classe operaia

Ha un futuro la destra italiana? di M. Zanier

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Quando si guarda al Governo Meloni, spesso si è preoccupati del rischio di una lunga sterzata a destra della politica italiana e più di un osservatore ha gridato all’inizio di un nuovo Ventennio. Se è comprensibile la preoccupazione di molti per le politiche sociali e culturali di destra che possano ledere diritti fondamentali e non ascoltare le richieste provenienti dagli strati sociali più bassi, sulla longevità di questa maggioranza o sulla riproducibilità in futuro di questa coalizione di centro-destra nutro molte perplessità.

La coalizione che il 25 settembre 2022 ha vinto le elezioni politiche ottenendo il 44% dei voti con un’astensione che ha superato il 63% dei votanti, era costituita del 26% di Fratelli d’Italia, la Lega ferma al 9%, Forza Italia all’8% e Noi Moderati che non raggiungeva l’1%.

Se questo raggruppamento si chiama di Centro-Destra è per la presenza di Forza Italia e, in misura minore dei centristi di destra di Maurizio Lupi (che ha raccolto anche i voti democristiani dell’Udc di Lorenzo Cesa), che bilanciano in senso moderato i due partiti più schiettamente di Destra che sono Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni e la Lega di Matteo Salvini, che sono la maggioranza relativa e orientano questa coalizione in modo nuovo rispetto al passato. Ma queste sono cose note.

Quello su cui si riflette molto poco, secondo me, è che l’anello debole di questa maggioranza di governo è costituita dai moderati, ossia da Forza Italia soprattutto che è modellata da sempre sulla persona del suo leader, Silvio Berlusconi, che è nato nel 1936 e non può essere immortale e che non presuppone un vero ricambio generazionale al suo interno, nonostante si diano molto da fare Maurizio Gasparri, Antonio Tajani e il giovane Alessandro Cattaneo. Nessuno in quel partito, questa è una certezza, può prendere il posto per quell’elettorato di Berlusconi, che è il carismatico padrone del suo partito e che continua ad orientare molte testate giornalistiche oltreché il suo apparato di emittenti televisive. Quando lui non ci sarà più un giorno (gli auguro lontano), il suo partito sarà destinato a sciogliersi come neve al sole o a ridimensionarsi fortemente anche e soprattutto come immaginario popolare per quell’elettorato ed i suoi deputati, senatori e amministratori locali non potranno essere automaticamente “saltare il fosso” come hanno fatto alcuni di loro oggi entrando in Fratelli d’Italia, perché non è automatico che chi ha votato un partito moderato e padronale voti un partito postfascista come quello guidato da Giorgia Meloni. Non è così che funziona.

Senza l’8% di Forza Italia, i democristiani di destra che rendono presentabile questa coalizione di nostalgici, non si aggregheranno, credo, automaticamente al carrozzone di Giorgia Meloni e Salvini (anche lui mi pare insidiato all’interno della Lega da una nuova generazione di amministratori locali ambiziosi) e lei non potrà andare lontano, non avendo matematicamente i numeri per governare ancora. Quindi mettiamo da parte la paura di una lunga e salda coalizione di Destra-Centro. Questa perciò rischia di essere per la Meloni la prima e l’unica occasione di stare al governo del Paese.

Anche perché i moltissimi che l’hanno votata nel 2022, giocandosi così l’ultima carta, sperando cioè che l’unica persona che non era mai stata alle leve del comando, potesse dare loro delle risposte e delle soluzioni definitive, si renderanno presto conto che non potrà essere così. Perché è contro l’aumento dei salari più bassi, perché dovrà ancora proseguire le politiche sull’immigrazione impostate negli anni passati dato che lo chiedono gli industriali che hanno bisogno di manodopera strutturale, perché i suoi esponenti di spicco parlano con disprezzo dei giovani che percepiscono il reddito di cittadinanza mandandoli a zappare nei campi, senza tanti giri di parole e attaccano i diritti delle coppie omosessuali che in una certa misura hanno votato (incautamente direi) per il centro-destra.

Ovviamente lo sgretolamento a fine legislatura della coalizione guidata dalla Meloni non risolve al mio avviso il problema di una rappresentanza politica degna e responsabile.

Il fronte progressista che ha fatto un salto di qualità prima con la conferma di Giuseppe Conte a capo di un Movimento 5 Stelle ancorato ad una proposta progressista, poi con l’elezione di Elly Schlein al vertice del Partito Democratico che si pone in grande discontinuità col moderatismo di Enrico Letta e si collega alle richieste della CGIL da un lato, del popolo arcobaleno dall’altro e fa cartello sul salario minimo con le altre opposizioni. Ma non basta. Bisogna ripartire, secondo me, dai territori, dalla Scuola e dalla Salute pubblica, dalla difesa dell’ambiente, dai luoghi di lavoro, prendendo una posizione ferma nei confronti delle aziende che delocalizzano e licenziano operai ed impiegati da un giorno all’altro, in contesti spesso meno combattivi della realtà operaia della GKN che da qualche anno sta facendo scuola. C’è bisogno a sinistra di una visione del futuro, di un’idea di trasformazione graduale e profonda della società che a me piace chiamare ancora Socialismo.

Marco Zanier.

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La Comune di Parigi: una democrazia operaia. di A. Angeli

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Un dovere celebrare il 152° anniversario della Comune di Parigi, quando nacque il primo governo operaio che influenzò le idee di Karl Marx.

La Comune di Parigi rappresenta storicamente la prima esperienza rivoluzionaria che vide i lavoratori assumere brevemente il potere e dare corpo al primo governo operaio. La rivoluzione operaia nacque 152 anni fa nel mese di marzo, precisamente il 18-03-1871. Il movimento operaio governò la città per 72 giorni tra marzo e maggio 1871, con al centro la libertà e la democrazia. Karl Marx descrisse la Comune di Parigi come: “La prima rivoluzione in cui la classe operaia è stata apertamente riconosciuta come l’unica classe capace di iniziativa sociale, anche dalla gran parte della classe media parigina – negozianti, commercianti, mercanti – il ricco capitalista è il solo escluso”. Frederick Engels in seguito scrisse: “La Comune di Parigi è stata la dittatura del proletariato. La prima esperienza di liberazione dalla schiavitù della borghesia e del patriziato”.

La Comune nasce a seguito di una sconfitta militare francese. Tutto inizia nel 1870, quando scoppiò la guerra tra Francia e Prussia. Le forze francesi furono rapidamente distrutte all’inizio di ottobre 1870 e Parigi fu posta sotto assedio totale. I governanti francesi firmarono un armistizio con la Prussia alla fine del 1870. Il popolo considerò quell’accordo un tradimento, a cui si associarono quanti avevano cercato di difendere Parigi. In particolare l’affare fece infuriare la Guardia Nazionale, una forza che costituita prevalentemente dalle fasce più povere della popolazione.

I testi ci ricordano che il comitato centrale della Guardia Nazionale aveva collocato e approntato 400 cannoni in varie parti della città pronti per l’attacco. Al fine di coordinare e organizzarne il controllo, il capo del nuovo governo provvisorio, uscito dall’armistizio, Adolphe Thiers, ordinò il 18 marzo il sequestro dei cannoni. Questo scatenò una reazione da cui prese corpo la resistenza, che si preparò a fronteggiare l’esercito francese, che nel frattempo era riuscito a mettere al sicuro i cannoni, subito però fronteggiato e ostacolato da miglia di lavoratori che si convogliarono nei punti nevralgici per impedirne l’occultamento. Le donne, nella circostanza, svolsero un ruolo fondamentale nell’intimidire i soldati e alimentare le aspettative della resistenza. A Louise Michel, membro della Guardia Nazionale, fu affidato il ruolo di difendere le armi.

Subito si mosse dirigendosi verso la chiesa e suonò le campane per chiamare a raccolta la popolazione. Richiamò attorno a se oltre 200 donne, per affrontare il forte esercito formato da oltre 3.000 soldati. Questo segnò l’inizio della rivolta. Al proposito, Michel scrisse: “Siamo corsi al doppio suono delle campane, sapendo che c’era pronto ad attaccarci un esercito in formazione di battaglia. Ci aspettavamo di morire per la libertà. Tutto il genere femminile era al nostro fianco, non so come ma abbiamo vinto il primo scontro.»

Nel frattempo Thiers ordinò ai soldati di sparare contro la mobilitazione e disarmare gli operai. Ma i soldati rifiutarono, portando sezioni dell’esercito a unirsi ai parigini contro i generali. Due di questi furono assassinati dai loro soldati. Allora Thiers ordinò l’evacuazione di Parigi. Le donne durante la rivolta si comportarono come gli uomini e parteciparono attivamente alla costruzione delle barricate, brandirono le armi e si unirono a comitati. Molte di loro pretesero e ottennero un comando e si dimostrarono all’altezza del compito e spesso più coraggiose degli uomini. Con il loro esempio anticiparono quello che divenne poi il pensiero di Karl Marx. Infatti, Marx, sapeva che per raggiungere la liberazione le donne dovevano lottare per sé stesse. “È vero, forse, che alle donne piacciono le ribellioni contro il potere. Non siamo migliori noi uomini quanto al potere, ma il potere non ci ha ancora corrotti e noi guardiamo con interesse al ruolo delle donne ”.

Il 26 marzo i lavoratori si riunirono e deliberarono di eleggere un proprio consiglio che lavorasse nel proprio interesse per la sicurezza e la liberazione. Marx scrisse: “Il vecchio mondo si contorceva in convulsioni di rabbia alla vista della bandiera rossa”. Engels da parte sua aggiunse: «la Comune si servì di due espedienti infallibili. In primo luogo la creazione dei responsabili di tutti i posti di comando mediante le elezione. In secondo luogo, tutti i funzionari, indipendentemente dal grado, furono retribuiti come gli altri lavoratori, una parità di trattamento introdotta per prevenire il carrierismo”. A differenza dei parlamenti borghesi, infatti, tutti i membri degli organismi dirigenti furono eletti democraticamente con il voto dei lavoratori in rivolta. La Comune fece della Guardia Nazionale il principale corpo armato. Allo scopo fu introdotto un tetto salariale, fu deliberato di chiudere i banchi dei pegni e sospeso il debito dello Stato e sancita la separazione tra chiesa e stato, stabilendo la libertà delle religioni allora presenti nella Comune e la laicità dello stato. Fu abolito il lavoro minorile, concesse pensioni alle vedove/vedovi della guardia uccisa e fu stabilito il diritto dei dipendenti a rilevare un’attività.

l’internazionalismo venne assunto come visione del nuovo rapporto con gli altri popoli per la conquista della pace perpetua, impegnando la Comune a difendere l’autodeterminazione dei popoli, quale punto di riferimento della nuova politica verso gli altri Stati. Forte fu la spinta, da parte dei lavoratori, a combattere ogni proposito nazionalista rivendicato dagli ex leader della borghesia aristocratica e dalla nobiltà, poiché in contrasto con l’ideale della fratellanza universale che deve unire tutti i popoli e le razze, senza diversità alcuna sia culturale che di colore. “La bandiera della Comune è la bandiera della repubblica mondiale”, venne sancito dalla rivoluzione.

Tuttavia, una parte della classe aristocratico/borghese sopravvissuta alla rivoluzione, che manteneva ancora un controllo sulle grandi proprietà terriere, le attività commerciali e il controllo dei porti e delle dogane, manifestò la sua insoddisfazione e si dichiarò contraria alla leadership della Guardia Nazionale. Ma, il suo vero obiettivo era di impedire ai lavoratori la gestione amministrativa e politica della nuova realtà, conquistata con la rivoluzione. Infatti, superate le divergenze tra aristocrazia e borghesia, accantonate le differenze politiche nazionaliste preesistenti con i generali Prussiani, si unirono per mettere in atto la distruzione delle organizzazioni armate dei lavoratori parigini. Una reazione che Marx aveva purtroppo previsto. La Comune non poté raggiungere il suo obbiettivo del pieno potere statale poiché le forze che si organizzarono contro di essa si rivelarono troppo grandi e meglio organizzate. La prima reazione prese corpo il 21 maggio, allorché le forze statali fecero irruzione in città e massacrato le truppe rivoluzionarie e i civili della Guardia Nazionale. Dopo sette giorni di terribili scontri il 28 maggio la Comune fu soppressa dall’esercito, cui seguì una dura repressione, con oltre 30.000 morti durante i combattimenti o giustiziate direttamente una volta capitolare. I processi militari, che ne breve tempo vennero organizzati, coinvolsero ulteriori 40.000 ex combattenti o organizzatori della Comune, con conseguenti esecuzioni, lavori forzati o incarcerati con pene che prevedevano l’isolamento totale fino alla morte. Furono ripristinati i benefici a favore della borghesia, dei nobili e del clero reinsediando i privilegi del patriziato.

La Comune era stata schiacciata, sconfitta, cancellata. E tuttavia la breve esperienza della rivoluzione Comunarda offriva alla storia un esempio concreto di un nuovo modello di società democratica, egualitaria, rispettosa dei diritti e delle differenze di genere e per il superamento delle divisioni di classe sociale. La Comune è stata cruciale nel pensiero di Karl Marx, sia sull’importanza del concetto di classe che sul ruolo dello stato. La riflessione su quella rivoluzione gli ha permesso di approfondire e ampliare le sue idee. E quell’esperienza e le riflessioni elaborate da Marx sono ancora oggi una lezione storica, la quale, seguendo le sue parole, “sarà celebrata per sempre come il glorioso precursore di una nuova società e i suoi martiri saranno custoditi nel grande cuore della classe operaia”

Alberto Angeli

Per un programma del Partito Unitario dei Lavoratori. di D. Lamacchia

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No, non esiste un Partito Unitario dei Lavoratori. Non ancora. Spero che al più presto possa avviarsi un processo che porti alla sua formazione o ad una forza simile. Un partito che abbia l’ambizione di unificare tutte le forze intellettuali ed organizzative che fanno riferimento al mondo del lavoro per dargli la prospettiva di una emancipazione, condizione unica per una emancipazione di tutta la società verso un modello di tipo socialista, democratico ed egualitario.

Dopo gli anni dallo scioglimento del PCI e delle vicende che hanno attraversato le realtà seguite a tale evento, PD, RC, SI, LEU, Art. Uno, ecc. e la catastrofe delle ultime elezioni è inevitabile pensare che se si vuole dare concretezza ad una prospettiva di crescita di una forza di sinistra in Italia si debba partire dal riconoscere che le divisioni sono la causa principale della sconfitta elettorale e della perdita di consenso tra i lavoratori e l’elettorato più in generale.

La necessità di un nuovo partito nasce dal riconoscere vero che nessuna delle realtà attualmente esistenti possa unificare tutte le opzioni in campo. Non serve a nulla fare delle sommatorie ma è necessaria una nuova sintesi.

Non credo che un ruolo unificante possa svolgerlo il PD. Non sono chiari in quel partito le caratterizzazioni identitarie. Fatto che ha portato alle diverse scissioni. Il cambio dei vertici a partire dal Segretario non è sufficiente a colmare il vuoto e le contraddizioni della proposta. Troppo sono sedimentate le abitudini, i caratteri, le culture, i contrasti anche personali.

Da dove partire? Innanzitutto da una condivisione della lettura della situazione internazionale. Grazie agli eventi seguiti allo sfaldamento del blocco sovietico e anche allo sviluppo della tecnologia digitale (il villaggio globale) una situazione nuova si è venuta a determinare nell’equilibrio tra le potenze. È saltato l’equilibrio nato a Yalta subito dopo il II conflitto mondiale. Soprattutto vanno evidenziate la crescita di Cina e India e dei paesi che per un periodo furono chiamati “non allineati”, oggi identificati come BRICS. Alcuni parlano dell’avvento del “secolo cinese”. Difatti va riconosciuta una perdita di egemonia dei paesi occidentali e degli USA in particolare. Fatto che induce a riconoscere la necessità di un mondo pluricentrico capace di coscientizzare che le problematiche vissute dal mondo non sono risolvibili con azioni unilaterali. Valgano ad esempio i problemi del cambiamento climatico, della transizione energetica ad esso connessa, dello sforzo necessario per risolvere problemi endemici come la fame e le malattie, specie quelle infettive, le migrazioni causate dagli squilibri. Un nuovo ordine mondiale necessita e non può venire se non attraverso un passo avanti in direzione di un superamento delle diseguaglianze. Un Europa più unita, coesa, autonoma ne è condizione necessaria. L’attuale conflitto Russia-Ucraina può essere letto come una conseguenza dell’avvenuto disequilibrio tra le potenze. Fermo restando la condanna all’invasione dell’Ucraina da parte russa, va ricercata la via per un cessate il fuoco e l’avvio di trattative tese alla pace.

È da considerare inammissibile che forze di sinistra votino in parlamento come le destre sui provvedimenti tesi all’aiuto all’ucraina, innanzitutto per la fornitura di armi.

Una forza di sinistra non può non considerare la NATO come strumento obsoleto ai fini di un equilibrio tra le potenze. Un ruolo di autonomia necessita da parte europea con la strutturazione di un esercito autonomo capace di imporre un suo punto di vista senza accondiscendenze passive agli USA o ad altre potenze.

Per quanto attiene alle politiche sociali una forza di sinistra non può che avere come riferimento le classi lavoratrici, i sui bisogni, rivendicazioni, volontà di riscatto, aspirazioni, speranze. I cambiamenti nella struttura del mondo economico, nei modi di produzione dovuto all’avvento del digitale ha sicuramente chiuso l’epoca dell’“operaismo” ma non quella dei conflitti sociali e del contrasto “capitale-lavoro”. Lo dicono il diffuso precariato anche di fasce sociali un tempo protette, l’alta disoccupazione giovanile, la perdita di potere salariale, la interruzione della mobilità sociale, il contrasto tra periferie e centri urbani, la solitudine degli anziani per citare solo alcuni delle contraddizioni in atto, più in generale l’acuirsi della forbice tra garantiti e non garantiti.

Una forza di sinistra non può che promuovere ogni azione tesa ad un allargamento e diffusione delle garanzie sociali, di maggiore e più diffuso benessere.

Prioritario deve essere considerata la protezione del potere di acquisto salariale. Ciò può avvenire per mezzo di automatismi come lo fu la scala mobile.

La proposta di stabilire un salario minimo per legge deve essere considerato un obbiettivo perseguibile insieme al rafforzamento della contrattazione nazionale.

L’ipotesi di una riduzione dell’orario di lavoro secondo la logica “lavorare meno, lavorare tutti” deve essere un obiettivo strategico prioritario. Così per l’abolizione del Jobs Act e delle forme di precariato.

La lotta alla disoccupazione soprattutto giovanile deve essere perseguita attraverso politiche di investimenti poderosi da parte pubblica in direzione dei settori cardini dell’economia: trasporti, scuola, formazione e ricerca, sanità, infrastrutture, abitazione, ecc.

Ciò può avvenire attraverso un riequilibrio della spesa privilegiando quella “fruttuosa” verso quella “infruttuosa” riducendo sprechi e investimenti in settori come gli armamenti, un maggiore controllo sugli esiti delle cantierizzazioni, unificazione dei centri di spesa.

Cardine di una politica di sinistra è la riforma del fisco, confermando e migliorando l’impianto progressivo, per mezzo di un taglio del cuneo fiscale soprattutto per la parte gravante sui lavoratori.

La crescita delle entrate deve fondarsi sull’aumento della base contributiva generata dagli investimenti e una efficace lotta alla evasione.

Prioritarie devono essere considerate “riforme di struttura” che mirino ad un rafforzamento del dominio pubblico su quello privato, specie nei settori strategici e sensibili: energia, comunicazione, infrastrutture, sanità, formazione e ricerca, trasporti, con la eliminazione del criterio dannoso che scarica le spese sul pubblico e i profitti sul privato. Si vedano a tale proposito la condizione di alcune realtà come l’Alitalia, la sanità in alcune regioni, il settore siderurgico, il settore delle telecomunicazioni, le autostrade.

Il miglioramento della efficienza dei servizi deve essere realizzato per mezzo di tecniche di controllo della qualità che coinvolgono sia gli operatori che l’utenza, non solo la dirigenza, con incentivazioni salariali degli operatori sulla base di criteri di soddisfazione dell’utenza e il raggiungimento di obiettivi definiti di eccellenza.

Sono questi solo alcune delle tematiche da affrontare. Non meno importanti sono i temi delle forme di partecipazione. Quale partito, con quale struttura organizzativa, nazionale e territoriale, come selezionare i gruppi dirigenti per impedire ingressi miranti al carrierismo o alla rappresentanza di interessi lobbistici o di categoria, all’autoreferenzialità?

Buona riflessione!

Donato Lamacchia

La Capitol Hill di Brasilia ed i pesci di destra che nuotano nel mare devastato. di R. Achilli

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Il tentativo di insurrezione in Brasile, evidentemente orchestrato da Bolsonaro nel suo buen retiro in Florida, andrà seguito nei prossimi mesi, perché è ovviamente solo un episodio di una guerra civile strisciante che probabilmente renderà impossibile per Lula governare il Paese in direzione degli obiettivi che si propone. Lo stesso Bolsonaro, probabilmente, si aspettava un fallimento ma, come nel caso dell’assalto a Capitol Hill dei trumpiani (due episodi molto simili anche sul versante sociale, come vedremo) ritiene che questo clima da guerra civile vada alimentato perché, nel medio periodo, potrà favorirlo nella lunga marcia verso la riconquista del potere.

Alcune cose sono chiare sin da adesso. Sul piano internazionale, è difficile non scorgere l’ambiguita’ dell’Amministrazione statunitense, da un lato immediatamente critica nei confronti degli insorti (e ciò ha contribuito non poco al fallimento del golpe) e che dall’altro ospita sul suo territorio lo stesso Bolsonaro, nonché i suoi uomini, che hanno organizzato l’insurrezione per poi scappare dal loro capo, come il ministro della sicurezza di Brasilia. In queste ore Biden non si sta rivelando coerente con le sue dichiarazioni di condanna del tentato golpe, che dovrebbero essere seguite da una espulsione di Bolsonaro e della sua corte, un provvedimento che non si vede. Probabilmente agli Stati Uniti va benissimo che la sinistra brasiliana non abbia la forza di governare e si logori in un conflitto sociale interno. D’altra parte hanno già decapitato il governo di sinistra peruviano e hanno provato a farlo anche in Bolivia (senza contare la lunghissima guerra – commerciale e non – contro il governo venezuelano, avviata dal democratico Obama e interrotta da Biden solo per la necessità di garantirsi il greggio di Caracas a fronte del conflitto in Ucraina).

Sul piano interno, è solare come il tentativo di sovvertire l’ordine democratico brasiliano sia portato avanti da segmenti delle forze di sicurezza e dell’esercito, timidi nel difendere i palazzi delle istituzioni e restii a condurre la repressione. Dietro i vertici militari, ovviamente, agiscono i soliti: le élite imprenditoriali, i fazenderos attratti dalle opportunità di business date dalla selvaggia deforestazione amazzonica promossa da Bolsonaro.

Ma vi è molto di più. La questione del blocco sociale a sostegno di Bolsonaro è molto più complessa, ed ha a che vedere con il successo delle destre populiste, razziste e sovraniste in società post ideologiche, dominate dalla comunicazione. Ci sono ovviamente specificità brasiliane, in particolare la forza delle comunità evangeliche e metodiste, impregnate di individualismo meritocratico, nonché l’emergere dalla miseria di un ceto medio, tramite le politiche sociali dei governi del Pt di Lula e della Rousseff e che adesso, uscito dalla miseria, sogna di aver mano libera dallo Stato per poter cavalcare le (immaginarie) praterie del benessere liberista.

Ma ci sono fattori che non sono specifici al Brasile, che, sotto il profilo dei blocchi sociali di riferimento e della strategia politica e comunicativa, accomunano Bolsonaro a Trump ed alle destre europee (la Meloni è stata costretta a fare un tardivo, ipocrita e sbrigativo comunicato di condanna dei fatti di Brasilia solo dopo che lo stesso Bolsonaro, preso atto del fallimento, aveva preso le distanze).

In particolare, Bolsonaro ha le sue roccaforti elettorali fra i giovani, e non soltanto quelli di famiglie benestanti e bianche, giovani bolsonaristi residenti nei grandi centri urbani del sud (Rio e San Paolo) dove la diffusione di Internet e dei social è più densa. L’elettorato giovanile viene captato attraverso i social, con un processo di costruzione mediatica dell’immagine politica di Bolsonaro come leader non facente parte del sistema, come uomo anticasta che combatte la corruzione dei vecchi partiti e delle élite politiche mature. Niente può essere più falso di questa immagine, ma nella società della comunicazione conta l’abito, non il monaco che lo indossa.

E poi c’è un rilevante consenso di segmenti sociali che potremmo definire come inclusi in un intervallo che sta fra il sottoproletariato classico, le elite operaie un tempo dominate dalla sinistra e spezzoni di piccola borghesia in difficoltà economica e di posizionamento socio-professionale. Tale segmento sociale e’ attratto da una offerta politica e comunicativa basata sui temi della sicurezza, che ovviamente in Brasile è una questione fra le più gravi, ma lo è anche nelle nostre società caratterizzate da diseguaglianze crescenti e immigrazione non integrata, e “razzismo difensivo”, ovvero ostilita’ verso i gruppi etnici percepiti, da parte dello strato più vulnerabile economicamente del gruppo socio-etnico dominante, come concorrenti nell’accesso al lavoro o al welfare e come pericolo per la propria traballante identità culturale (in Brasile parliamo dei neri temuti dai bianchi poveri ma anche dai neri che sono entrati nel ceto medio ed hanno paura di tornare nella miseria, da noi parliamo della irrazionale paura dei migranti nelle periferie degradate dei nostri ceti medi in impoverimento. La dinamica è la stessa, ed è identica, a prescindere dalla retorica, a quella dei suprematismi statunitensi alleati di Trump).

Di fronte ai temi della sicurezza e del razzismo difensivo, l’elemento emotivo è così forte da accettare persino una riduzione dei diritti civili e democratici, persino una dittatura, nell’illusione che la legge e l’ordine possano tranquillizzare società spaventate e deprivate di riferimenti valoriali dal declino delle ideologie e della politica.

In questo mare di devastazione etica, culturale, valoriale, ovviamente, i pesci che nuotano meglio vengono da destra.

Riccardo Achilli

Gli ebrei nel movimento operaio e socialista. di G. Giudice

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Le radici ebraiche di Marx sono universalmente conosciute. Di origini ebraiche erano molti dirigenti e personalità della prima socialdemocrazia tedesca. Da Rosa Luxemburg a Bernstein, Hilferding, Eisner, Paul Levi. I capi dei menscevichi venivano in gran parte da famiglie ebraiche, ad iniziare dal suo massimo esponente Julji Martov. E tra gli stessi bolscevichi ebrei erano Trotzky, Zinoniev e Kamenez. Come tra i socialisti austriaci erano di radici ebraiche Bauer, Max Adler e Fritz Adler.

Perchè questa puntualizzazione? Perchè settori dell’ebraismo israeliano accusano il socialismo marxista (nelle sue varie forme) di essere antisemita. Una accusa totalmente assurda e priva di fondamento. Giustamente un politologo serio come Michele Prospero ha duramente stigmatizzato tali affermazioni. L’equivoco nasce dal confondere antisemitismo ed antisionismo (o comunque un atteggiamento critico verso di esso. Ma di questo abbiamo parlato tante volte. Del resto anche nel sionismo c’è stata una sinistra socialista di orientamento marxista, vedi il Mapam. E vi sono state molte grandi personalità ebraiche (come Albert Einstein) che hanno avuto un atteggiamento critico verso il sionismo.

Il tema è complesso. Certo gli ebrei sono stati vittime del più grande genocidio del 900. Non a caso il nazismo, ideologia neopagana e criminale, è stato considerato il male assoluto. Certamente la shoah ha contribuito a far spostare molti ebrei in Palestina ed a creare lo Stato D’Israele. Ma al prezzo di espellere una parte consistente della popolazione araba palestinese. Non si può rispondere ad una ingiustizia con una altra ingiustizia. E certo non si può non condannare con durezza ed intransigenza la politica razzista e colonialista dei vari governi israeliani verso i territori occupati, moltiplicando gli insediamenti israeliani in Cisgiordania ed a Gerusalemme est, cacciando i palestinesi. I quali in Cisgiordania sono costretti a vivere in una sorta di lager a cielo aperto. Ma sostenere con forza il diritto dei palestinesi ad avere l’autoderminazione, una patria indipendente, non comporta affatto condividere la idea folle ed assurda di cacciare gli ebrei dalla Palestina. Del resto , nella stessa società israeliana stanno emergendo posizioni pacifiste e di sostegno alla causa palestinese. Per ora sono limitati a ambienti ristretti ed intellettuali. Ma esistono.

Concludo ricordando la frase del grande socialista tedesco (per lungo tempo presidente della SPD) August Bebel, nei primi anni del 900. “l’antisemitismo è il socialismo degli imbecilli”.

Giuaeppe Giudice

La questione sociale nell’età della Tecnica, di P.P. Caserta

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Il conflitto tra capitale è lavoro si è spostato. Di sicuro, nel pieno della Quarta rivoluzione industriale, non è più possibile identificare il proletariato o i Lavoratori con la sola classe operaia. Andrà riconosciuto, piuttosto, che le nuove forme di sfruttamento non si sostituiscono alle vecchie, bensì si aggiungono ad esse. Siamo tornati ai tempi del vapore e la Quarta rivoluzione industriale ha i suoi sfruttati come li hanno avuti la prima e le seconda: rider, precari del mondo della cultura e dell’informazione, operatori di call center, raccoglitori stagionali…, per limitarsi soltanto alla prima linea degli sfruttati, ma precarizzazione e nuove povertà si sono allargate fino a definire una sorta di Terzo stato globalizzato, che spazia di fatto dagli immigrati al ceto medio impoverito, ma lontanissimo dall’aver acquisito una coscienza di classe, e di fronte al quale si erge la neo-aristocrazia tecno-finanziaria egemone.

Di Vittorio disse, nel suo primo discorso in Parlamento, che lo aveva guidato il sogno di unificare le lotte degli operai del Nord e quelle dei contadini del Sud, “perché il padrone è lo stesso dappertutto”. Noi dovremmo in fondo ambire oggi a fare lo stesso, le difficoltà sono molte e non dipendono soltanto dagli errori commessi, come spesso ci diciamo, ma anche dal quadro oggettivo, e in primo luogo dalle inedite possibilità di seduzione e di distrazione rese oggi disponibili al punto di incontro tra il Mercato e la Tecnica nella civiltà dell’intrattenimento… per cui di fatto molti tra gli sconfitti della globalizzazione continuano tuttavia a sognare il loro riscatto attraverso gli stessi strumenti ai quali sono aggiogati. Per questo ritengo che siano oggi strettamente connessi la questione sociale, l’effettiva capacità di rappresentare <tutti> i Lavoratori e l’emancipazione dal pensiero tecnomorfo.

Pier Paolo Caserta

Basta con la favoletta che sia colpa del Reddito di Cittadinanza se non si trovano lavoratori. di R. Papa

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Se un peccato originale ha il Reddito di Cittadinanza è quello di aver voluto perseguire da un lato la politica di contrasto alla povertà e dall’altro quello di una politica del lavoro con lo scopo di reinserire quanti fossero usciti dal mercato del lavoro.

Mentre da un lato crescono i disoccupati o gli inattivi dall’altro c’è una forte denuncia di mancanza di lavoratori…per “alcuni” datori di lavoro la colpa è ovviamente il RdC!

Ora delegittimare questa misura ha un riflesso negativo sui poveri “quelli veri” che come ci dicono le ultime rilevazioni sono in aumento. Certo è che il RdC ha fallito sul versante della politica del lavoro.

Forse prima di sparare a zero su una misura certo parziale e sicuramente assistenzialistica si dovrebbe ragionare di più sul mercato del lavoro, sulla qualità della domanda e offerta di lavoro, sulla corretta applicazione dei contratti di lavoro, sui livelli minimi salariali…non si può tollerare che si accettino lavori a 2 euro all’ora, ma soprattutto che si avviino politiche del lavoro che tendano al superamento della precarietà che in questi ultimi mesi è l’unico dato in crescita. Si deve anche riflettere su un diverso rapporto dei giovani con il lavoro, l’atteggiamento verso il lavoro, rispetto a quello che potevano avere quelli della mia generazione, è notevolmente cambiato.

Dal 2009 al 2019 sono circa 250.000 i giovani tra i 15 e 34 anni che sono andati all’estero, e di certo non tutti sono laureati, i cosiddetti “cervelli” come se gli altri non avessero il cervello, ma solo bruta forza lavoro.

Così come sono centinaia di migliaia quelli che lasciano il lavoro, un fenomeno legato alla salute psicologica dei lavoratori e delle lavoratrici in rapporto proprio al lavoro.

E poi se anche fosse che come in tutte le situazioni ci sono dei furbetti (perché gli evasori fiscali con i loro 110 miliardi di euro non lo sono?) questi vanno perseguiti, ma occorre vederne i benefici verso chi è veramente in difficoltà

A marzo i dati INPS ci dicono che Reddito e Pensione di Cittadinanza hanno coinvolti 1.050 mila nuclei famigliari, per 2.249 mila, per un importo medio mensile di 541 euro.

E allora smettiamola con questa favola che i giovani non vogliono lavorare, certo ce ne saranno pure, ma la maggioranza sicuramente sicuramente si trova in forte situazione di disagio, a cui la politica deve dare una risposta e non perdersi dietro le chiacchiere da bar di chi sia la colpa se un giovane rifiuta un lavoro.

Verso la fine degli anni sessanta uno slogan “Studenti e operai uniti nella lotta” portò alla promulgazione dello Statuto dei lavoratori. Oggi dobbiamo riprendere quello slogan perché la battaglia per il lavoro e per la dignità del lavoro è un tema che come allora riguarda “studenti e lavoratori”.

Roberto Papa

Campo largo? di D. Lamacchia

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Lo ammetto non ho seguito molto il congresso di Articolo Uno (a proposito dove si poteva seguire? Anche colpa dei media che lo hanno parecchio snobbato). Un paio di cose però le ho capite: Roberto Speranza è stato rieletto segretario e che il congresso ha accettato la proposta di Letta (PD) del cosiddetto “campo largo”. Poco cenno si è fatto ai contenuti della proposta politica venuta dal congresso. Probabile responsabilità dei media anche su questo. Comunque pare che tra le proposte ci sia una maggiore attenzione alle dinamiche salariali. Siano ben venute. Ciò che emerge con forza però è la proposta politica del “campo largo”. Una proposta che intende avvicinare se non proprio unire le forze “non di centrodestra” per fronteggiare al meglio la coalizione avversaria sempre più evidentemente a guida Fratelli d’Italia. Che si provi, in vista delle elezioni, a formulare proposte di aggregazione mi sembra abbastanza normale. Ciò che non mi convince sono i contenuti programmatici. Infatti non se ne parla. Mi viene allora da dire, va bene pensare ad un “bus” più grande per allargare il numero di partecipanti alla gita ma vorrei sapere anche chi è proposto alla guida, quel è la meta e qual è il percorso che si intende seguire. Per esempio cosa si pensa della proposta del Prof. Carlo Rovelli di inserire nei programmi finanziari una diminuzione annuale delle spese militari e di sostituirle con investimenti in attività di interesse pubblico? Alla sinistra servono parole, messaggi chiari che rendano credibili l’offerta politica. Servono uomini credibili. Non bisogna diventare “un po’ più di centro” per conquistare elettorato di centro. Uomini come Pisapia, Zedda, Vendola hanno dimostrato in passato di poter conquistare ampi strati di elettorato non di sinistra pur essendo chiaramente di sinistra. Cosa avevano di così “magico” se non la credibilità della loro persona e delle proposte? La mancanza di credibilità ha negli anni creato sfiducia. Prima conquistata dal populismo e ora dalla pratica dell’astensionismo e della rinuncia. Non serve un “campo largo”, serve un Partito Democratico di Sinistra che faccia del lavoro e delle libertà “nuove” (Jus soli, parità di genere, lotta alle discriminazioni di identità, ecc.) il suo “campo di battaglia” identitario. Al primo posto la Pace e un nuovo internazionalismo. L’internazionalismo dei popoli oppressi e non garantiti a cui i benefici dell’era digitale non arrivano. Quei popoli che alla democrazia arrivino attraverso la lotta per i diritti e non per “esportazione” della stessa. Non serve un nuovo partitino che tenta di sfruttare il “mercato aperto” dell’astensionismo come sembra stia facendo De Magistris, sull’onda del risultato elettorale francese. Non ci serve un Melenchon italiano, serve una forza politica radicata nella tradizione del lavoro e delle lotte per la sua nobilitazione e liberazione.

Così si esprime Il neo segretario generale Fiom Cgil, Michele De Palma,

“Il mondo degli operai è radicalmente cambiato rispetto a 50 anni fa, allontanandosi sempre più dalla sinistra. Come può essere recuperato?

Mettendo  al  centro  il  lavoro  e  ripartendo  dalle  persone, a cominciare dalle donne e dalle giovani generazioni,  che  per  vivere  devono  lavorare.  La crisi della democrazia che stiamo attraversando in maniera  così esplicita è causata dal fatto che i partiti, più che preoccuparsi della disaffezione degli elettori, guardano solamente a quante sono le percentuali di coloro che ancora votano. In questo periodo gli operai sono diffidenti, e lo sono giustamente, perché nel corso di questi anni  gli  si  è  chiesto  di  sacrificarsi  per  il  bene  del  Paese.  Loro  hanno  pagato  quei  sacrifici  e  questo  ha  significato  molto  spesso  non  salvare  né  loro  né  il  Paese che nel frattempo ha perso un asset fondamentale per sedersi fra i Paesi del G7, cioè l’industria. In questo  momento  i  metalmeccanici,  ma  anche  tutti  i  lavoratori, hanno fatto di necessità virtù perché sono stati lasciati soli. I partiti popolari usciti dalla Seconda guerra mondiale avevano i lavoratori come interlocutori e non solo le imprese. Oggi dobbiamo recuperare quel rapporto, tornando a discutere dei problemi veri dei cittadini e dei lavoratori.”

Il primo Maggio, questo, lo ricordiamo con forza!

Donato Lamacchia

L’opposizione al green pass non può e non deve diventare la madre di tutte le battaglie. di P. P. Caserta

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Così proprio non va. Sono del parere che le modalità applicative del green pass e in generale la gestione politica della crisi pandemica siano criticabili da molti punti di vista. Considero deprecabile, come ho detto più volte, il modo in cui il sistema informativo criminalizza i non vaccinati in assenza di obbligo vaccinale e sono disgustato dall’autorizzazione pubblica a riversare disprezzo sui non vaccinati, insensatamente e strumentalmente equiparati a “no-vax”, in assenza di obbligo vaccinale.

Detto e ribadito ciò, sono convinto che non sia e non debba diventare, quella contro il green pass, la madre di tutte le battaglie. Occorre, questo sì, vigilare per arginare nuovi arretramenti sui diritti del Lavoro e dei lavoratori. Il rischio che l’emergenza diventi il piano inclinato per normalizzare una sottrazione di diritti esiste sempre. Ma occorre, soprattutto, guardare oltre il contingente. Bisogna occuparsi dei nodi strutturali e, nella misura in cui mancano massa critica e capacità organizzativa, porsi il problema di come intraprendere un percorso efficace per poterle riottenere. Occorre porsi in relazione con la crisi pandemica, con i cambiamenti complessi che ha prodotto e con gli interessi che ha promosso. Altrimenti ci si condanna ad una visione di cortissimo respiro e si finisce per essere risucchiati in una agenda setting incardinata intorno a falsi problemi. e false opposizioni. Anche sul fronte del lavoro, non è chiaro che i pericoli maggiori vengano oggi da una misura probabilmente limitata nel tempo come il green-pass (e se dovesse essere proseguita, allora ci si dovrà attivare seriamente).

Chissà che i pericoli più gravi per i lavoratori non vengano dai lavoratori stessi. Qualche giorno fa ho letto un sondaggio secondo il quale una percentuale elevata di lavoratori (non ho conservato traccia e non sono dunque in grado di citare con esattezza) sarebbe oggi disposta a rinunciare a una quota della propria retribuzione per non tornare in ufficio e continuare a lavorare da casa. Ho incrociato diverse notizie e sondaggi di questo tipo. Mi sembra chiaro che, quando sono commissionate proprio da alcune grandi aziende, queste indagini servono non a raccogliere opinioni ma a preparare il terreno. Anche nel mondo della scuola, nel quale lavoro, non sono pochi i docenti che sarebbero disposti a continuare a svolgere a distanza gli incontri collegiali oltre la data del 31 dicembre ad oggi fissata per la fine dello stato di emergenza. Questa disposizione mi sembra più pericolosa del green pass. La pandemia ha cambiato le carte in tavola e molti lavoratori sembrano disposti a cedere spontaneamente diritti e sottrarre spazio alla relazione pur di poter stare più “comodi”. Il lavoro a distanza, smart per alcuni, ha conquistato durante la pandemia un vasto terreno sul quale è cresciuto a dismisura il radicamento degli interessi delle grandi multinazionali digitali, che non potranno essere ricacciati indietro da un giorno all’altro. Quali strumenti e quale visione abbiamo per combattere su questo terreno? Quali risposte sappiamo mettere in campo? L’atteggiamento migliore è opporsi frontalmente al lavoro a distanza o entrare nella logica della sua inevitabilità per ridefinire i termini della tutela dei diritti? Sono domande alla quali occorre rispondere evidentemente a partire da una analisi articolata dei cambiamenti intervenuti.

I rischi maggiori per il lavoro provengono dal green pass o dall’egemonia del Capitalismo digitale, che la pandemia non ha inventato ma ha ulteriormente accresciuto? E non è forse vero che questa egemonia raccoglie il suo frutto più pieno nel momento in cui sono proprio i lavoratori ad essere pronti a rinunciare a una parte del loro stipendio, alla socializzazione in ambiente di lavoro, ai diritti? Non sarebbe, forse, qualora venisse tradotto in atto in modo sistematico, stato raggiunto il risultato più compiuto dell’alienazione, se questa viene ricercata dai lavoratori stessi? Sono stato fortemente contrario alla schiaffo che il governo volle rifilare al personale scolastico, categoria vaccinata quasi al 90% prima della campanella di inizio anno scolastico, imponendo un obbligo vaccinale obliquo, dal momento che né il governo né le multinazionali farmaceutiche intendono farsi carico degli eventuali effetti gravi imprevisti. È alla scuola che il ceto politico si rivolge per raccogliere consenso spicciolo e, in questo caso, anzitutto per distogliere l’attenzione dal nulla assoluto fatto da governo e ministero in un anno e mezzo di pandemia per affrontare i problemi strutturali (trasporti pubblici locali, classi sovraffollate, ricerca di nuove aule e nuovi spazi), una cui soluzione anche parziale avrebbe al contempo rappresentato, guarda caso, anche un efficace fattore di contenimento del contagio.

Tuttavia, non credo che il green pass sia la linea del fronte. Oltretutto, e viepiù in assenza, in Italia, di un grande partito del Lavoro e dei lavoratori che sappia interpretare, aggregare ma anche quando necessario riorientare le istanze di malessere e di cambiamento, bisogna realisticamente prendere atto che concentrandosi troppo sul green pass si rischia in concreto una insostenibile coabitazione con le forze reazionarie che si sono messe alla guida della protesta. Credo, dunque, che su questo terreno si esca orrmai sicuramente perdenti.

Per concentrarsi sui nodi strutturali, bisogna guardare direttamente agli interessi che la pandemia ha promosso e rafforzato e che l’attuale governo Draghi compiutamente esprime. E pertanto, dopo la corale manifestazione antifascista, che solleva anch’essa un problema di coabitazione con chi ha con l’antifascismo un rapporto per ben che vada nominalistico (ma per meglio dire strumentale e conveniente, avendolo usato per rilanciarsi), occorre porsi il problema di essere concretamente ed efficacemente antagonisti al governo Draghi e agli interessi di cui esso è la diretta traduzione politica. Mi fermo qui perché mi sono già molto dilungato, ma è un ragionamento aperto che conto di proseguire.

Pier Paolo Caserta

Fascisti sulla Terra. di G. Polo

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Sono partiti in duemila da piazza del Popolo a Corso d’Italia. Camminando con calma, in corteo, alla testa Roberto Fiore e Giuliano Castellino, i capi di Forza Nuova. Fascisti pregiudicati. Nessuno li ha fermati. In mezz’ora sono arrivati alla sede nazionale della Cgil – passando accanto a un paio di blindati delle forze dell’ordine – hanno sfondato le porte del sindacato, iniziando a rompere tutto. Un manipolo di carabinieri li guardava, lasciando fare. Coerenti con il motto del “noi tireremo dritto” hanno imboccato il corridoio di fronte all’ingresso, sono entrati nelle stanze dei redattori della casa editrice sindacale e hanno fatto l’unica cosa che sanno fare e che hanno sempre fatto, cent’anni fa come oggi: sfasciare ogni cosa, computer e scaffali, libri e quadri, scrivanie e sedie, trasformando il lavoro in macerie. Dalla Questura, nessuna reazione. Qualcuno è salito al quarto piano, voleva bruciare la porta dell’ufficio di Maurizio Landini. Un poliziotto infiltrato tra loro li ha convinti a lasciar perdere. Dopo quaranta minuti sono usciti, imboccando la strada per Palazzo Chigi con l’intenzione di farne una romana Capitol Hill. Lì sono stati fermati. A fatica, con i Palazzi del potere sotto assedio. Dicono che il centro della città era troppo intasato per permettere alla polizia d’intervenire rapidamente. Loro, invece, si sono mossi senza problemi. E nemmeno correndo, per ore. Forse Salvini qualche eredità al Viminale l’ha lasciata. Gridavano “libertà, libertà”, ed erano migliaia. I fascisti in testa, gli altri dietro. Gli “altri” chi? “Noi siamo il popolo”, scandivano. E certamente un pezzo di popolo sono. Quello che concepisce la libertà come una proprietà personale, di cui non deve rispondere a nessuno; soprattutto, di chi non la coniuga con la responsabilità, con il dovere di vivere insieme agli altri: “mi faccio gli affari miei”, nessuna interferenza. Egoismo assoluto. Radicato nella storia italiana dei sudditi mai cittadini, stimolato dal plebiscitarismo, eccitato dal sospetto per tutto ciò che è estraneo o che turba la “comunità degli atomi solitari”, un forestiero come un vaccino. La natura profonda della destra. In “basso” è la paura di perdersi negli altri cui si reagisce cercando di spaventare tutti gli altri. In “alto” è la demagogia populista o lo squadrismo fascista che trovano consenso e rappresentanza. In “mezzo” il lavoro come luogo dello scontro, perché è lì che si definisce la cittadinanza, anche dei tanti lavoratori che non si vogliono vaccinare.Ed è su questo che ci si batte, su questo si gioca la Costituzione, materiale e formale. Non un retorico dibattito sui “nostalgici”: la discrimine non è essere figli o meno del Ventennio, il punto di demarcazione è il fascismo di oggi. Quello in idee e azioni, in carne e ossa.

Gabriele Polo

pubblicato su Ytali.com