pci
I 50 anni de “Il Manifesto” di G. Benvenuto

50 anni di storia della sinistra sono racchiusi nella “memoria” della esperienza de Il Manifesto e questo basterebbe per un augurio di buon compleanno. È stata una lunga stagione di confronti anche accesi, di scontri culturali e politici talvolta duri ma sempre di spessore, mentre l’uscita de Il Manifesto “obbligava” chi faceva vita sindacale a documentarsi su quanto vi era scritto anche a prezzo di solenni arrabbiature. Ma era comunque sempre uno scenario nel quale ci si muoveva da “compagni”. E questo confronto rifletteva un mondo variegato della sinistra vitale, aperto, combattivo, pronto comunque a scommettere e lottare per un cambiamento.
La data è nota: il primo numero del quotidiano uscì il 28 aprile 1971. Ci si era appena lasciati alle spalle le grandi lotte dell’Autunno caldo. Si stava scivolando verso un periodo di restaurazione politica, annunciato dalla famosa e tragica strategia della tensione, con le elezioni del 1972. In quella occasione si registrò il fallimento di proposte politiche nuove a sinistra, molto innovative, come l’Mpl di Labor e, appunto, Il Manifesto. Esperienze che avevano un tratto in comune che oggi siamo portati a sottovalutare: ruppero due monolitismi, quello del voto dei cattolici destinato immancabilmente alla Dc, quello del centralismo del Pci che aveva generato la “cacciata” dei fondatori de Il Manifesto. In quel momento persero, ma in realtà avevano dimostrato che quel modo di intendere la politica non reggeva più, era superato. Ed ebbero, storicamente, ragione.
Quella data, il 29 aprile, suscita in chi ha militato nel sindacato dell’industria suggestioni ancora forti. Due anni prima, nel 1968, nasceva la piattaforma contrattuale dei metalmeccanici, unitaria e sancita poi da una consultazione di massa come mai si era vista, che apriva una stagione fondamentale di conquiste contrattuali volte a restituire dignità e diritti ai lavoratori. In quel periodo il gruppo de Il Manifesto, da Rossana Rossanda a Luciana Castellina, da Aldo Natoli a Valentino Parlato, da Luigi Pintor a Lucio Magri e tanti altri, era già una delle anime più vivaci del risveglio sociale e politico che attraversava la nostra società, dagli studenti agli operai.
E divenne presto una realtà che otteneva grande simpatia nel mondo sindacale e non solo perché… vittima dell’ultima condanna di frazionismo nel Pci. Ma anche perché si sforzava di cogliere quegli aspetti di novità che già erano presenti nelle lotte operaie e nelle manifestazioni studentesche presentando il conto ad una politica, ad un costume, ad un modo di pensare che ormai appariva anacronistico rispetto alla evoluzione del Paese.
Quando uscì Il Manifesto quotidiano nella Flm appena costituita divenne subito di casa. Sporgeva da molte tasche dei sindacalisti, ma era soprattutto oggetto di discussione sui tavoli delle riunioni appassionate di quel tempo. Quel gruppo poteva, ed aveva, idee diverse dal riformismo sindacale e politico ma si esprimeva con una passione ed una curiosità verso i nuovi fenomeni dell’Italia di allora che lo rendeva comunque vicino alla sensibilità di una parte consistente del movimento sindacale, ovvero quella più determinata a realizzare il sogno dell’unità. Unità sindacale che sembrava a portata di mano ma che poi, come si sa, rifluì nella costituzione della Federazione unitaria Cgil, Cisl, Uil.
Il Manifesto si propose nel periodo nel quale la stampa sindacale acquisiva per merito di tanti bravi giornalisti un rilievo ed una attenzione mai avuta prima di allora. Si andò ben oltre le pagine di cronaca nelle quali i grandi media dell’epoca confinavano scioperi e contratti. Il Manifesto partecipò attivamente a questa opera di rinnovamento del giornalismo, anche sul piano del linguaggio. E divenne una scuola di giornalismo controcorrente, molto attenta all’evoluzione sociale, come dovrebbe fare sempre una sinistra che non vuol perdere il contatto con la realtà.
Giorgio Benvenuto
(Presidente della Fondazione Bruno Buozzi)
50 anni manifesti. di G. Polo

Oggi il manifesto compie 50 anni. Si dice che a questa età ognuno abbia la faccia che si merita. Nel caso valga anche per un giornale, il manifesto ha raffigurato a lungo quella di un’intelligente eresia comunista. Almeno finché è esistita una “chiesa” da rivoluzionare o riformare. E sotto quella faccia un corpo di donne e uomini uniti in una storia d’amore collettiva, ardente e litigiosa. Almeno finché sono riusciti a nutrirla di una passione comune.
Nato negli anni dell’assalto al cielo come una forma originale della politica, questo giornale forse non è mai diventato un progetto compiuto, ma è sempre rimasto – aggiornando l’eresia originaria – ben dentro la società e il suo “movimento reale”, uno specchio della sinistra, di quel che è stata o dovrebbe essere, nel bene e nel male.
Negli anni Ottanta è stato anche una zattera che ha raccolto tanti protagonisti del decennio precedente. A molti ha dato un’ancora di pensiero critico, a qualcuno di noi il privilegio raro di trasformare in lavoro le proprie convinzioni. E un mestiere, formando una generazione di giornalisti che deve molto di ciò che è a questo giornale, a chi lo ha fondato e nutrito. Militanti dell’informazione, dicevamo. Per tenere insieme mezzi e fini: un quotidiano comunista.
A lungo ci si è poi dovuti arrangiare con il mondo che andava in direzione opposta: il mezzo diventava via via più concreto del fine, la faccia aggiornava grafica e tecnologie, il corpo cambiava con il correre del tempo. Aggiungendo nuove culture e appartenenze a quelle originarie. Una ricchezza, testimoniata da centinaia d’inserti e supplementi; una complicazione, anche, visibile nella “federazione delle pagine”, creativa quanto disorganica. La realtà cambiava e non come avremmo voluto, il capitale frammentava storie e persone, il lavoro veniva ridotto a merce precaria, la sinistra si divideva tra abdicazioni, rinunce, chiusure. E noi specchio del nostro mondo – per fortuna – delle diversità crescenti tra i nostri compagni e lettori, unici veri nostri padroni. Ma sempre alla ricerca della contaminazione tra generi e linguaggi, politicizzando il racconto per ricostruire un patrimonio comune. Dall’informazione alla formazione, questo è stato lo sforzo. Perché ci insegnavano che si può essere partigiani senza diventare settari, restare aperti e cambiare mantenendo le proprie identità, apprendere dall’accoglienza per farne un comune campo di appartenenza. La politica, insomma.
Un collettivo, dicevamo, molto più che una redazione o una cooperativa. E per questo capace non solo di pubblicare un giornale, ma di indire assemblee, concerti, seminari, persino manifestazioni, come quando – il 25 aprile del 1994 – la rappresentanza politica appariva annichilita dalla berlusconiana nuova autobiografia della nazione.
Di questo percorso collettivo siamo vissuti, nel discorso pubblico come nelle nostre regole democratiche. Cercando coerenza tra enunciazioni e pratiche, per poter serenamente tirare le fila ogni giorno da un punto di vista alternativo alle leggi del capitale. E fissarlo in un articolo o nella bellezza dei titoli nutriti dalla nostra faticosa struttura orizzontale. Alla base di tutto, condizione essenziale, c’è stato il privilegio di essere liberi. Anche di gestire direzioni collettive violando la sacralità del direttore unico – in genere maschio – che segna ancor oggi il mondo dell’informazione.
Liberi anche economicamente, naturalmente. Perché il nostro vero nemico di sempre è stato il mercato con le sue leggi; una condizione materiale, prima che una convinzione ideologica. Di cui abbiamo pagato il prezzo. Perché quando non sono più bastati né gli stipendi austeri e sempre in ritardo, né la generosità dei lettori – le tante sottoscrizioni, cene, numeri speciali a prezzi esorbitanti – la nostra stessa libertà si è ristretta, mentre si desertificava quella del Paese e del mondo. Così il mezzo è diventato il fine, tutto si riassumeva nella sopravvivenza del giornale, a qualunque costo. Il racconto si è spoliticizzato, le contaminazioni evaporate, la comunicazione tra noi ogni giorno più difficile, persino le diversità generazionali sono diventate un problema. Così per continuare a vivere il manifesto ha rinunciato a una parte di sé, per molti un’amputazione dolorosa.
Ma del resto per tenere in vita una storia d’amore bisogna volerlo in due. Almeno in due.
Gabriele Polo
La nascita del PCI una necessità non un errore. di D. Lamacchia

Nel centenario della nascita del PCd’I con la scissione di Livorno del 21 Gennaio 1921 molti sono stati gli interventi tesi a riesaminare i fatti e le ragioni di quegli eventi e molti sono gli autorevoli commentatori. Come è consueto nelle celebrazioni storiche in molti c’è la tendenza a calare nell’attualità le riflessioni. Sta accadendo anche per il centenario del PCI. Il fatto più in evidenza è la tendenza della sinistra italiana alla scissione e del carattere nefasto della stessa. Molti fanno risalire al ’21 di Livorno questa tendenza. A far sentire cioè quell’evento un errore storico primordiale. Anzi alcuni lo vogliono far vivere come una vera e propria colpa. Questo è fatto soprattutto da parte di chi si richiama politicamente e culturalmente al PSI da cui il PCd’I si separò.
La scissione non fu un errore ma una “necessità storica”. In sintesi gli eventi storici che fecero da generatori della scissione furono la rivoluzione russa da un lato e il “biennio rosso” dall’altro. Il processo di industrializzazione seguito alla prima guerra mondiale aveva innescato una situazione di contrapposizione tra capitale e lavoro che aveva generato conflitti che avevano interessato tutta l’Europa, Italia compresa.
L’allora gruppo dirigente del PSI (Turati, Modigliani, Serrati) riteneva che compito del PSI fosse quello non di portare le masse in piazza ma di sviluppare azioni atte a rafforzare la pratica e la cultura del metodo socialista attraverso le sezioni di partito, le cooperative, le case del popolo, ecc.
Dall’altra parte (Gramsci, Bordiga, Terracini, Togliatti, Tasca) si avvertiva l’esigenza di agire sulla carne viva del conflitto di classe con le occupazioni di fabbriche e terre, la realizzazione dei Consigli Operai per portare fino a compimento il rovesciamento dello stato di cose e realizzare ciò che era stato già compiuto in Russia da Lenin e come veniva organizzato e proposto dalla III Internazionale. Da un lato una opzione “socio-culturale” dall’altra l’esigenza di agire sulle leve del conflitto di classe vero e proprio. Non mancava a questi ultimi la coscienza che una leva culturale fosse necessaria, valgano le riflessioni di Gramsci a tale proposito e il suo concetto di “Egemonia” e della necessità che la classe operaia si attrezzasse per operare la propria una volta giunta al potere. Prima però necessitava avercelo il potere!
Queste diverse sensibilità si manifestarono anche nei giudizii che si ebbero sul fenomeno fascista. Come un “accidente” da contrastare con la politica e la battaglia parlamentare da parte socialista (fino all’estremo sacrificio di Matteotti) e con una più radicale opposizione da parte comunista considerando il fenomeno come una risposta che la borghesia stava dando al pericolo di affermazione delle lotte operaie in tutta Europa. Atteggiamento che si evidenziò nella partecipazione attiva alla resistenza e successivamente alla realizzazione della Costituzione dell’Italia repubblicana (Umberto Terracini presidente dell’assemblea Costituente). Nel secondo dopo guerra queste sensibilità distinte si mantennero e si manifestarono allorquando inseguito al “boom economico” di nuovo il conflitto di classe si esasperò con il sostegno da parte comunista del conflitto stesso (lotte operaie al centro nord, occupazione delle terre a sud) e con la scelta da parte socialista di optare per l’azione di governo (partecipazione ai governi di centro-sinistra).
Stesso schema si mantenne negli anni ’80-’90 quando il Craxismo operò per l’opzione riformista che includeva l’abolizione della scala mobile e il PCI di Enrico Berlinguer lottava per sostenerla e difendeva l’occupazione delle fabbriche. Dunque si capisce che il nodo sta nel modo di affrontare e stare nel conflitto di classe. Non un capriccio o un volere personale. Tale è la situazione attuale. Con l’affermarsi dell’era digitale e con la caratterizzazione del capitale da industriale a finanziario sono mutate le caratteristiche del conflitto ma esso non è scomparso. Se è vero che il mutamento dei metodi di produzione ha affievolito la classe operaia e quindi ha reso ininfluente l’”operaismo”, non è venuta meno la necessità di stare al centro del conflitto con proposte che vogliono superare la fase di crisi e che non facciano sentire le classi lavoratrici sole senza nessuno che le rappresenti, facile “preda” di parole d’ordine rassicuranti e parolai di destra ad approfittarne in modo demagogico. La riflessione dunque sia benvenuta ma sia anche proficua e non miri a cercare colpe ma a capire come è possibile costruire un progetto comune.
Donato Lamacchia
La governabilità non dipende solo dal sistema elettorale, di V. Russo
.
In un suo articolo sul Corriere della Sera del 5-06-2017, il prof. Angelo Panebianco facendo eco a tutti quelli che come lui sono aprioristicamente favorevoli al maggioritario lancia l’allarme sul fatto che verosimilmente l’adozione di un sistema “proporzionale” favorirà l’ingovernabilità del Paese. Evidentemente AP ha la memoria corta. Con il sistema proporzionale la DC ha governato per 44 anni anche in situazioni più drammatiche di quelle degli ultimi decenni, ossia, come sostiene Giovanni Sabbatucci con il “golpe in agguato”. Si potrà discutere sulla qualità dell’azione di governo e non mi pone nessun problema accedere all’idea che complessivamente e storicamente la Repubblica sia stata mal governata. Ma questo non dipende dal sistema elettorale dipende dalla qualità della classe politica in particolare e dalla classe dirigente in generale. Prova ne sia che con la II Repubblica non abbiamo visto un grande salto di qualità. Anzi i partiti tradizionali della prima, si sono dissolti per via del leaderismo e della personalizzazione della politica. Addirittura sono sparite alcune delle culture politiche più radicate nella società italiana. Con il crollo del Muro di Berlino (1989) e l’implosione dell’URSS (1991) finiva la Guerra Fredda e veniva meno la minaccia esterna che teneva insieme alcune forze politiche minori attorno alla DC. Con il proporzionale e il CAF (la coalizione tra Craxi, Andreotti e Forlani) non si è affrontato il problema del debito pubblico perché nel 1983 l’Italia agganciava la ripresa internazionale, e la “nave andava”. Si perse una occasione storica. In quel periodo, economisti, noti a livello internazionale, sostenevano che era il proporzionale a far lievitare la spesa e il debito pubblici e non il comportamento irresponsabile dei governi in carica. Ma come abbiamo visto, negli ultimi 25 anni, con il maggioritario “coatto” della II Repubblica non si è risolto il problema perché a governi di Centro-Sinistra relativamente virtuosi si sono alternati governi lassisti di Centro-Destra. E poi è arrivata la crisi mondiale che è stata affrontata con politiche economiche sbagliate che in Europa hanno provocata una doppia recessione e, quindi, oggettivamente e in particolare nei Paesi euromed, non c’erano le condizioni per poterlo fare. Allora ragionando in una prospettiva storica, è chiaro che almeno in Italia una sana gestione dei conti pubblici non dipende semplicisticamente dal tipo di sistema elettorale proporzionale o maggioritario ma dai valori che guidano l’azione dei governanti, dai loro comportamenti più o meno responsabili che si alternano alla guida dei paesi, e non ultimo dalle fasi congiunturali che attraversano l’economia mondiale e quelle nazionali. Non sto sostenendo che i sistemi elettorali non c’entrano per niente. Dico che essi concorrono in associazione ad altri fattori che hanno a che fare con l’etica pubblica e l’accountability dei governanti. Purtroppo questi fattori di natura morale in Italia non sono molto apprezzati e praticati nella sfera pubblica né in quella privata della società civile. Purtroppo il debito pubblico italiano è storicamente il frutto del patto criminale (implicito) tra i governi che si sono succeduti alla guida del Paese e gli evasori. Le statistiche ricostruite dalla Banca d’Italia e dall’Istat a partire dall’Unità ci dicono che l’Italia è sempre stato un Paese ad alto debito pubblico prima per via del finanziamento delle Guerre di indipendenza da parte del Piemonte e dei debiti pubblici ereditati dagli Stati preunitari, poi per via delle due Guerre Mondiali e della Grande depressione e, da ultimo, per via dell’ultima depressione. Ma non c’è solo l’evasione fiscale. La corruzione e l’estorsione dilagano nel paese e per debellarla non basta certo la nomina del Commissario straordinario e la creazione dell’ANAC (autorità nazionale anti-corruzione) con risorse umane e materiali limitate.
A proposito di evasione fiscale, ricordo che il Servizio Centrale degli ispettori tributari creato nel 1981 in forza di una legge voluta dai ministri Reviglio e Andreatta è stato sciolto dopo che era stato trasformato in un organo di mera consulenza – come se il problema dell’evasione fosse stato risolto. In vista dell’attuazione del federalismo si sono abrogati controlli esterni ed interni sugli EELL e le Regioni e poi ci si meraviglia che evasione fiscale e corruzione sono stabili e aumentino da 45 anni a questa parte. Nonostante che da cinque anni a questa parte il processo di attuazione del federalismo sia stato bloccato del tutto in concomitanza dell’approvazione della legge di riforma costituzionale poi bocciata dal referendum del 4-12-2016, non c’è stato alcun tentativo di attuare un sistema efficiente ed efficace di controlli interni ed esterni. Non senza menzionare che l’Italia resta la patria delle tre più grandi organizzazioni criminali del mondo che continuano a prosperare nel nostro paese e che si internazionalizzano progressivamente. E continueranno a farlo e, per altro verso, non si capisce che dette associazioni di stampo mafioso, a livello interno, continuano a controllare pacchetti rilevanti di voti qualunque sia il sistema elettorale adottato.
Il Sole 24 Ore nei giorni scorsi ha contato a livello locale 39 simboli di liste per le amministrative e, a livello locale, è vigente un sistema maggioritario, ma possiamo dire che la maggioranza delle Regioni e dei Comuni sono ben governati? E allora alcuni commentatori e politologi dovrebbero capire che la governabilità dipende dall’abilità dei politici al governo di far rispettare le leggi, di risolvere i problemi reali della gente e soprattutto dei più deboli e bisognosi. E questa abilità è tanto più alta quanto più alta è la coesione sociale, quanto più condivisa è l’etica pubblica, quanto più responsabili sono i politici e i funzionari pubblici nei confronti dei loro elettori e dei loro cittadini in generale, quanto più è condivisa è una teoria della giustizia sociale.
Ora è chiaro che in Italia su questo terreno siamo a livelli molto, troppo bassi. E se le principali forze politiche scelgono un sistema elettorale che prevede sue terzi di parlamentari nominati non dai grandi partiti di una volta ma da oligarchie e/o conventicole centralistiche che selezionano i candidati sulla base della fedeltà al leader, è chiaro che il rapporto di agenzia tra elettori ed eletti si allenta e fomenta la deresponsabilizzazione dei politici in generale. Molti si illudono che la risposta potrebbe venire da un leader volitivo e decisionista ma è solo una illusione a cui segue di norma una profonda delusione.
Se il processo legislativo degenera perché il governo ha espropriato all’85% le Camere della loro iniziativa legislativa e più della metà delle leggi viene approvata con il voto di fiducia che riduce al minimo e, alla fine, strozza il dibattito parlamentare, è chiaro che ne consegue la deresponsabilizzazione non solo dei politici ma anche del governo stesso e della PA che il governo dovrebbe controllare nella delicata fase di applicazione della leggi. In questo modo, il governo diventa dominus del tutto e del nulla e se, perversamente, si esercita a dire che è colpa della PA e in fatto la delegittima, non si rende conto che così facendo delegittima se stesso. Anche qualche buona legge resta inattuata e si rimedia proponendo una nuova legge senza aver analizzato i motivi per cui la precedente non è stata attuata e senza una valutazione preliminare dell’idoneità della nuova legge a risolvere il problema. Si consolida la prassi secondo cui i problemi si risolvono con l’approvazione di nuove leggi. Nell’era della sfiducia non solo tra elettori ed eletti ma anche tra i poteri dello Stato, ognuno chiede leggi sempre più precise, casistiche da applicare “burocraticamente” ma non di rado i problemi della gente rimangono irrisolti. Aumenta la sfiducia nei confronti dei politici e delle istituzioni che essi animano. C’è un rischio per la democrazia? Si e qui concordo con il prof. Panebianco ma non è solo un rischio. È una realtà. C’è in corso in Italia, in Europa e nel mondo una deriva autoritaria e tecnocratica che, pur non risolvendo i problemi reali della gente, lavora in tal senso. E la risposta secondo me non è quella del rafforzamento del governo ma delle istituzioni rappresentative.
Vincenzo Russo.
Riferimenti:
Giorgio Galli (1983) L’Italia sotterranea. Storia politica e scandali, Laterza, edizione club degli editori, Mi;a cura di Gianfranco Pasquino, in Paradoxa, anno IX, n. 4, Ott.-Dic. 2015; http://www.novaspes.org/paradoxa/scheda.asp?id=560;
Sabbatucci Giovanni, in Belardelli G., L. Cafagna, E. Galli della Loggia e G. Sabbatucci, Miti e storia dell’Italia unita, Bologna, il Mulino, 1999: 203-216.
tratto dal Blog http://enzorusso2020.blog.tiscali.it/2017/06/12/la-governabilita-non-dipende-solo-dal-sistema-elettorale/
Quel giorno che le donne scelsero la Repubblica, di G. Bellentani
.
Finalmente quel 2 giugno era arrivato. La guerra era finita da un anno e dopo tanto tempo si poteva votare in libertà. In quel Referendum si chiedeva agli italiani di scegliere tra Monarchia e Repubblica, e da questa scelta sarebbe dipeso il futuro del Paese. Erano stati mesi di campagna referendaria pieni di discorsi e di slogan. I favorevoli alla Monarchia ricordavano che l’Unità d’Italia era stata fatta dai Savoia e che scegliere la Repubblica era un salto nel buio, visto che tante erano ancora le disuguaglianze economiche, culturali e sociali che esistevano tra Nord e Sud. Gli italiani, da sempre divisi, si sarebbero potuti ritrovare uniti sotto lo stesso progetto di democrazia? I favorevoli alla Repubblica ricordavano i comportamenti dei Savoia, i quali avevano portato l’Italia in due guerre, causa di centinaia di migliaia di morti, ma che soprattutto avevano permesso che nel Paese si instaurasse una feroce e sanguinaria dittatura, per poi scappare a Brindisi come i più pavidi dei codardi, lasciando i propri sudditi alla mercé dei nazifascisti.
Nelle strade e nelle osterie, ormai non si parlava d’altro. Ciò che invece sembrava irreale era che in quella domenica di giugno del 1946 anche le donne potessero votare. L’Italia, come tanti altri Paesi, avrebbe avuto finalmente il Suffragio Universale. Già nel 1919, le deputate Anna Maria Mozzoni e Anna Kuliscioff avevano portato in Parlamento questa mozione per estendere il voto alle donne, mozione che era passata alla Camera, ma che poi non ebbe il tempo di passare al Senato, in quanto vennero indette nuove elezioni. Anche Benito Mussolini, quello che considerava le donne alla stregua di serve del marito e fattrici, con la Legge Acerbo, conferì alle donne il diritto di voto, a condizione che dovessero essere mogli di caduti o decorati in guerra, in possesso di titolo di studio e contribuenti per 40 lire annue. Quindi, praticamente pochissime.
Già nel 1944, mentre l’Italia era ancora divisa in due, con le Forze Alleate al Sud e tedeschi e Partigiani al Nord, si pensava al futuro, tant’è che un comunicato luogotenenziale diceva espressamente che “Le forze istituzionali saranno espresse dal popolo italiano, che a tal fine eleggerà a Suffragio Universale un’Assemblea Costituente”.
Sia De Gasperi che Togliatti, avevano grosse perplessità riguardo al voto alle donne. Lo stesso Segretario del PCI dichiarava ai suoi che “le donne di solito optano nelle loro scelte per un passato reazionario”.
Il 10 marzo del 1946 c’erano state le Elezioni Amministrative a suffragio universale per eleggere i Sindaci di duemila comuni e per la prima volta vennero elette due Sindaci donna, Ada Notari e Ninetta Bartoli. Questa volta però si trattò di una scelta a carattere nazionale e non solo locale.
Già di primo mattino le strade erano piene di donne. Le vecchie, coi fazzoletti in testa, sorrette dai figli, andavano ai seggi, per fare una cosa che mai avevano fatto in tutta la loro vita. Prima di morire, erano curiose di fare questa nuova esperienza. Le giovani, col vestito buono e le scarpe della festa, truccate, andavano in gruppo ai seggi, cantando canzoni. Appena la prima delle giovani ricevette la scheda di voto, fu informata che nel caso il documento fosse stato sporcato, il voto sarebbe stato invalidato. La voce corse subito fuori e tutte quelle giovani donne tirarono fuori dalla tasca i fazzoletti, per togliersi il rossetto. Alla sera a casa, padri e mariti non chiesero nulla alle loro donne: sapevano che nella cabina elettorale, ognuna di loro aveva votato come le pareva, senza lasciarsi influenzare da consigli o imposizioni.
Votò l’89,08 % degli aventi diritto e vinse nettamente la Repubblica. Il voto delle donne, che erano circa un milione più degli uomini, si rilevò in termini proporzionali decisivo per la scelta repubblicana. Furono 21 le donne elette alla Costituente. Esse lavorarono assieme agli uomini per scrivere la Costituzione. Una di queste, Teresa Mattei, del PCI, al discorso per il suo insediamento, pronunciò queste belle e semplici parole: “Dall’emancipazione delle donne, tutta la società ne trarrà giovamento, quindi anche gli uomini”.
A queste donne che hanno combattuto al fianco dei Partigiani o che si sono sobbarcate tutto il lavoro domestico mentre i loro uomini erano in montagna o nei campi di prigionia, va tutta la nostra gratitudine. A loro che hanno voluto un futuro migliore per i loro e i nostri figli, a loro che hanno lottato per un Paese fatto di democrazia e diritti, a loro che hanno contribuito a scrivere la Costituzione più bella del mondo, noi diciamo grazie. Il vostro diritto al voto, giusto e inequivocabile, l’avete conquistato e meritato sul campo.
Gianluca Bellentani
Tratto dal Blog https://mimmomirarchi.wordpress.com/2017/05/31/quel-giorno-che-le-donne-scelsero-la-repubblica/