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Per un programma del Partito Unitario dei Lavoratori. di D. Lamacchia

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No, non esiste un Partito Unitario dei Lavoratori. Non ancora. Spero che al più presto possa avviarsi un processo che porti alla sua formazione o ad una forza simile. Un partito che abbia l’ambizione di unificare tutte le forze intellettuali ed organizzative che fanno riferimento al mondo del lavoro per dargli la prospettiva di una emancipazione, condizione unica per una emancipazione di tutta la società verso un modello di tipo socialista, democratico ed egualitario.

Dopo gli anni dallo scioglimento del PCI e delle vicende che hanno attraversato le realtà seguite a tale evento, PD, RC, SI, LEU, Art. Uno, ecc. e la catastrofe delle ultime elezioni è inevitabile pensare che se si vuole dare concretezza ad una prospettiva di crescita di una forza di sinistra in Italia si debba partire dal riconoscere che le divisioni sono la causa principale della sconfitta elettorale e della perdita di consenso tra i lavoratori e l’elettorato più in generale.

La necessità di un nuovo partito nasce dal riconoscere vero che nessuna delle realtà attualmente esistenti possa unificare tutte le opzioni in campo. Non serve a nulla fare delle sommatorie ma è necessaria una nuova sintesi.

Non credo che un ruolo unificante possa svolgerlo il PD. Non sono chiari in quel partito le caratterizzazioni identitarie. Fatto che ha portato alle diverse scissioni. Il cambio dei vertici a partire dal Segretario non è sufficiente a colmare il vuoto e le contraddizioni della proposta. Troppo sono sedimentate le abitudini, i caratteri, le culture, i contrasti anche personali.

Da dove partire? Innanzitutto da una condivisione della lettura della situazione internazionale. Grazie agli eventi seguiti allo sfaldamento del blocco sovietico e anche allo sviluppo della tecnologia digitale (il villaggio globale) una situazione nuova si è venuta a determinare nell’equilibrio tra le potenze. È saltato l’equilibrio nato a Yalta subito dopo il II conflitto mondiale. Soprattutto vanno evidenziate la crescita di Cina e India e dei paesi che per un periodo furono chiamati “non allineati”, oggi identificati come BRICS. Alcuni parlano dell’avvento del “secolo cinese”. Difatti va riconosciuta una perdita di egemonia dei paesi occidentali e degli USA in particolare. Fatto che induce a riconoscere la necessità di un mondo pluricentrico capace di coscientizzare che le problematiche vissute dal mondo non sono risolvibili con azioni unilaterali. Valgano ad esempio i problemi del cambiamento climatico, della transizione energetica ad esso connessa, dello sforzo necessario per risolvere problemi endemici come la fame e le malattie, specie quelle infettive, le migrazioni causate dagli squilibri. Un nuovo ordine mondiale necessita e non può venire se non attraverso un passo avanti in direzione di un superamento delle diseguaglianze. Un Europa più unita, coesa, autonoma ne è condizione necessaria. L’attuale conflitto Russia-Ucraina può essere letto come una conseguenza dell’avvenuto disequilibrio tra le potenze. Fermo restando la condanna all’invasione dell’Ucraina da parte russa, va ricercata la via per un cessate il fuoco e l’avvio di trattative tese alla pace.

È da considerare inammissibile che forze di sinistra votino in parlamento come le destre sui provvedimenti tesi all’aiuto all’ucraina, innanzitutto per la fornitura di armi.

Una forza di sinistra non può non considerare la NATO come strumento obsoleto ai fini di un equilibrio tra le potenze. Un ruolo di autonomia necessita da parte europea con la strutturazione di un esercito autonomo capace di imporre un suo punto di vista senza accondiscendenze passive agli USA o ad altre potenze.

Per quanto attiene alle politiche sociali una forza di sinistra non può che avere come riferimento le classi lavoratrici, i sui bisogni, rivendicazioni, volontà di riscatto, aspirazioni, speranze. I cambiamenti nella struttura del mondo economico, nei modi di produzione dovuto all’avvento del digitale ha sicuramente chiuso l’epoca dell’“operaismo” ma non quella dei conflitti sociali e del contrasto “capitale-lavoro”. Lo dicono il diffuso precariato anche di fasce sociali un tempo protette, l’alta disoccupazione giovanile, la perdita di potere salariale, la interruzione della mobilità sociale, il contrasto tra periferie e centri urbani, la solitudine degli anziani per citare solo alcuni delle contraddizioni in atto, più in generale l’acuirsi della forbice tra garantiti e non garantiti.

Una forza di sinistra non può che promuovere ogni azione tesa ad un allargamento e diffusione delle garanzie sociali, di maggiore e più diffuso benessere.

Prioritario deve essere considerata la protezione del potere di acquisto salariale. Ciò può avvenire per mezzo di automatismi come lo fu la scala mobile.

La proposta di stabilire un salario minimo per legge deve essere considerato un obbiettivo perseguibile insieme al rafforzamento della contrattazione nazionale.

L’ipotesi di una riduzione dell’orario di lavoro secondo la logica “lavorare meno, lavorare tutti” deve essere un obiettivo strategico prioritario. Così per l’abolizione del Jobs Act e delle forme di precariato.

La lotta alla disoccupazione soprattutto giovanile deve essere perseguita attraverso politiche di investimenti poderosi da parte pubblica in direzione dei settori cardini dell’economia: trasporti, scuola, formazione e ricerca, sanità, infrastrutture, abitazione, ecc.

Ciò può avvenire attraverso un riequilibrio della spesa privilegiando quella “fruttuosa” verso quella “infruttuosa” riducendo sprechi e investimenti in settori come gli armamenti, un maggiore controllo sugli esiti delle cantierizzazioni, unificazione dei centri di spesa.

Cardine di una politica di sinistra è la riforma del fisco, confermando e migliorando l’impianto progressivo, per mezzo di un taglio del cuneo fiscale soprattutto per la parte gravante sui lavoratori.

La crescita delle entrate deve fondarsi sull’aumento della base contributiva generata dagli investimenti e una efficace lotta alla evasione.

Prioritarie devono essere considerate “riforme di struttura” che mirino ad un rafforzamento del dominio pubblico su quello privato, specie nei settori strategici e sensibili: energia, comunicazione, infrastrutture, sanità, formazione e ricerca, trasporti, con la eliminazione del criterio dannoso che scarica le spese sul pubblico e i profitti sul privato. Si vedano a tale proposito la condizione di alcune realtà come l’Alitalia, la sanità in alcune regioni, il settore siderurgico, il settore delle telecomunicazioni, le autostrade.

Il miglioramento della efficienza dei servizi deve essere realizzato per mezzo di tecniche di controllo della qualità che coinvolgono sia gli operatori che l’utenza, non solo la dirigenza, con incentivazioni salariali degli operatori sulla base di criteri di soddisfazione dell’utenza e il raggiungimento di obiettivi definiti di eccellenza.

Sono questi solo alcune delle tematiche da affrontare. Non meno importanti sono i temi delle forme di partecipazione. Quale partito, con quale struttura organizzativa, nazionale e territoriale, come selezionare i gruppi dirigenti per impedire ingressi miranti al carrierismo o alla rappresentanza di interessi lobbistici o di categoria, all’autoreferenzialità?

Buona riflessione!

Donato Lamacchia

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Sui cento anni del Pci. di S. Valentini

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Ho dovuto ascoltare leggere e vedere tante stupidaggini sulla scissione di Livorno: falsità e revisionismo storico. Non mi interessa confutarle, lascio il compito agli storici, come quando Martelli afferma che la rivoluzione di febbraio fu guidata dai menscevichi, scordandosi che vi era in quel momento un partito populista, i socialisti rivoluzionari, che avevano in quel momento un consenso ben maggiore rispetto ai menscevichi e bolscevichi messi insieme, per cui la prima fase rivoluzionaria ebbe la caratteristica di moti spontanei di piazza promossi all’inizio dalle donne. L’iniziativa bolscevica fu vincente poiché i socialisti rivoluzionari non erano in grado di dare uno sbocco alla rivoluzione. Ma lascio stare, mi soffermo sulla eredità del ’21, cosa molto più importante. La scissione del ’21 fu indubbiamente un duro scontro tra visioni diverse di avanzata al socialismo, tra una via graduale tramite le riforme e una via di rottura rivoluzionaria. Entrambe le visioni erano contemplate nelle opere di Marx ed Engels. Cito per intenderci solo la Prefazione dell’anziano Engels “Alle lotte di classe in Francia” di Marx, per intenderci. Ma posso citare numerosi scritti dei fondatori del marxismo in cui prevale l’orientamento pacifico e graduale o quello rivoluzionario. Una volta detto ciò Turati fu in prima fila, insieme con Labriola in Italia, nella battaglia contro il revisionismo di Bernestein. Era marxista e socialista, e come tutti i socialisti credeva nella possibilità di edificare il socialismo. Questo è un primo fondamentale discrimine, di campo, tra chi lotta per il socialismo e chi persegue riforme per umanizzare e riformare il capitalismo diventando così l’ala sinistra del pensiero liberale. Una volta venuta meno la ragione dello scontro, in quanto il movimento operaio in Occidente, dopo il secondo conflitto bellico, aveva intrapreso la strada riformatrice e graduale di avanzata al socialismo (unica possibile), le motivazioni della scissione venivano meno. Così la pensava Longo (vedere il suo rapporto e conclusioni al X congresso, il primo dopo la morte di Togliatti) e soprattutto Amendola. Un processo di unificazione tra i due partiti senza mettere in discussione le strategia del superamento del capitalismo. Molto socialisti alla Martelli, ma anche alcuni ex comunisti come Occhetto e D’Alema, dovrebbero spiegarci perché nel Psi la proposta di ricomposizione della ferita del ’21 non fu recepita e molti comunisti, soprattutto della sinistra ingraiana, si opposero. Questa è la vera dannazione della sinistra!Quella di Longo e Amendola era una scelta di campo per il socialismo sulla base delle intuizioni di Gramsci e del partito nuovo di Togliatti. Un partito di massa che recuperava la parte più nobile del pensiero della II Internazionale di cui Engel era il grande padre, ma nello stesso tempo si muoveva nel solco dell’internazionalismo leniniano riconoscendo che vi potevano essere anche altre vie al socialismo, rivoluzionarie e non pacifiche, a seconda delle condizioni oggettive. Cosa è stata la rivoluzione cubana se non questo? Insomma il leninismo come metodo, analisi concreta di una situazione concreta. Invito a leggere gli appunti e la lezione di Togliatti a Frattocchie su Gramsci e il leninismo. Allora oggi il confronto/scontro non è tra riformismo e rivoluzione, almeno in questa parte del mondo, ma tra l’accettazione di un sistema dominato dal capitale finanziario – sempre più a-democratico – e lotta per il socialismo. Occorre in Italia – ma credo anche in gran parte dell’Europa – ricostruire partiti che abbiano una visione riformatrice della politica (riformatori lo sono tutti, pure il fascismo ha fatto delle riforme), cioè una teoria della trasformazione senza la quale non si realizza una società socialista. In questi giorni in molti hanno ricordato la scomparsa di Macaluso non rammentando però che sosteneva – cito a memoria – a sinistra si chiacchiera molto di riforme o si aspetta l’ora X della rivoluzione ma non si fanno oggi né le prime né la seconda. Ancora nel 1963 Longo scriveva sulle pagine de L’Unità che la via italiana al socialismo non è necessariamente pacifica anche se i comunisti lo auspicano e lavorano per questa soluzione. Altro che partito socialdemocratico se socialdemocratico è solo la metamorfosi in altra cosa del movimento socialista, in Italia il Psdi di Saragat.Credo che vi siano le condizioni oggettive ma non soggettive per la ricostruzione in Italia di un forte e influente partito impegnato a governare processi reali di trasformazione. Poi lo si chiami come si vuole. La sostanza non è il nome o quello che proclama di fare, ma cosa è e che politiche di massa conduce. Insomma la sua natura di partito alternativo al dominio del capitale. In ciò sta l’eredità del ’21: i comunisti si posero dentro il campo rivoluzionario, e in ciò sta anche l’eredità del Partito dei lavoratori fondato a Genova, poi trasformatosi in Psi, che si poneva, anch’esso, nel campo del socialismo.

Sandro Valentini

La nascita del PCI una necessità non un errore. di D. Lamacchia

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Nel centenario della nascita del PCd’I con la scissione di Livorno del 21 Gennaio 1921 molti sono stati gli interventi tesi a riesaminare i fatti e le ragioni di quegli eventi e molti sono gli autorevoli commentatori. Come è consueto nelle celebrazioni storiche in molti c’è la tendenza a calare nell’attualità le riflessioni. Sta accadendo anche per il centenario del PCI. Il fatto più in evidenza è la tendenza della sinistra italiana alla scissione e del carattere nefasto della stessa. Molti fanno risalire al ’21 di Livorno questa tendenza. A far sentire cioè quell’evento un errore storico primordiale. Anzi alcuni lo vogliono far vivere come una vera e propria colpa. Questo è fatto soprattutto da parte di chi si richiama politicamente e culturalmente al PSI da cui il PCd’I si separò.

La scissione non fu un errore ma una “necessità storica”. In sintesi gli eventi storici che fecero da generatori della scissione furono la rivoluzione russa da un lato e il “biennio rosso” dall’altro. Il processo di industrializzazione seguito alla prima guerra mondiale aveva innescato una situazione di contrapposizione tra capitale e lavoro che aveva generato conflitti che avevano interessato tutta l’Europa, Italia compresa.

L’allora gruppo dirigente del PSI (Turati, Modigliani, Serrati) riteneva che compito del PSI fosse quello non di portare le masse in piazza ma di sviluppare azioni atte a rafforzare la pratica e la cultura del metodo socialista attraverso le sezioni di partito, le cooperative, le case del popolo, ecc.

Dall’altra parte (Gramsci, Bordiga, Terracini, Togliatti, Tasca) si avvertiva l’esigenza di agire sulla carne viva del conflitto di classe con le occupazioni di fabbriche e terre, la realizzazione dei Consigli Operai per portare fino a compimento il rovesciamento dello stato di cose e realizzare ciò che era stato già compiuto in Russia da Lenin e come veniva organizzato e proposto dalla III Internazionale. Da un lato una opzione “socio-culturale” dall’altra l’esigenza di agire sulle leve del conflitto di classe vero e proprio. Non mancava a questi ultimi la coscienza che una leva culturale fosse necessaria, valgano le riflessioni di Gramsci a tale proposito e il suo concetto di “Egemonia” e della necessità che la classe operaia si attrezzasse per operare la propria una volta giunta al potere. Prima però necessitava avercelo il potere!

Queste diverse sensibilità si manifestarono anche nei giudizii che si ebbero sul fenomeno fascista. Come un “accidente” da contrastare con la politica e la battaglia parlamentare da parte socialista (fino all’estremo sacrificio di Matteotti) e con una più radicale opposizione da parte comunista considerando il fenomeno come una risposta che la borghesia stava dando al pericolo di affermazione delle lotte operaie in tutta Europa. Atteggiamento che si evidenziò nella partecipazione attiva alla resistenza e successivamente alla realizzazione della Costituzione dell’Italia repubblicana (Umberto Terracini presidente dell’assemblea Costituente). Nel secondo dopo guerra queste sensibilità distinte si mantennero e si manifestarono allorquando inseguito al “boom economico” di nuovo il conflitto di classe si esasperò con il sostegno da parte comunista del conflitto stesso (lotte operaie al centro nord, occupazione delle terre a sud) e con la scelta da parte socialista di optare per l’azione di governo (partecipazione ai governi di centro-sinistra).

Stesso schema si mantenne negli anni ’80-’90 quando il Craxismo operò per l’opzione riformista che includeva l’abolizione della scala mobile e il PCI di Enrico Berlinguer lottava per sostenerla e difendeva l’occupazione delle fabbriche. Dunque si capisce che il nodo sta nel modo di affrontare e stare nel conflitto di classe. Non un capriccio o un volere personale. Tale è la situazione attuale. Con l’affermarsi dell’era digitale e con la caratterizzazione del capitale da industriale a finanziario sono mutate le caratteristiche del conflitto ma esso non è scomparso. Se è vero che il mutamento dei metodi di produzione ha affievolito la classe operaia e quindi ha reso ininfluente l’”operaismo”, non è venuta meno la necessità di stare al centro del conflitto con proposte che vogliono superare la fase di crisi e che non facciano sentire le classi lavoratrici sole senza nessuno che le rappresenti, facile “preda” di parole d’ordine rassicuranti e parolai di destra ad approfittarne in modo demagogico. La riflessione dunque sia benvenuta ma sia anche proficua e non miri a cercare colpe ma a capire come è possibile costruire un progetto comune.

Donato Lamacchia

La scelta di campo e la lezione di Togliatti. di S. Valentini

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Quando Togliatti attuò la svolta di Salerno, con il partito nuovo – di massa – ed enunciò in termini compiuti la strategia della democrazia progressiva tramite la quale realizzare l’avanzata del Pci verso il socialismo – la via italiana al socialismo – contribuendo così in modo decisivo anche al varo della Carta Costituzionale, riconfermò senza nessuna incertezza la scelta di campo con l’Urss. Non è che in Italia Togliatti volesse fare “come in Russia”, ma era cosciente che senza quel campo socialista, che svolgeva il ruolo di contrappeso all’imperialismo Usa, non si sarebbero mai determinate le condizioni per realizzare nel nostro Paese una strategia “rivoluzionaria”, democratica e socialista. E l’insieme di quelle scelte fecero grande per quarant’anni il Partito comunista italiano.
Pare che tutto questo dibattito oggi sia consegnato agli storici. Siamo in un altro mondo. Che siamo in un altro mondo è del tutto evidente, ma davvero da quel insegnamento di Togliatti non si trae oggi nessun insegnamento per la politica, per condurre una lotta incisiva per la trasformazione della società?
Purtroppo c’è voluto il corona virus per rendere esplicito e chiaro che siamo in un mondo multipolare caratterizzato da un lato dagli imperialismi (Usa – Giappone – polo franco-tedesco), con le loro drammatiche e brutali contraddizioni, in forte competizione tra loro (Trump conduce la guerra commerciale non solo alla Cina ma anche all’Europa), e dall’altro lato, dall’asse Pechino-Mosca allargato ai paesi socialisti, come Cuba e Vietnam, e a paesi che stanno lottando per liberarsi, alcuni anche militarmente, da politiche imperialiste; e infine una serie di paesi, soprattutto africani e sudamericani, che guardano con simpatia a quest’asse. E questo asse sta formando un nuovo campo, molto più forte, mi pare, del disciolto campo socialista sovietico. Questo è il risultato geopolitico oggi della globalizzazione.
Si dirà, come si fa a mettere insieme nello stesso campo la Russia con la Cina? Anche qui sarebbe bene tornare ai “fondamentali”. Gli imperialismi sono sempre più espressione del dominio del capitale finanziario, cosa assai diversa del sistema capitalistico industriale. Un capitale finanziario che usa oramai la moneta, non tanto come strumento di scambio di merci, ma come se fosse essa stessa una merce; si vende e si compra valuta, per realizzare lauti profitti, trasformati poi in rendite per nuove transazioni finanziarie speculative. Le transazioni in denaro sono oggi di gran lunga il maggiore dei “commerci” nel mondo. La Russia ha certamente introdotto forme di capitalismo monopolistico di Stato, ma di uno Stato che però lotta duramente contro le oligarchie finanziarie (si guardi ai provvedimenti duri del governo contro gli oligarchi o al giudizio articolato del Partito comunista russo, primo partito di opposizione, sulla Presidenza Putin); mentre la Cina, governata da un partito comunista, e un paese che tenta la via della trasformazione, sia pur tra limiti e contraddizioni, verso il socialismo.
Vi è quasi una divisione dei ruoli tra Pechino e Mosca. Alla Russia soprattutto quello politico e militare. Sue sono quasi tutte le importanti iniziative politiche a livello internazionale. È come se i cinesi avessero deciso di non spendere troppo in armamenti (rammento che la terza potenza nucleare per numero di testate è la Francia e non la Cina) e delegassero ai russi il compito di mantenere gli equilibri planetari politici e militari. Dal canto loro i russi utilizzano l’ombrello cinese di super potenza economica e tecnologica (nonostante che la Siberia abbia circa il 50 per cento delle risorse strategiche del pianeta) per garantirsi un livello economico e sociale di vita non molto dissimile da quello occidentale. Così tra le due potenze vi è una convergenza di interessi tali che le ha portate a stringere un’alleanza strategica.
Se si valuta con un po’ di obiettività gli avvenimenti venezuelani (altro paese strategico per le risorse del suo sottosuolo), iraniani e siriani, emerge l’incapacità delle potenze imperialistiche a risolvere in modo a loro favorevole, la situazione. Se si valuta la presenza cinese in Africa, con la realizzazione in primo luogo di grandi opere infrastrutturali, si comprende meglio l’influenza crescente di Pechino in questo continente in cui, passo dopo passo, sta soppiantamdo l’Occidente, un tempo appunto colonizzatore dell’Africa.
In questa globalizzazione fatta di cose molto diverse, in questa molteplicità della fase, sempre più evidente è – il corona virus sta lì a confermarlo, impietoso è il confronto tra Cina e Usa – il declino statunitense di super potenza dominatrice del mondo. Non è più così e non lo è già da diversi anni. E anche per questo suo declino che crescono le contraddizioni tra gli imperialismi, proprio perché non vi più un polo considerato egemone come nel passato. Gli Usa mantengono ancora un certo vantaggio in quanto sono una superpotenza militare, Germania e Giappone, come si sa, non lo sono.
Dunque vi è un campo, solido e forte, che compete su scala globale con gli imperialismi, tra l’altro sempre più divisi. Ma questo la sinistra italiana ed europea lo ha capito? Mi pare di no. C’è un divario oramai abissale tra la sinistra di tutto il mondo e quella europea, sempre più subalterna al pensiero liberale, e cosa peggiore, se si guarda a quello che succede nell’Ue, è investita da una crisi grave di consensi e di prospettiva, in particolare il Partito socialista europea, del tutto incapace di contrastare gli egoismi delle borghesie capitalistiche e il ruolo invasivo del capitale finanziario franco-tedesco.
Ecco allora che torna di grande attualità la lezione di Togliatti. Non si tratta, ovviamente, di imitare modelli altrui, ma di considerare il campo costruito da Pechino e Mosca un contrappeso formidabile per realizzare un’alternativa alle politiche neoliberiste espressione dell’assoluto dominio del capitale finanziario. Lottare, insomma, per una Europa dei popoli, come prima tappa di un processo democratico di avanzata al socialismo.
Se non si mette mano a una riforma vera e profonda dell’Ue, a iniziare dai trattati rigoristi, a dare un ruolo e capacità legislativa al Parlamento europeo per un welfare unitario e un sistema fiscale unico, se non si riforma la Bce, che diventi effettivamente la banca degli Stati Uniti d’Europa e non il punto di raccordo e di riferimento del sistema bancario e dell’alta finanza preoccupata solo di controllare l’inflazione, se non si realizza un grande piano pubblico per la ripresa e l’occupazione uscendo dai vincoli e dai lacci del debito, se non si cancella la norma della stabilità e del pareggio di bilancio (che noi in Italia abbiamo messo diligentemente in Costituzione), non vi sarà proposta che tenga, compresi gli eurobond, si continuerà a essere sempre sotto schiaffo del capitale finanziario, cioè di quella ristrettissima oligarchie che disegnano la politica e di volta in volta indicano la via da prendere.
Per condurre una lotta senza quartiere al capitale finanziario occorre una sinistra capace di farlo e che abbia, anche fuori Europa, delle alleanze forti e strategiche, per avere più peso, per contare, per influenzare e far crescere un movimento di massa per riformare dalle fondamenta l’Ue. Non una sinistra subalterna al pensiero liberaldemocratico, per cui siamo giunti al punto che all’Onu l’Europa vota sempre con gli Usa di Trump, anche quando si tratta di superare, in tempi di corona virus, tutti gli odiosi imbarchi (o sanzioni) posti da questa brutale e tragica (anche quando rasenta il ridicolo) amministrazione americana, con grande soddisfazione di chi è preoccupato delle posizioni scarsamente atlantiste del Ministro degli esteri Di Maio. Ma in nome di quali interessi l’Ue avalla le sanzioni o gli embarghi alla Russia, all’Iran, al Venezuela e a Cuba? L’omertà dei politici e dei media regna sovrana. Anche una parte consistente della cosiddetta sinistra radicale tace. Così però non si va da nessuna parte, si è solo pedine di un gioco che ha nell’ormai sperimentata maggioranza Ppe e Pse il punto di equilibrio politico voluto dal capitale.
Se la sinistra non fa una precisa scelta di campo, in quanto antimperialista ed internazionalista, e in questa quadro, in un rapporto stretto e continuo tra teoria e prassi, definisce, come fece Togliatti, una sua strategia, inevitabilmente allora il suo destino sarà, ancora per un lungo periodo, quello di restare forza ininfluente in un continente che avrebbe invece bisogno di una ben altra sinistra,altre idee e iniziative, se non vuole essere travolto dal caos del multipolarismo e dallo strapotere della Germania, come è successo alla Grecia. Occorre una sinistra quindi che si batta per una Europa rifondata e che sia solidale, stringendo forti relazioni, con tutti i progressisti della terra che si battono per un altro mondo possibile.

Sandro Valentini

Una via intitolata non è solo un ricordo! di P. Gonzales

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La scomparsa di Giacomo Mancini ha lasciato un vuoto difficilmente colmabile da altro esponente politico meridionale e nazionale, così come la sua figura e storia politica non hanno elementi di confronto con figure di spicco del panorama politico della cosiddetta seconda Repubblica. Mi riferisco sia a parlamentari appartenenti all’area socialriformista che alle altre aree partitiche.

Giacomo Mancini ha interpretato, da attore protagonista e, spesso da regista, la storia del nostro Paese sia nel contesto politico che in quello istituzionale, economico e sociale. Ha avuto parte attiva nella resistenza e, successivamente, nella storia del meridionalismo dal dopoguerra in poi; ha interpretato in modo positivo e concreto il suo ruolo parlamentare facendo in modo che intere generazioni si misurassero con i grandi temi ed altrettanto grandi valori della vita sociale e politica.

E’ stato il primo ministro ambientalista, urbanista di grandi intuizioni ed un grande ministro della Sanità, oltre che dei LL.PP. e del Mezzogiorno!

Si è attivato, con forte senso di responsabilità, per l’affermazione delle conoscenze; per la migliore interpretazione dei bisogni e delle necessità dei giovani fornendo risposte politiche praticabili.

Non ha mai dimenticato la difesa dei meno abbienti; le regole del vivere democratico e del rispetto delle istituzioni. E’ stato al fianco di coloro che giustamente si battevano per conquiste civili e sociali più avanzate quali il divorzio e l’aborto e la sua storia di socialista cosentino si è sempre intrecciata con la storia del nostro Paese.

Ecco i ricordi più immediati che mi vengono in mente ripensando al lungo periodo di collaborazione, iniziato concretamente nel 1968 e, nel ricordarlo a distanza di tanto tempo dalla sua scomparsa, vorrei rispettare la sua figura impegnandomi nel tentativo di ragionare di politica così come mi ha insegnato a fare (tenendo sempre presente i miei limiti).

Giacomo Mancini, con il suo impegno, ha dato un senso al socialismo riformista italiano ed europeo e come sindaco socialista ed urbanista, ha fatto in modo che la nostra città di Cosenza non fosse più una “stretta città provinciale” ed ha accompagnato la cittadinanza tutta verso il suo concreto rinnovamento.

Una delle sue caratteristiche più profonde di uomo politico è stata quella di far comprendere le ragioni culturali e filosofiche dell’essere socialista ed ha fatto ciò, senza arroganza alcuna, attraverso il suo comportamento ed il suo modello di vita (che ritrovo nei suoi appunti che mi trasmetteva nel periodo di collaborazione).

Non ho mai fatto un bilancio del nostro rapporto, poiché la sua scomparsa non ha interrotto il mio dialogo con il suo modo di pensare e di vivere il suo essere politico. Ciò mi permette di poter esprimere alcune considerazioni politiche da socialista avendo sempre presente i bisogni della classi popolari (tanto cari a Giacomo).

E’ il modo migliore di ricordare la figura di Giacomo Mancini non è solo quella di rendere un doveroso omaggio ad un cittadino di valore, ma è la scelta coerente di definire con lui una fase di continuità non solo ideale ed emotiva.

La decisione dell’amministrazione di Roma Capitale è lodevole, ma l’intestazione toponomastica di una via non è e non deve essere solo un ricordo!

L’intestazione della via per noi socialisti assume il significato di dover lavorare ancora di più politicamente per poter offrire ai giovani di oggi un ricordo concreto di un grande socialista cosentino di valore internazionale.

E’ la nostra richiesta di partecipazione socialista, attiva nel confronto politico in atto nel Paese, che non deve interrompersi!

Sono certo che Giacomo Mancini ci avrebbe incoraggiato in tal senso in questa prossima campagna elettorale ed avrebbe invogliato tutti i suoi collaboratori, amici, conoscenti, pur se collocati in posizioni differenti nella stessa area di sinistra, a fare “squadra”.

Oggi, noi cosentini, siamo più orgogliosi della lodevole iniziativa di Roma Capitale e ringrazio gli amministratori, così come il Sindaco il prima persona per la decisione ed il Vice Sindaco Luca Bergamo per il contenuto del suo intervento, di alto spessore, che oggi ha fatto nella cerimonia.

La presenza di tanti compagni di base, di iscritti e la partecipazione di compagni autorevoli di fatto ha sostituito le assenze degli attuali dirigenti nazionali del PSI, certamente impegnati in attività per loro più importanti.

Un mio personale grazie a tutti i presenti ed a coloro che hanno risposto positivamente al mio invito a partecipare, così come a tutti coloro che, per ragioni più che comprensibili, hanno espresso un forte rammarico per la loro assenza.

Ma erano presenti a Via Giacomo Mancini con il cuore, con lo spirito e con una emotività che tutti abbiamo avvertito come se fossero accanto a noi.

Un grazie ancora al Sindaco di Rende che con la sua partecipazione attenta ha condiviso un momento particolare di storia non solo cosentina ed avvicina le due comunità di Cosenza e di Rende stessa.

Avverto il piacere, in chiusura di queste mie brevi riflessioni, di richiamare una delle tantissimi e illuminate riflessioni ed analisi politiche di Giacomo Mancini, quando si rivolgeva ai giovani: “La gioventù calabrese è la gioventù meno felice del nostro Paese…. È la gioventù senza giovinezza … e senza prospettiva di un dignitoso lavoro. Ai giovani i socialisti rivolgono un appello di mobilitazione e di presenza ed assumono l’impegno solenne ed immediato di non far cadere la grande e non rinviabile questione giovanile… Questo è l’impegno dei socialisti nei confronti delle elettrici e degli elettori delle classi giovanili e delle loro famiglie. Noi socialisti ci batteremo in loro favore”.

Noi socialisti e riformisti, con Giacomo Mancini alla guida, abbiamo portato avanti questo impegno negli anni, ma vista la situazione giovanile di questi tempi che non riguarda solo ed esclusivamente la gioventù calabrese, mi domando e chiedo se i prossimi candidati alle elezioni avranno pari impegno?
Una volta eletti nel ruolo di parlamentari o di consiglieri negli enti locali, si “batteranno per superare la grande questione giovanile tutta italiana” con lo stesso suo spessore culturale e con pari incisività politica?

Il destino delle comunità è legato alla capacità dei futuri governanti di incidere positivamente e concretamente per determinare le migliori condizioni di crescita e sviluppo per le nuove generazioni.

Se ciò corrisponde al vero Giacomo Mancini, è stato un politico che ha vissuto la sua vita per dare un futuro migliore (culturale, democratico, garantista e professionale) non solo a noi meridionali ma a intere generazioni del nostro Paese.

Ciao Giacomo

Paolo Gonzales

P.S. – Mi rammarico, purtroppo, di non essere stato in grado di farlo appassionare alla “pallacanestro”!

Appello ai socialisti che si tengono fuori dal Psi, di M. Molinari

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Maurizio Molinari

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Se vi è una critica che io, con molti altri, ho rivolto alla politica dell’attuale gruppo dirigente del PSI e’ quella di essere appiattiti sulla politica del PD e troppo ossequienti verso il loro segretario Renzi un segretario ormai inviso a troppi per supponenza , arroganza e superficialità ( chissà se andrà nelle zone terremotate a a parlare di casa Italia, sembrava cosa fatta).
Guardate pero’ che la frantumazione a sinistra del PD, non e’ meno arrogante , superficiale e antisocialista del PD,sono spezzoni di movimenti, ad essere gentili,che hanno come il PD tagliato i ponti con il loro passato, ripudiato la cornice culturale che ne tracciava i limiti ideali, nel contempo incapaci di creare un muovo progetto politico, rifugiandosi in un generico progressismo, invocando un centrosinistra, formula da noi creata nel lontano 1963, che ha finito la sua spinta rinnovatrice a fine anni 80, 30 anni fa.

Voi ora dite che volete influenzare, rendere piu’ riformista quella maionese impazzita che e’ la sinistra al PD, un progetto neanche tanto originale, visto che era lo stesso di quanti aderirono PD e si e’ visto come e’ finita. Mi dite, di grazia, che differenza esiste tra il cercare candidature nel PD e cercarle in Art.1 MDP e simili ?

Se unendo i vari circoli partitini e associazioni che si dicono socialisti (sono decine in Italia) ci si sente tanto forti da influenzare in senso socialista il Pd o altri soggetti di sinistra, tanto piu’ saremmo in grado di influenzare , dare nuovo slancio e un nuovo progetto politico al nostro partito, perche’ non rientrare e riiscriversi, se il partito in Sicilia e’ in mano a Vizzini e Oddo e ci possono non soddisfare nella loro conduzione, lottiamo nell’interno per cambiare, nulla potra’ cambiare se i compagni e le compagne critici verso la conduzione del partito saranno lasciati soli.
Questo non significa , non allearsi, non fare liste insieme ad altre forze ma con un confronto con pari dignita, dove deve essere preminente il carattere socialista, ben visibile la partecipazione del partito non di gruppi sparsi.

Non sta a me entrare nel merito delle scelte circa le prossime regionali io sono di Torino, ma l’ invito e l’appello che vi faccio e quello che facciate ogni sforzo possibile perche’ i socialisti siciliani affrontino unitariamente la prossima sfida elettorale, se ciò sarà possibile il socialismo avrà vinto, differentemente avremo perso tutti. Scusate , lungi da me il voler dare consigli o lezioni , ma volevo esprimervi , con franchezza, quella che e’ una mia grande preoccupazione, a 70 anni e 47 di militanza vorrei rivedere il mio partito a dibattere al suo interno, anche con asprezza, ma tornare unito a difendere i ceti deboli che da 125 anni e’ la sua missione, meditiamo compagne/i la sinistra o tornerà ad essere socialista o semplicemente non esisterà.

Maurizio Molinari

Nascita dei Movimenti e del movimentismo, un pensiero minoritario o un’alternativa ai partiti ?, di A. Angeli

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Alberto Angeli 2

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Uno strano fenomeno sembra pervadere la vita politica del nostro Paese, i partiti della tradizione repubblicana cambiano la loro natura di massa ( seguendo il lessico Weberiano) e al loro posto nascono movimenti, circoli, comitati, raggruppamenti. Insomma, alla tipica rappresentanza dei partiti si va sostituendo quella del movimentismo. Un contagio, si badi bene, che colpisce pure la tradizione della chiesa, delle parrocchie, nel passato animatrici di comitati parrocchiali e di gruppi per la preparazione catechistica. Questa propensione al movimentismo, dunque, sembra non avere preferenze di colore o collocazione politica, nasce a sinistra come a destra della rappresentanza politica. Ma, mentre per la destra politica la costituzione di un movimento politico non costituisce l’abbandono di una ideologia, questo non vale per la sinistra, la quale sembra muoversi in un orizzonte di superamento del marxismo come ideologia “ufficiale”, uccidendo contestualmente ciò che di più profondo la legava alla concezione Gramsciana della forma partito.

La scissione dal PD della parte costituitasi in MDP, quindi alla nascita di un nuovo movimento, non pare ai più attenti osservatori che abbia portato alla produzione di un altro “pensiero forte”, cioè strutturalmente definito e abbastanza univoco nella sua interpretazione e applicazione ai tradizionali modelli di rappresentanza partitica. Così anche per quella parte di socialisti ( PSI) che, a seguito del risultato referendario, si sono definiti “Movimento”, vale la domanda se ciò possa qualificarsi come un “pensiero forte”, cioè strutturato in termini di prospettiva e di valenza politica

Chi scrive rimane ad ogni modo convinto che non per questo le sinistre, tanto “di movimento” quanto quelle che ancora mantengono un legame con la tradizione/partitica, abbiano rinunciato o tagliato completamente le radici della tradizione ideologica su cui hanno fondato la loro esistenza. Questo rilievo vale soprattutto per quelle forze della sinistra radicale, quella parte della sinistra purista, che si è formata tra il post-strutturalismo di suolo francese (Foucault, Deleuze, Guattari), e con una dose della scuola di Francoforte (Marcuse) alla quale è associabile la speculazione politico-filosofica post-operaista di Toni Negri, esegeta di Spinoza, e Michael Hardt, per arrivare fino a Marcuse, tra i più ricordati filosofi del ‘900; e poi Foucault, filosofo critico del potere costituito e delle sue articolazioni,

Se lo stato delle cose è quello descritto, questa la domanda: la sinistra non è più nella condizione di rappresentare un’alternativa al capitalismo? Oppure si deve essere indotti a pensare che il momentaneo passaggio al movimentismo costituisca una scelta momentanea, una sosta per riflettere e rielaborare una progetto su cui ricostruire il Partito della sinistra?. Un progetto su cui si deve scommettere, per il semplice fatto che al di là delle critiche, come quelle di Jean Claude Michèa ed altri, il pensiero che prevale all’interno delle sinistre, sia riformiste che radicali, si fonda sul pensiero filosofico Marxiano e sulla consistente forza culturale del progetto Gramsciano.

Se si prende in esame la più influente tematizzazione della forma partito del XX secolo, contenuta nello scritto di Lenin Che fare?, si scopre che – per Lenin – il partito funziona come l’intelletto agente di Aristotele, che giunge a noi dal di fuori: “Solo l’intelligenza giunge dall’esterno e solo essa è divina, perché l’attività corporea non ha nulla in comune con la sua attività”. Nella grammatica Aristotelica, l’intelligenza, cioè l’anima, sta al corpo, simbolicamente, come il partito sta alla classe proletaria, come appunto indicato da Lenin. In questa fase storica, ci possiamo spingere allora a dare una più compiuta valenza al pensiero Aristotelico per cui è il partito che sta agli elettori, al corpo sociale, In tale passo Aristotele sembra conferire una certa equidistanza tra la forma e la sostanza dell’anima, di tipo Platonico, per intenderci. Così come la storia del rapporto partito/classe, nella cultura contemporanea del nostro Paese, fluttua tra l’idea di un partito costituito ( quindi costituzionale) e auto-organizzato per rispondere ad un progetto di classe, e l’idea invece che il partito sia superato e arretrato rispetto alla necessità di rappresentare i movimenti che si organizzano spontaneamente su temi e rivendicazioni tra le più diverse. Così che il partito diviene informe e senza vita. Tutto questo avviene con tutte le possibili variazioni intermedie, tra le quali un’idea di tipo kantiano, secondo cui l’intelligenza che il partito rappresenterebbe sarebbe da intendersi piuttosto come un giudizio riflettente che come un giudizio determinante.

Da tutto questo ne discende dunque che il Partito perde il suo significato, non essendo più né un’appendice della classe, né la sua sola salvezza, ma qualcosa come una rappresentazione, a partire dai dati di realtà portati alla politica dalla cosiddetta “società civile”. Nonostante questa condizione, rimane che in ognuno di questi casi, il partito è indiscutibilmente un’intelligenza, e l’idea/pensiero di sostituirlo con il movimento, che può associarsi all’idea della «mobilitazione cognitiva», da questo punto di vista, risulta minoritaria e limitativa rispetto alla capacità espressiva e rappresentativa del soggetto Partito.

Per continuare con Lenin: “La coscienza politica di classe può essere portata all’operaio solo dall’esterno, cioè dall’esterno della lotta economica, dall’esterno della sfera dei rapporti tra operai e padroni”.

Ancora: “La coscienza socialista è un elemento importato nella lotta di classe del proletariato dall’esterno, e non qualche cosa che ne sorge spontaneamente. Ciò significa – per Kautsky, le cui parole appaiono a Lenin «profondamente giuste e importanti» – che la coscienza socialista non è il risultato diretto della lotta di classe proletaria, ma un’aggiunta a essa da fuori”.

Per Lenin: “Socialismo e lotta di classe nascono uno accanto all’altra e non uno dall’altra; essi sorgono da premesse diverse………

Il termine Parteiverdrossenheit in tedesco significa insoddisfazione per i partiti e spesso si accompagna alla più generale espressione Politikverdrossenheit, che indica lo stesso sentimento, esteso alla politica. Queste definizioni esemplificano la fine del protagonismo della società di massa, che si forma in Europa all’inizio del Novecento, quando nella cultura europea si afferma anche una tendenza “irrazionalista”: filosofi, letterati, artisti, politici condividono un’attenzione nuova per le componenti irrazionali dell’uomo (l’inconscio, gli istinti, gli impulsi primordiali e irriflessi) e attribuiscono ad esse un ruolo preponderante nell’orientamento della vita individuale e collettiva. Oligarchie, gruppi dirigenti inamovibili, caste autoreferenti, assumono la guida dei grandi e piccoli partiti di massa. La democrazia partecipata, elezioni universali estese anche alle donne, nuovi soggetti e superamento dell’individualismo, nascita dei grandi partiti e formazione di ristrette cerchie di dirigenti, nuova classe politica. L’Europa occidentale vive una grande rivoluzione e si muove in universo di cambiamenti sociali orizzontali diffusi e profondi.

Nel 1921 Freud pubblicò un libretto, di circa cento pagine, chiamato Psicologia delle masse e analisi dell’Io. Era quello un periodo in cui stavano nascendo le lotte operaie organizzate, le grandi ideologie, le dittature. In Austria si assiste agli effetti della disgregazione dell’Impero asburgico, avvenuta alla fine del 1918; in Italia nascono il Partito Nazionale Fascista e il Partito Comunista Italiano, mentre in Germania Adolf Hitler diventa leader del Partito nazionalsocialista tedesco. Freud cominciò ad interessarsi sempre di più ai comportamenti delle masse, affrontando i temi sociologici in chiave psicoanalitica. Prendendo spunto dal testo di Gustave Le Bon, Psicologia delle Folle, Freud cominciò a riflettere sulla psicologia collettiva, cercando di dimostrare che i fenomeni che regolano la vita di gruppo non sono poi così lontani dalle scoperte psicoanalitiche relative ai processi individuali. Vi sono anzitutto due tipi di masse: quella occasionale, transitoria, non organizzata e quella organizzata (e dunque “artificiale”), che proprio per questo è destinata a durare di più nel tempo (un esempio ne sono la Chiesa e l’esercito). L’ “anima della massa” viene dunque descritta come elementare e passionale, incline alle illusioni, essendo il Super Io temporaneamente accantonato, a vantaggio di un legame di tipo quasi ipnotico, che fa scatenare le pulsioni, perdere lo spirito critico, sentire un senso di onnipotenza e di impunità. Gli individui che fanno parte di una massa perdono dunque autonomia ed equilibrio, ma acquisiscono la sensazione di essere forti, in quanto parte di un tutto organizzato, che rassicura e protegge.

La nascita del citizen (cittadino ) offre ai partiti l’opportunità di superare il concetto di massa dando vita a nuove forme di rappresentanza politica che, lentamente ma costantemente, pervengono al superamento della forma partito di massa, per costituire nuovi soggetti rappresentativi della società, passando quindi da una forma organizzativa verticale a quella orizzontale, con l’intento di raccogliere ed intercettare gli umori e le rivendicazioni dell’elettore/cittadino che spesso si organizza in movimenti portatori di rivendicazioni specifiche ed espressione di un sentimento antipartitico e anti stato, spesso associato ad una critica durissima contro la casta politica privilegiata e aristocratica, ritenuta troppo costosa e politicamente incapace ad attuare le necessarie trasformazioni richieste dalla terribile crisi socio/economica in cui si dibatte la società italiana.

Lungo l’arco del XX e gli inizi del XXI secolo si sono registrate trasformazioni dei Partiti, DC,PCI,PLI,PRI,MSI, PIUSP, e i tanti altri che hanno cambiato nome, modificato alla radice la loro struttura organizzativa adeguandola alle novità segnate dal progresso della moderna società, anche se con lentezza e talvolta con poche modifiche delle linee politiche, con lo scopo di meglio poter rispondere alle controverse riforme elettorali tentate per adeguare il soggetto politico alle aspettative della moltitudine, che segnalava la nascita un nuovo ordine inserito nella globalizzazione, a cui occorreva dare una diversa risposta in termini di egemonia politica.

Quindi non più il Partito di massa, non più praticabile l’esperienza del partito del cittadino guidato da una èlite politica, ma un nuovo esperimento con il quale testare la novità del coinvolgimento movimentista dell’opinione pubblica. Questa sembra essere la novità di questo inizio del XXI secolo, sulla quale occorre riflettere per capire quale orientamento prenderà la società del presente e quella che si appresta ad esplorare il futuro.

I confini dell’analisi non finiscono qui, poiché il vero spirito del pensiero del riformismo contemporaneo si situa nell’ambito di questa didattica politico-filosofica che, nel corso della storia, ha portato a sintesi la tendenza culturale del pensiero che si richiama alla sinistra sia radicale che conflittuale/riformista, che si manifesta con una certa forza ed in modi rappresentativi diversi nel nostro Paese. In definitiva, si tratta di riconoscere alla tendenza movimentista un orientamento transitorio all’interno della mobilitazione politica, poiché si rivolge a forze diverse: militanti, studenti, dirigenti, gruppi sociali, sindacati, che si muovono seguendo una logica di frastagliamento degli obiettivi e si presentano come movimenti minoritari, se comparati alla problematiche della società nel suo complesso e all’interno delle stesse classi che, guardate secondo le categorie della sinistra, risultano comunque subalterne al potere.

Per il fatto quindi che si sono raggiunti livelli di intensa contraddizione ( poca importa stabilire qui se ciò influenzi o meno il potere costituito economico e politico), la realtà delle cose ci spinge ad analizzare e comprendere le ragioni di questo minoritarismo originato del movimentismo, che si scopre essere divenuto lo strumento politico del nostro tempo. Non si guardi a questa pretesa contemporanea come ad una forzatura intellettualistica, filosofica o astratta, giacché la connotazione e la qualificazione sociale e culturale della materia qui sollevata coinvolge pienamente la vita politica, le lotte quotidiane e le prospettive che, con i movimenti, si intendono indicare al paese e alle classi sociali delle quali si sentono i rappresentanti. Il proposito di pervenire ad una comprensione del fenomeno è irrinunciabile, poiché risolvere oggi il punto, cioè come esprimere un pensiero maggioritario passando dai movimenti, se non altro nell’ambito della sinistra, diviene il tema e l’obiettivo culturale e politico per il quale lavorare, ciò per evitare quel processo di fraintendimento ( e frazionamento) sub-culturale verso cui stiamo indirizzando l’attenzione della classe lavoratrice e della sinistra democratica.

Sconfitta con il referendum l’idea del partito unico ed il proposito maggioritario che ne costituiva l’humus, anziché utilizzare la struttura del partito tradizionale, organizzato territorialmente ed “elemento imprescindibile nello stato moderno”, per usare il lessico Gramsciano, l’ala scissionista del PD ha optato per la costituzione di un movimento, MDP, in cui è stato possibile raccogliere le diverse correnti ideali che animano l’area frazionista. Una scissione non improvvisata e tuttavia sorprendente, poiché maturata lungo un percorso durante il quale molti provvedimenti, oggi contestati con durezza, sono stati approvati proprio con il consenso di gran parte dei fuoriusciti dal PD.

A questo punto è il caso di affermare: niente di nuovo, niente di reale, se intendiamo cercare un senso dottrinale o declinare a una novità metafisica la scelta di costituire un movimento politico, anche se indicativamente chiamato Democratico e Progressista. Una risposta minimale ad una crisi diffusa ad ogni livello: economico, sociale politico, alla quale il movimento DP, mancando di quella caratteristica identitaria del partito di classe, non ha acquisito in questo passaggio la fondamentale titolarità ad esercitare tale ruolo.

D’altro canto si deve considerare che i movimenti si distinguono dai partiti per una peculiarità loro immanente, in quanto si costituiscono per esercitare una pressione sociale limitata ad un tema specifico, anche se per la consequenzialità della sua natura, può in effetti influenzare tematiche più generali. Si prenda l’esempio dei movimenti ecologisti, animalisti, ambientalisti o di carattere sociale e civile. Spesso le forme attraverso cui sono sostenute le rivendicazioni assumono il carattere manicheo, di contrasto con altri movimenti portatori di contenuti rivendicativi opposti. Ecco, allora, che la funzione della politica, intesa come studio della situazione umana, dal singolo al collettivo, per cercare, proporre, imporre soluzioni, si evolve nel Partito, quale soggetto e sede di rappresentanza degli interessi collettivi e dei conflitti, impossibile da sostenersi nell’ambito di un movimento.

Il caso, o il fenomeno, qui esposto sembra interessare solo il nostro Paese. M5S, Forza Italia, Lega, molti gruppi della sinistra radicale, ma anche della destra estrema, il nuovo MDP e, se vogliamo essere obiettivi, anche lo stesso PD, con i suoi Circoli in luogo delle tradizionali sezioni, ha più vicinanza ad un movimento che ad un partito tradizionale. Quindi, più movimentismo che partiti. Se volgiamo lo sguardo verso Paesi dell’Europa occidentale non troviamo riferimenti di questa importanza e rilevanza.

Allora, dobbiamo chiederci da cosa origini la diversità dell’Italia, su questo tema della nascita di un orientamento movimentista, che decostruisce la funzione dei Partiti e del loro ruolo. Il sillogismo che ne discende individua nell’inettitudine della politica, nel gruppo dirigente, nelle aristocrazie che si sono impossessate dei Partiti, il fallimento del soggetto politico, che si è trasformato nel fallimento dei partiti.

In questa sede non è possibile cedere alla tentazione di aprire un filone di ricerca finalizzata alla comprensione dei processi sociali e politici che hanno determinato la fine dei partiti tradizionali, il superamento delle loro ideologie, l’obliterazione delle loro idee, poichè, come in un procedere apotropaico sono le oligarchie del potere politico a spezzare ogni legame con le masse, i cittadini. Si tratta di rendere evidente, non appena ci si svegli dal sonno della ragione, indotto artificialmente dai media e dalle élite intellettuali al servizio dell’informazione, come le vecchie ed eterne questioni divengano attuali, così i conti richiedono di essere fatti mettendo in atto il tentativo di tradurre in politica e nella realtà sociale i valori della modernità.

Nella paralisi dell’azione politica che si è costretti a registrare, a cui si associa la mancanza d’immaginazione e di prospettive, le risposte politiche di questo presente storico sono gli archetipi di un atteggiamento “astorico”, per cui si finisce con l’esaltare sia la perdita del valore educativo/gnoseologico del rapporto con il passato, sia la rinuncia a pensare ad un futuro inteso come storia da costruire da parte di tutti e di ognuno.

Alberto Angeli