che entusiasma chiunque la contempli solo attraverso il sacrificio dei primi boccioli che le crescono intorno. Lo stesso accade nella vita economica. Si tratta solo dell’applicazione di una legge naturale, una legge di Dio». Nel XX secolo queste tesi subiscono un certo declino, per le reazioni che suscitarono a causa della troppo evidente crudeltà. E tuttavia non mancano studiosi di economia e politici che si fanno sostenitori dell’idea che la concessione di sussidi pubblici ai più indigenti ostacoli l’efficienza economica. In questi ultimi anni, la ricerca del modo migliore per rimuovere ogni rimorso in proposito è assurta alla dignità d’impegno filosofico, letterario e retorico di primaria importanza. Eppure, è anche diventata un’impresa di interesse economico, oltre che politico, perché se ne possono ricavare benefici occupazionali mediante l’adozione di strumenti che comportano la creazione di nuova burocrazia. Infatti, il più delle volte le misure adottate contro la povertà dipendono, in un modo o nell’altro, da iniziative statali e dalla bravura dei burocrati. Ora, in Italia è ormai un luogo comune deplorare l’intrinseca inefficienza dell’apparato pubblico – INPS docet – per cui, secondo una corrente di pensiero molto suggestiva, non è davvero il caso di affidare l’assistenza ai poveri agli organismi statali: non farebbero altro che creare scompiglio aggravando la loro sorte. Ma forse c’è del metodo in questa comportamento dell’apparato statale, o un disegno più vasto, che comporta il rifiuto di ogni responsabilità nei confronti delle fasce di popolazione meno abbiente, che riprende il filo di una tradizione secolare, secondo la quale ogni forma di sussidio pubblico finirebbe per danneggiare i cittadini in condizioni di povertà. In questo modo, è stato detto, si abbatte il loro morale, distogliendoli da attività remunerate.
Un’altra argomentazione, che si collega a quella precedente, accusa l’assistenza pubblica di disincentivare la propensione al lavoro, poiché trasferendo agli sfaccendati una parte del reddito di chi lavora si scoraggerebbe la popolazione attiva, incoraggiando invece l’ozio e la pigrizia. Ma chi potrà mai credere seriamente che la grande maggioranza dei poveri o dei disoccupati preferisca l’assistenza pubblica a un buon posto di lavoro? Eppure, si tratta di una tesi che ha molti sostenitori.
Ma un povero o un disoccupato può scegliere? Secondo l’economista Milton Friedman: «la gente deve avere il diritto di scegliere», una frase che potremmo considerare una trovata, se non fosse sostenuta da un fiorire di economisti che ne esaltano la condizione di libertà, che dovrebbe valere anche per chi non ha i mezzi di sussistenza per cui non può fruire della libertà di spendere. Qui, però, dobbiamo confessare che nulla può opprimere l’individuo, e al tempo stesso mobilitare la sua mente, quanto il fatto di trovarsi senza un soldo in tasca. Spesso sentiamo dire quanto le imposte riducano la libertà dei contribuenti più facoltosi, incidendo sui loro redditi. Ma chi può descrivere gli straordinari spazi di libertà che si aprirebbero ai poveri se potessero disporre di un po’ di denaro da spendere? Allora, quanto il fisco sottrae ai ricchi è sempre poca cosa, rispetto al povero a cui non è data nessuna libertà di scegliere. Cosa rispondere a chi ci suggerisce di coltivare pensieri più positivi per evitare di pensare ai poveri, se non che, nel nostro tempo uno spirito autenticamente impegnato a combattere la povertà, magari allargando gli spazi del lavoro quale conseguenza di una ritrovata capacità e visione economica della politica, rappresenterebbe una norma di comportamento e d’azione molto più responsabile e accettabile. Sicuramente sarebbe questo l’unico atteggiamento compatibile con una civiltà degna di questo nome. Ed è in definitiva, tra tutte le norme di comportamento, la più prudente e umanamente attesa . Non è un paradosso. Il soddisfacimento dei bisogni è, infatti, l’unica strada da seguire per dare risposte al malcontento sociale, con tutte le sue temibili conseguenze per chi vorrebbe affidare la soluzione del problema alla selezione naturale. Se saremo in grado di applicare questo concetto, trasformandolo il più possibile in norma universale, difenderemo e rafforzeremo la pace sociale e politica. In fondo non è questa la prima aspirazione di ogni riformatore?
Alberto Angeli
Cara sinistra non è sufficiente Keynes ma ci vuole Marx. di S. Valentini
Si riduce spesso la globalizzazione al commercio su scala planetaria di prodotti industriali, agricoli, materie prime e beni legati alle nuove tecnologie. Spesso si scorda l’altro aspetto fondamentale della globalizzazione: la moneta, divenuta essa stessa merce, da acquistare e vendere, e non più solo strumento di scambio delle merci e beni. Questo “commercio” oggi costituisce un mercato otto volte più grande rispetto ai mercati legati alla ricchezza prodotta da ogni singolo paese. Si è creata una gigantesca bolla finanziaria, moneta volatile il cui valore è determinato da oligarchie che ne stabiliscono la quotazione. Una enorme massa di denaro che si sposta rapidamente tramite Internet. Siamo ormai alle cripto-valute, cioè ha una moneta non emessa da uno Stato, ai credit default, allo swap, allo spread, ai paradisi fiscali, ecc. Tutto questo ha devastanti effetti su interi Paesi. Se i rendimenti dei titoli di Stato salgono troppo per i governi diventa difficile o addirittura impossibile rifinanziare il proprio debito. E se i governi non riescono più a collocare titoli di Stato, vanno in default perché non possono più rimborsare i debiti in scadenza. Se i titoli in Borsa precipitano, il problema diviene molto serio per le imprese e di conseguenza il paese perde ricchezza: i consumi calano, le imprese fatturano meno e dunque di conseguenza licenziano.
Le borse non sono più espressione di economie reali. Gli Usa sono attraversati con il corona virus da una profonda crisi economica e sociale ma Wall Street si mantiene stabile, addirittura spesso chiude in positivo. Un’analisi tramite gli strumenti della dottrina economica novecentesca non aiuta a comprendere la situazione. I mercati finanziari si muovono ormai indipendentemente dall’andamento dell’economia reale. Ma i mercati finanziari non sono delle entità sconosciute, astratte o “gli investitori che valutano”, ma dei ristrettissimi gruppi di potere, legati a una potenza imperialistica, che conducono operazioni speculative aumentando a dismisura le loro ingenti rendite e profitti a discapito dell’economia reale, cioè della produzione e del commercio.
Il capitale finanziario dunque con l’acquisto e la vendita di valuta sempre più volatile si insinua nell’economia reale fino a controllarla. Per questo attraverso tanti meccanismi condiziona pesantemente il mondo reale. E chi soprattutto ne fa le spese di questa “globalizzazione finanziaria” sono i paesi emergenti di nuova industrializzazione la cui economia si rifà al tradizionale capitalismo industriale o quei paesi dell’Occidente, come quelli dell’area mediterranea, che hanno fragilità economiche e sociali storiche, la cui borghesia capitalistica è sempre stata ancella e stracciona delle grandi potenze imperialistiche. Ma pur se servile sotto la protezione di questi potentati si è arricchita.
La stessa nozione di imperialismo pertanto deve essere aggiornata. L’imperialismo è mutato poiché è mutata la forma del capitale, che non è più in Occidente quello della fase industriale studiata da Marx e del capitalismo monopolistico di Stato analizzato da Lenin. Non siamo insomma più né al tradizionale neocolonialismo né a una forma di imperialismo solo predatorio delle risorse e materie prime di altri paesi. Oggi una parte sempre più importante dello sfruttamento e della rapina imperialistica avviene attraverso i meccanismi di mercato del capitale finanziario.
Il primo significativo passo della formazione di un mercato finanziario del tutto autonomo dall’economia reale è stato la messa in discussione degli accordi di Bretton Woods nel 1971 da parte dell’amministrazione Nixon. Il sistema monetario globale siglato nel 1944 prevedeva la convertibilità del dollaro in oro. Alla conferenza di Bretton Woods collaborarono i più autorevoli economisti dell’epoca. Keynes fu uno degli artefici degli accordi. Si fissò un valore di conversione tra oro e dollaro in modo da stabilizzare il sistema: disincentivare le speculazioni impedendo gli eccessivi movimenti di capitali al fine di evitare altre crisi sistemiche simili a quella del ’29. In pratica possedere un dollaro significava possedere oro. Alla conferenza aderirono molti paesi, anche quelli poveri e i cosiddetti paesi in via di sviluppo. Le banche centrali di ciascun paese erano tenute ad intervenire per mantenere le parità stabilite. La convertibilità oro dollaro impediva agli Stati Uniti e a ogni paese di creare moneta a proprio piacimento, per farlo dovevano possedere oro in proporzione alla nuova moneta emessa.
La decisione di Nixon di mettere in discussione gli accordi di Bretton Woods fu presa per finanziare la guerra del Vietnam. Gli americani bruciarono 12 mila tonnellate d’oro con grave rischio per le riserve auree. Fu così che fu abbandonata la corrispondenza oro-dollaro passando alla politica di stampare moneta senza vincoli allo scopo di finanziare la guerra in Indocina. Il sistema valutario da organizzato e sicuro per il capitalismo iniziò a trasformarsi in un sistema senza certezze, con un dollaro sempre più volatile. Oltre ai cambi fissi, gli accordi istituirono il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale, enti a cui fu affidato il compito di vigilare sul sistema monetario e concedere prestiti ai paesi in disavanzo.
La messa in discussione della convertibilità fra oro e dollaro rappresenta quindi la prima principale causa che ha condotto alle crisi finanziarie dei nostri tempi. Le libere fluttuazioni valutarie, la fine del riferimento aureo del dollaro hanno determinato un mercato valutario e finanziario senza limiti, senza vincoli e senza regole. Un mercato dove l’unica legge è quella del massimo profitto. La fine di Bretton Woods ha segnato l’inizio di un periodo di grande instabilità valutaria, di mostruose speculazioni finanziarie.
Il secondo decisivo passaggio è avvenuto nel 1995 con la nascita dell’Organizzazione mondiale del commercio, Wto, che ha assunto il ruolo precedentemente svolto dal Gatt. Il Wto promuove la liberalizzazione commerciale e la libera circolazione dei capitali in tutto il mondo prescindendo dalle ricadute occupazionali. L’obiettivo dichiarato del Wto è quindi quello dell’abolizione o della riduzione delle barriere tariffarie al commercio internazionale. Tutti i paesi membri sono tenuti a garantire verso gli altri membri dell’organizzazione lo “status” di “nazione più favorita”. Le condizioni applicate al paese più favorito (vale a dire quello cui vengono applicate il minor numero di restrizioni) sono applicate a tutti gli altri Stati.
Molte sono le critiche al Wto. Le più importanti: la prima che è una organizzazione settoriale che pone attenzione solo agli aspetti commerciali ed è indifferente e insensibile alle tematiche ambientali; la seconda è che promuove la globalizzazione dell’economia, la liberalizzazione commerciale, la libera circolazione dei capitali in tutto il mondo senza considerare le ricadute occupazionali; infine la terza è che gli Stati del Nord del mondo, cioè gli Stati occidentali e imperialistici, privilegiano le proprie multinazionali e i propri interessi nazionali invece di promuovere lo sviluppo su scala mondiale. A conferma dello squilibrio di potere che il Wto determina tra gli stati membri dell’organizzazione, sta il fatto che la liberalizzazione del commercio dei prodotti agricoli ha favorito soprattutto le produzioni commerciabili degli Stati nel Sud del mondo e non viceversa, in quanto le derrate del Sud rimangono tagliate fuori dai mercati settentrionali. Non a caso il processo decisionale dell’organizzazione è dominato dai “tre grandi” poli imperialistici: Stati Uniti, Unione europea e Giappone, accusati di utilizzare il Wto per esercitare un eccessivo potere sugli stati membri più deboli che sono obbligati a ratificare le convenzioni sottoscritte dal Consiglio generale, pena l’applicazione di sanzioni e l’imposizione dell’obbligo di recepire gli accordi. Prima l’ingresso della Russia, avvenuto nel 2011, e successivamente di un gigante economico come la Cina ha modificato in parte i rapporti di forza.
Da qui anche la guerra dei dazi di Trump: tentare di riacquistare quel ruolo predominante messo oggi in discussione dal colosso cinese e dalle contraddizioni inter imperialistiche ormai insanabili e che gli Usa non riescono più a governare. A tale proposito occorre dire che l’ascesa economica della Cina negli ultimi trent’anni è stata sottovalutata. L’Occidente ha sempre avuto l’idea che potesse esserci un modello unico e che potesse esserci un modello diverso che aveva successo non rientrava negli schemi del pensiero unico dominante. L’autorevolissimo Economist dava per finita la Cina nel 1990, mentre tardivamente ci si è accorti che sta diventando la più grande potenza economica del mondo. Se si mette a confronto il modello Occidentale liberale con il modello cinese, in quest’ultimo l’equilibrio fra Stato e mercato è profondamente diverso. In Occidente è il mercato del capitale finanziario che regola lo Stato mentre i cinesi hanno mantenuto la prerogativa che sia lo Stato ad avere la capacità di guida dei processi economici. Il modello cinese è stato considerato anomalo e perdente, prossimo al crash, invece ha funzionato e ha consentito al paese di avere una crescita straordinaria che non ha uguali nella storia della umanità. La Cina alla fine degli anni ottanta rappresentava il 2% del Pil del mondo, nel frattempo il Pil è cresciuto quattro volte, ed ora la Cina rappresenta il 20 %. È cresciuta da 2 a 80 ed è una cosa che non ha precedenti! La parte più miope della cultura occidentale considera la Cina come una variante del modello sovietico. Questa è una lettura superficiale perché non tiene conto della storia cinese e di quanto il marxismo cinese si sia ibridato con il confucianesimo. Di fatto il sistema cinese ha delle flessibilità che il modello sovietico non aveva. Il modello sovietico era poco duttile e quindi a un certo punto si è spezzato.
Certamente anche la Cina deve fare i conti con la pandemia e il rischio della deglobalizzazione poiché la sua economia è stata fortemente proiettata verso le esportazioni. Ma chi pensa che la Cina pagherà più di tutti il rallentamento del commercio mondiale non prende in esame che il paese sta cambiando. Negli ultimi anni, sotto la guida di Xi Jinping, sta avvenendo un mutamento radicale del tipo di sviluppo. La politiche dell’industrializzazione e dell’esportazioni hanno subito un netto ridimensionamento. La Cina oggi investe molto di più sulla innovazione e sulla ricerca, anziché soltanto sulla produzione di beni a basso valore aggiunto. È stata la fabbrica del mondo, ma oggi non è più così. Una parte di queste produzioni si sono trasferite in altri paesi asiatici, mentre i cinesi hanno investito sull’innovazione superando gli USA in produzione di brevetti. E poi hanno investito sul recupero ambientale, anche per avere più consenso interno e quindi meno inquinamento e hanno puntato sulla ricerca e hanno aumentato i salari. Ciò ha consentito al mercato interno di diventare, rispetto al passato, un volano più importante nel sostegno dell’economia e della crescita.
Quando affermo quindi la necessità di una “scelta di campo” a favore dell’asse Pechino-Mosca (come ho sostenuto in altri articoli) non penso alla riesumazione del vecchio campo socialista contro l’imperialismo statunitense, bensì a un campo scaturito dalla caotica fase multipolare, che è andata nell’ultimo ventennio affermandosi. Vi è una oggettiva convergenza tra paesi socialisti o di orientamento socialista, paesi con forme di capitalismo monopolistico di Stato, paesi capitalistici di nuova industrializzazione e paesi che lottano per uscire da una condizione di povertà assoluta, nel contrastare la volontà di dominio assoluto del capitale finanziario, espressione che contraddistingue l’Occidente e le sempre più aspre sue contraddizioni inter-imperialistiche.
In questo contesto meglio si comprende il ruolo di potenze come l’Iran e il Messico e altri paesi che non sono certamente campioni di democrazia o portatori di visioni socialiste. La battaglia storica dei cinesi, ma anche dei russi, non è contro la globalizzazione, cioè la libera circolazione di merci (e anche di manodopera), ma contro la “globalizzazione finanziaria” che produce un più sofisticato sfruttamento dei popoli, instabilità, corsa al riarmo e guerre. La distensione, la pace e la cooperazione sono alla base di questa politica che non attua odiose interferenze nella politica interna dei paesi loro alleati. Gli unici che si ergono gendarmi del mondo e hanno basi militari in ogni angolo del pianeta (anche perché gli altri poli imperialistici, giapponese e tedesco, non dispongono di arsenali militari) sono gli Usa. Non vi è una sola base militare cinese – mi risulta – fuori dal paese.
Se la sinistra europea non coglie questo nuovo aspetto geopolitico non va da nessuna parte, è destinata ad andare a rimorchio di altri, magari dietro a un rozzo atlantismo che si schiera sempre e comunque con gli Stati Uniti anche se sono governati da un presidente pericoloso e inquietante come Trump, o appresso alle intenzioni e ai sogni dei centri di potere franco-tedesco che vorrebbero un’Europa politicamente e militarmente autonoma in grado di competere in termini imperialistici con tutti, a Est come a Ovest. E non è sufficiente, come auspica D’Alema, che nel prossimo futuro si affermino di qua e al di là dell’Atlantico forze liberaldemocratiche in grande sintonia tra loro per ricostruire un ordine mondiale dove l’Europa possa svolgere un ruolo decisivo.
È un’analisi politicistica poiché non affronta la questione vera: come imbrigliare e sconfiggere il capitale finanziario. Oggi tutto parlano (anche a sproposito) che dopo la sbornia neoliberista degli anni ’80 e ’90 con la pandemia si torna a Keynes, al protagonismo dello Stato. Il neoliberalismo ha fatto il suo tempo. Occorrono non politiche di rigore per contenere l’inflazione ma politiche di d’investimenti pubblici attraverso un nuovo protagonismo dello Stato. Ma se il neoliberalismo in politica è stato il quadro dentro il quale si è costruito il libero mercato della compravendita di moneta come merce oggi il problema non è tornare a Keynes e superare conseguentemente il neoliberalismo. Il punto è sempre il solito. Prendiamo ad esempio l’Italia: manca un prestatore di ultima istanza, che garantisca acquisti senza limiti dei titoli di Stato, contenendo l’aumento dei tassi d’interesse. L’Italia ha un debito di circa il 135% del Pil e paga interessi più alti rispetto a quelli tedeschi e olandesi che hanno un debito tra il 50 e 60% del Pil. Quindi, per fare più spesa pubblica bisogna emettere titoli di debito, aumentando il debito in percentuale del Pil. Si prevede che il debito italiano possa salire oltre al 150% del Pil. Dunque, in mancanza di un prestatore di ultima istanza, lo spread tra i titoli di Stato italiani e quelli tedeschi aumenterà e con esso la spesa per interessi, che rischia di creare problemi di sostenibilità molto gravi del debito. Il problema perciò è di come estirpare il capitale finanziario che del neoliberalismo è il figlio legittimo molto potente e può permettersi di essere pure un po’ meno rigorista del padre.
Keynes avanzava le sue proposte in un quadro capitalista nel pieno del suo sviluppo industriale. Siamo in questa fase in Occidente? Se gli Stati devono fare i conti con i rendimenti dei titoli di Stato e con il mercato finanziario, se non riescono a rifinanziare il proprio debito quali politiche di crescita e di sviluppo possono fare? Vanno comunque in default o in grande difficoltà, nonostante le buone intenzioni riformiste. La lotta contro il capitale finanziario e le sue espressioni imperialistiche non è questione nazionale e solo in certa misura è europea: è questione globale. La “scelta di campo” non è una scelta ideologica ma una precisa scelta politica per fronteggiare il ruolo deleterio e inumano del capitale nella sua forma più devastante: quella finanziaria. Non si tratta dunque di imitare modelli altrui, di fare come la Cina o come la Russia, bensì di costruire un largo e vincente schieramento di forza e di paesi alternativo al capitale finanziario. Questa è la posta in gioco in questo squarcio del XXI secolo. Ecco perché Keynes non è sufficienti ma occorre tornare a Marx lottando per la realizzazione di strumenti internazionali alternativi (ed è quello che stanno facendo i cinesi), iniziando a riportare i sistemi bancari sotto il controllo pubblico, a smantellare i paradisi fiscali, a creare istituzioni internazionali che non siano, come il Fondo monetario internazionale o la Banca mondiale, organismi che rispondano ai mercati finanziari, ma all’economia reale. Occorre insomma introdurre “elementi di socialismo” e per dirla con Berlinguer, di cui ricorre l’anniversario della nascita, lavorare per “un nuovo ordine mondiale”.
Riscoprire inoltre lo strumento della programmazione democratica, concetto considerato vetusto, in disuso. Lo Stato dovrebbe entrare nella produzione di beni e servizi, anche in settori dove ci sono i privati. Ma soprattutto ci sarebbe bisogno di una pianificazione dell’economia e, più precisamente, di una produzione sociale. Dare pertanto un senso progressista alla programmazione come faceva il Pci. Però è evidente che questo non è possibile in una economia basata sul dominio del capitale finanziario. Richiede il ribaltamento del paradigma del libero mercato. Tutto ciò dimostra la totale inadeguatezza dell’attuale forma di mutazione del capitale insensibile a soddisfare i bisogni sociali, anche quelli più elementari, come la sicurezza sanitaria. Ecco, di nuovo, non è sufficiente Keynes, ma ci vuole Marx.
Occorrerebbe rilanciare una programmazione promossa e coordinata dallo Stato solo così le politiche riformiste alla Keynes hanno un senso per diventare parte del processo di trasformazione della società, per lottare contro le abnormi diseguaglianze, per un modello di sviluppo ecocompatibile, per tendere alla piena occupazione, per un welfare più robusto e qualificato. Ma se il pubblico non espropria il capitale finanziario del suo immenso potere, se le rendite finanziarie non vengono mortalmente colpite in una lotta senza quartiere, qualsiasi prospettiva riformista è destinata al fallimento. L’Unione europea è in grado di ricostruirsi prendendo questa direzione, cioè di mettere al bando le oligarchie finanziarie? E la sinistra che fa?
La “scelta di campo” implica anche un riposizionamento e un riavvicinamento della sinistra europea alla sinistra del resto del mondo. Il divario è oggi grande, profondo. Ricuperare il valore politico dell’internazionalismo favorisce la crescita di un vasto schieramento di forze e di paesi e soprattutto rafforza il ruolo della stessa sinistra europea, troppo timida e molto poco incisiva. Una “scelta di campo” che potrebbe nuovamente farle svolgere un peso di primo piano a livello universale, come quando Marx e Engels scrissero “uno spettro si aggira per l’Europa” come memorabile inizio del loro Manifesto. Uno spettro dunque che preoccupi davvero il capitale finanziario e non dei zombi sopravvissuti al Novecento.
PS.
Le riflessioni contenute in questo articolo non hanno niente a che fare con il vecchio e ozioso dibattito che negli anni passati ha attraversato la sinistra sui margini di riformismo di un sistema neoliberista. La risposta negativa (cioè che non vi erano margini) era tesa a negare qualsiasi accordo di governo con forza riformiste, progressiste e socialdemocratiche. Eravamo dunque in un’altra fase, quella unipolare dominata dagli Usa dopo l’89, in cui la sinistra doveva condurre una battaglia difensiva e modulare la sua azione politica in base ai rapporti di forza dati. Oggi la situazione è molto diversa, siamo in un mondo multipolare con un “campo”, quello cinese-russo, di cui la sinistra mondiale è parte integrante. Il confronto quindi avviene in termini del tutto inediti. Superare l’attuale mutazione del capitale in capitale finanziario è il primo e fondamentale compito della sinistra. È in atto uno scontro durissimo in cui anche la sinistra europea dovrebbe dire la sua. Vi sono forze liberaldemocratiche legate a una parte delle borghesie nazionali che vorrebbero in Europa svincolarsi dal dominio del capitale finanziario. In questa contraddizione tentiamo di inerirci e dire la nostra o ci proclamiamo estranei a tutto ciò in nome di ideologismi di diverse tendenze: marxista-leninista, movimentista e radicale erede del ‘68 o come risultato di visioni espressione dei cosiddetti nuovi soggetti antagonisti che molto spesso però strizzano l’occhio alle correnti socialdemocratiche più avanzate o a quelle ambientaliste? O a chi semplicemente è orfano della “democrazia dell’alternanza”? Possibile che alcune timide aperture a un dialogo costruttivo con la Cina le fanno i soli Di Maio e D’Alema? Di che cosa si discute a sinistra? Nulla di veramente importante, di strategico.
Sandro Valentini
C’erano una volta le “riforme di struttura”. di G. Giudice
.
Quelle vere. Per ammissione dello stesso Riccardo Lombardi che delle “riforme di struttura” fece il suo cavallo di battaglia, il primo, in Italia,a pronunciarle , in uno scritto postumo, fu Rodolfo Morandi , quando era ministro dell’industria (nei governo di Unità Nazionale postbellici). Per Morandi tali riforme avrebbero dovuto modificare profondamente i rapporti di potere e gli equilibri tra le classi a favore dei lavoratori. In Lombardi diventano lo strumento per avviare una transizione democratica e graduale al socialismo. Dopo il 68 Lombardi arricchì questa sua impostazione , tramite il recupero della tematica dei “contropoteri ” di Panzieri e Foa. Poi questo termine ha subito quello che Giorgio Ruffolo definiva come “rovesciamento semantico” . Le riforme strutturali diventano quelle del prof Monti, ispirate al monetarismo più duro, alle politiche di austerità e dei tagli alla spesa sociale , alla riduzione dei diritti dei lavoratori. L’opposto del loro significato originario. Ma è comunque doveroso per noi socialisti di sinistra reagire ai rovesciamenti semantici. E fare una battaglia di idee per ricondurre il termine al suo significato autentico per come storicamente si è espresso. Il non reagire ti porta alla subalternità.
Giuseppe Giudice
Il pacifismo e le guerre. di A. Benzoni
.
Il pacifismo, come movimento politico organizzato, nasce, cent’anni dopo la rivoluzione francese e cent’anni prima della caduta del muro, al congresso di fondazione della Seconda internazionale. Suo nemico, il capitalismo, portato all’uso della violenza dalle sue contraddizioni interne ma soprattutto dalla necessità di contrastare, in ogni modo e ricorrendo a qualsiasi mezzo, il processo di emancipazione del proletariato. Suo fratello/coltello, l’interventismo democratico: comune l’intendimento di costruire un mondo migliore (che per quest’ultimo, si identifica con l’emancipazione dei popoli oppressi); opposti metodi da adottare che si identificano, nel secondo caso, con il ricorso alla guerra.
Tutti e due si collocano nell’ambito della sinistra e occasionalmente avranno modo di convergere (come nella seconda guerra mondiale). Come, nel corso del novecento, avranno modo di convergere i socialisti (per i quali la guerra è un male in sé) e gli altri fratelli/coltelli, i comunisti (per i quali le guerre sono giuste o ingiuste a seconda della natura delle forze in campo).
Ciò premesso i pacifisti, intendono battersi contro la guerra in tre modi: nei casi specifici impedendola e operando perché cessi al più presto; in linea generale e permanente, lottando per evitare processi, comportamenti o crisi politiche suscettibili di portare ad un conflitto aperto.
Questi i protagonisti; intorno a loro movimenti di opinione suscettibili di assumere un’identità e una forza propria; e il cui ruolo, in ultima istanza, risulta quasi sempre determinante. All’interno di un universo che ha come suo epicentro l’Occidente.
Questi i protagonisti che, dopo la caduta del muro, credono di essere arrivati al traguardo. Con metodi diversi. Ma con un orizzonte comune davanti a loro.
Trent’anni dopo i due fratelli/coltelli sono totalmente scomparsi dallo schermo. Gli interventisti democratici perché rei confessi di “pubblicità ingannevole” di progetti che con la democrazia e i diritti umani non avevano proprio nulla a che fare. I pacifisti perché incapaci non dico di intervenire ma di fare sentire la propria voce in un mondo percorso da guerre di ogni tipo e svolte con qualsiasi mezzo, nei confronti di tutti e in ogni angolo del globo; molte delle quali sull’orlo di degenerare e in modo catastrofico. Senza che nessuna, dico nessuna di questi sembri avviata a qualche tipo di componimento.
Mai come ora ci sarebbe bisogno di pacifismo e di pacifisti; ma mai come ora la loro assenza è stata così totale.
Perché? Il problema è cruciale; ma non è facile da risolvere. Né possiamo ricorrere a schemi ideologici nell’affrontarlo. Anche perché, in uno schema ideologico, ci si schiera con i buoni contro i cattivi; mentre, qui e oggi, latitano i primi mentre proliferano i secondi.
Inutile poi, per non dire fastidiosa, la solita lagna sulla “sinistra che non c’è più”. E ve lo dice uno che, su questo tema, ci sta inzuppando il pane; e da mesi. Basti dire, da ora in poi, che la sinistra sta ancora nel paese dei balocchi in cui è approdata decenni fa. Possibile, e magari anche probabile che il crescere dei pianti e delle urla la risveglino dal suo sonno beota. Ma ciò avverrà gradualmente; e non riesco francamente a vedere i suoi pallidi esponenti alla testa di un qualsiasi corteo.
Per l’intanto la protesta non ha bisogno di nessun imprimatur. Perché c’è e cresce in tutto il mondo. Ma, per diventare politicamente rilevante nella lotta contro le guerre, ha bisogno di due cose: istituzioni e/o centri decisionali cui fare riferimento; e soprattutto una sufficiente attenzione da parte della pubblica opinione. Mentre, qui e ora, non ha a propria disposizione né l’una né l’altra.
Qualche breve considerazione sul primo punto. Per sottolineare il fatto che nessuna, dico nessuna, delle grandi organizzazioni internazionale abbia espresso una sola opinione, o formulato una qualsiasi proposta, su una qualsiasi delle grandi crisi in atto. Mentre la principale di queste, l’Onu e il suo consiglio di sicurezza, ha addirittura rinunciato a riunirsi; se non altro per fare proprio l’innocuo appello di Guterres alla tregua dei combattimenti durante la pandemia.
Un fatto gravissimo, questo. E ancor più grave l’indifferenza totale che lo circonda. Due elementi che privano la protesta di una cassa di risonanza essenziale per la sua stessa esistenza in vita.
A limitare drasticamente la nostra capacità di ascolto concorrono invece una serie di fattori: alcuni ereditati dal passato; altri frutto dell’evoluzione in atto lungo questi anni; altri ancora, forse i più significativi, relativi alla radicale mutamento della natura e della portata della guerra nel momento presente.
Difficile così, in primo luogo, scendere in strada contro un pericolo di conflitto generale e devastante che abbiamo cancellato e per sempre dalle nostre menti dopo il 1989 e fino al punto di rifiutarsi di vedere i suoi molteplici segnali premonitori. E ancora, accettare il fatto, pur oggettivamente evidente, che l’America di Trump sia diventata il principale pericolo per l’ordine e per la pace mondiale, dopo essere giunti, tutti, a considerarla come il suo principale pilastro.
E, ancora, difficile guardare al mondo esterno come variabile indipendente del nostro destino dopo essersi rancorosamente ripiegati, tutti, all’interno dei nostri confini (con un provincialismo che nel nostro paese è giunto a livelli difficilmente superabili.
E, infine, e soprattutto, difficile capire che le strategie internazionali di oggi, in un mondo senza né ordine né regole, sono diventate “guerre condotte con altri mezzi”.
Non mancano certo, in questo sistema, i conflitti armati aperti. Ma si svolgono nelle periferie e per interposta persona. Mentre, ad occupare la scena sono le sanzioni, le guerre economiche, le interferenze reciproche talora eversive, i soprusi dei governanti nei confronti dei governati; le massime sofferenze per i popoli, il minimo rischio per chi le arreca. Il tutto in un contesto in cui non si danno soluzioni ai conflitti in corso ma, nel contempo, in cui i contendenti non vanno oltre certi limiti; perché superarli li sottoporrebbe a rischi inaccettabili.
Manca, dunque, in tutti questi drammi, l’incubo della “guerra che torna”; l’unico in grado di scuotere i cuori e le menti. Il che ci lascia liberi di condurre le guerre che ci coinvolgono direttamente, quelle contro il coronavirus e le sue possibili conseguenze.
Si aggiunga, a completare il quadro che le guerre, quelle in cui la gente muore non di stenti o di malattie ma perché colpita da un qualche ordigno, sono lontane da noi. E che a morire sono gli altri senza il minimo rischio personale o ricaduta psicologica per l’uccisore: perché a determinare l’esito fatale saranno bombe intelligenti o asettici droni.
Nulla, in tutto questo, suscettibile di muovere pulsioni pacifiste.
Pure la causa del pacifismo non finirà nella pattumiera della storia. Perché diventerà un elemento di una causa e di uno schieramento assai più ampi: quelli che separano i difensori di un ordine mondiale basata sulla solidarietà e quello che lo concepiscono come sbocco di una lotta di tutti contro tutti. Una partita, questa, appena cominciata; e tutta aperta.
Alberto Benzoni
L’articolo è tratto dal sito alganews.it al link: https://www.alganews.it/2020/05/03/il-pacifismo-e-le-guerre/?fbclid=IwAR2LC3yqtVwijbKfvfkKbF2rFN6kPHIR9VkntrrrLTew3xfkAV_2lYRjYXA
- ← Precedente
- 1
- 2
- 3
- …
- 27
- Successivo →