partito di massa
Per un programma del Partito Unitario dei Lavoratori. di D. Lamacchia

No, non esiste un Partito Unitario dei Lavoratori. Non ancora. Spero che al più presto possa avviarsi un processo che porti alla sua formazione o ad una forza simile. Un partito che abbia l’ambizione di unificare tutte le forze intellettuali ed organizzative che fanno riferimento al mondo del lavoro per dargli la prospettiva di una emancipazione, condizione unica per una emancipazione di tutta la società verso un modello di tipo socialista, democratico ed egualitario.
Dopo gli anni dallo scioglimento del PCI e delle vicende che hanno attraversato le realtà seguite a tale evento, PD, RC, SI, LEU, Art. Uno, ecc. e la catastrofe delle ultime elezioni è inevitabile pensare che se si vuole dare concretezza ad una prospettiva di crescita di una forza di sinistra in Italia si debba partire dal riconoscere che le divisioni sono la causa principale della sconfitta elettorale e della perdita di consenso tra i lavoratori e l’elettorato più in generale.
La necessità di un nuovo partito nasce dal riconoscere vero che nessuna delle realtà attualmente esistenti possa unificare tutte le opzioni in campo. Non serve a nulla fare delle sommatorie ma è necessaria una nuova sintesi.
Non credo che un ruolo unificante possa svolgerlo il PD. Non sono chiari in quel partito le caratterizzazioni identitarie. Fatto che ha portato alle diverse scissioni. Il cambio dei vertici a partire dal Segretario non è sufficiente a colmare il vuoto e le contraddizioni della proposta. Troppo sono sedimentate le abitudini, i caratteri, le culture, i contrasti anche personali.
Da dove partire? Innanzitutto da una condivisione della lettura della situazione internazionale. Grazie agli eventi seguiti allo sfaldamento del blocco sovietico e anche allo sviluppo della tecnologia digitale (il villaggio globale) una situazione nuova si è venuta a determinare nell’equilibrio tra le potenze. È saltato l’equilibrio nato a Yalta subito dopo il II conflitto mondiale. Soprattutto vanno evidenziate la crescita di Cina e India e dei paesi che per un periodo furono chiamati “non allineati”, oggi identificati come BRICS. Alcuni parlano dell’avvento del “secolo cinese”. Difatti va riconosciuta una perdita di egemonia dei paesi occidentali e degli USA in particolare. Fatto che induce a riconoscere la necessità di un mondo pluricentrico capace di coscientizzare che le problematiche vissute dal mondo non sono risolvibili con azioni unilaterali. Valgano ad esempio i problemi del cambiamento climatico, della transizione energetica ad esso connessa, dello sforzo necessario per risolvere problemi endemici come la fame e le malattie, specie quelle infettive, le migrazioni causate dagli squilibri. Un nuovo ordine mondiale necessita e non può venire se non attraverso un passo avanti in direzione di un superamento delle diseguaglianze. Un Europa più unita, coesa, autonoma ne è condizione necessaria. L’attuale conflitto Russia-Ucraina può essere letto come una conseguenza dell’avvenuto disequilibrio tra le potenze. Fermo restando la condanna all’invasione dell’Ucraina da parte russa, va ricercata la via per un cessate il fuoco e l’avvio di trattative tese alla pace.
È da considerare inammissibile che forze di sinistra votino in parlamento come le destre sui provvedimenti tesi all’aiuto all’ucraina, innanzitutto per la fornitura di armi.
Una forza di sinistra non può non considerare la NATO come strumento obsoleto ai fini di un equilibrio tra le potenze. Un ruolo di autonomia necessita da parte europea con la strutturazione di un esercito autonomo capace di imporre un suo punto di vista senza accondiscendenze passive agli USA o ad altre potenze.
Per quanto attiene alle politiche sociali una forza di sinistra non può che avere come riferimento le classi lavoratrici, i sui bisogni, rivendicazioni, volontà di riscatto, aspirazioni, speranze. I cambiamenti nella struttura del mondo economico, nei modi di produzione dovuto all’avvento del digitale ha sicuramente chiuso l’epoca dell’“operaismo” ma non quella dei conflitti sociali e del contrasto “capitale-lavoro”. Lo dicono il diffuso precariato anche di fasce sociali un tempo protette, l’alta disoccupazione giovanile, la perdita di potere salariale, la interruzione della mobilità sociale, il contrasto tra periferie e centri urbani, la solitudine degli anziani per citare solo alcuni delle contraddizioni in atto, più in generale l’acuirsi della forbice tra garantiti e non garantiti.
Una forza di sinistra non può che promuovere ogni azione tesa ad un allargamento e diffusione delle garanzie sociali, di maggiore e più diffuso benessere.
Prioritario deve essere considerata la protezione del potere di acquisto salariale. Ciò può avvenire per mezzo di automatismi come lo fu la scala mobile.
La proposta di stabilire un salario minimo per legge deve essere considerato un obbiettivo perseguibile insieme al rafforzamento della contrattazione nazionale.
L’ipotesi di una riduzione dell’orario di lavoro secondo la logica “lavorare meno, lavorare tutti” deve essere un obiettivo strategico prioritario. Così per l’abolizione del Jobs Act e delle forme di precariato.
La lotta alla disoccupazione soprattutto giovanile deve essere perseguita attraverso politiche di investimenti poderosi da parte pubblica in direzione dei settori cardini dell’economia: trasporti, scuola, formazione e ricerca, sanità, infrastrutture, abitazione, ecc.
Ciò può avvenire attraverso un riequilibrio della spesa privilegiando quella “fruttuosa” verso quella “infruttuosa” riducendo sprechi e investimenti in settori come gli armamenti, un maggiore controllo sugli esiti delle cantierizzazioni, unificazione dei centri di spesa.
Cardine di una politica di sinistra è la riforma del fisco, confermando e migliorando l’impianto progressivo, per mezzo di un taglio del cuneo fiscale soprattutto per la parte gravante sui lavoratori.
La crescita delle entrate deve fondarsi sull’aumento della base contributiva generata dagli investimenti e una efficace lotta alla evasione.
Prioritarie devono essere considerate “riforme di struttura” che mirino ad un rafforzamento del dominio pubblico su quello privato, specie nei settori strategici e sensibili: energia, comunicazione, infrastrutture, sanità, formazione e ricerca, trasporti, con la eliminazione del criterio dannoso che scarica le spese sul pubblico e i profitti sul privato. Si vedano a tale proposito la condizione di alcune realtà come l’Alitalia, la sanità in alcune regioni, il settore siderurgico, il settore delle telecomunicazioni, le autostrade.
Il miglioramento della efficienza dei servizi deve essere realizzato per mezzo di tecniche di controllo della qualità che coinvolgono sia gli operatori che l’utenza, non solo la dirigenza, con incentivazioni salariali degli operatori sulla base di criteri di soddisfazione dell’utenza e il raggiungimento di obiettivi definiti di eccellenza.
Sono questi solo alcune delle tematiche da affrontare. Non meno importanti sono i temi delle forme di partecipazione. Quale partito, con quale struttura organizzativa, nazionale e territoriale, come selezionare i gruppi dirigenti per impedire ingressi miranti al carrierismo o alla rappresentanza di interessi lobbistici o di categoria, all’autoreferenzialità?
Buona riflessione!
Donato Lamacchia
La nascita del PCI una necessità non un errore. di D. Lamacchia

Nel centenario della nascita del PCd’I con la scissione di Livorno del 21 Gennaio 1921 molti sono stati gli interventi tesi a riesaminare i fatti e le ragioni di quegli eventi e molti sono gli autorevoli commentatori. Come è consueto nelle celebrazioni storiche in molti c’è la tendenza a calare nell’attualità le riflessioni. Sta accadendo anche per il centenario del PCI. Il fatto più in evidenza è la tendenza della sinistra italiana alla scissione e del carattere nefasto della stessa. Molti fanno risalire al ’21 di Livorno questa tendenza. A far sentire cioè quell’evento un errore storico primordiale. Anzi alcuni lo vogliono far vivere come una vera e propria colpa. Questo è fatto soprattutto da parte di chi si richiama politicamente e culturalmente al PSI da cui il PCd’I si separò.
La scissione non fu un errore ma una “necessità storica”. In sintesi gli eventi storici che fecero da generatori della scissione furono la rivoluzione russa da un lato e il “biennio rosso” dall’altro. Il processo di industrializzazione seguito alla prima guerra mondiale aveva innescato una situazione di contrapposizione tra capitale e lavoro che aveva generato conflitti che avevano interessato tutta l’Europa, Italia compresa.
L’allora gruppo dirigente del PSI (Turati, Modigliani, Serrati) riteneva che compito del PSI fosse quello non di portare le masse in piazza ma di sviluppare azioni atte a rafforzare la pratica e la cultura del metodo socialista attraverso le sezioni di partito, le cooperative, le case del popolo, ecc.
Dall’altra parte (Gramsci, Bordiga, Terracini, Togliatti, Tasca) si avvertiva l’esigenza di agire sulla carne viva del conflitto di classe con le occupazioni di fabbriche e terre, la realizzazione dei Consigli Operai per portare fino a compimento il rovesciamento dello stato di cose e realizzare ciò che era stato già compiuto in Russia da Lenin e come veniva organizzato e proposto dalla III Internazionale. Da un lato una opzione “socio-culturale” dall’altra l’esigenza di agire sulle leve del conflitto di classe vero e proprio. Non mancava a questi ultimi la coscienza che una leva culturale fosse necessaria, valgano le riflessioni di Gramsci a tale proposito e il suo concetto di “Egemonia” e della necessità che la classe operaia si attrezzasse per operare la propria una volta giunta al potere. Prima però necessitava avercelo il potere!
Queste diverse sensibilità si manifestarono anche nei giudizii che si ebbero sul fenomeno fascista. Come un “accidente” da contrastare con la politica e la battaglia parlamentare da parte socialista (fino all’estremo sacrificio di Matteotti) e con una più radicale opposizione da parte comunista considerando il fenomeno come una risposta che la borghesia stava dando al pericolo di affermazione delle lotte operaie in tutta Europa. Atteggiamento che si evidenziò nella partecipazione attiva alla resistenza e successivamente alla realizzazione della Costituzione dell’Italia repubblicana (Umberto Terracini presidente dell’assemblea Costituente). Nel secondo dopo guerra queste sensibilità distinte si mantennero e si manifestarono allorquando inseguito al “boom economico” di nuovo il conflitto di classe si esasperò con il sostegno da parte comunista del conflitto stesso (lotte operaie al centro nord, occupazione delle terre a sud) e con la scelta da parte socialista di optare per l’azione di governo (partecipazione ai governi di centro-sinistra).
Stesso schema si mantenne negli anni ’80-’90 quando il Craxismo operò per l’opzione riformista che includeva l’abolizione della scala mobile e il PCI di Enrico Berlinguer lottava per sostenerla e difendeva l’occupazione delle fabbriche. Dunque si capisce che il nodo sta nel modo di affrontare e stare nel conflitto di classe. Non un capriccio o un volere personale. Tale è la situazione attuale. Con l’affermarsi dell’era digitale e con la caratterizzazione del capitale da industriale a finanziario sono mutate le caratteristiche del conflitto ma esso non è scomparso. Se è vero che il mutamento dei metodi di produzione ha affievolito la classe operaia e quindi ha reso ininfluente l’”operaismo”, non è venuta meno la necessità di stare al centro del conflitto con proposte che vogliono superare la fase di crisi e che non facciano sentire le classi lavoratrici sole senza nessuno che le rappresenti, facile “preda” di parole d’ordine rassicuranti e parolai di destra ad approfittarne in modo demagogico. La riflessione dunque sia benvenuta ma sia anche proficua e non miri a cercare colpe ma a capire come è possibile costruire un progetto comune.
Donato Lamacchia