economia

Ha un futuro la destra italiana? di M. Zanier

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Quando si guarda al Governo Meloni, spesso si è preoccupati del rischio di una lunga sterzata a destra della politica italiana e più di un osservatore ha gridato all’inizio di un nuovo Ventennio. Se è comprensibile la preoccupazione di molti per le politiche sociali e culturali di destra che possano ledere diritti fondamentali e non ascoltare le richieste provenienti dagli strati sociali più bassi, sulla longevità di questa maggioranza o sulla riproducibilità in futuro di questa coalizione di centro-destra nutro molte perplessità.

La coalizione che il 25 settembre 2022 ha vinto le elezioni politiche ottenendo il 44% dei voti con un’astensione che ha superato il 63% dei votanti, era costituita del 26% di Fratelli d’Italia, la Lega ferma al 9%, Forza Italia all’8% e Noi Moderati che non raggiungeva l’1%.

Se questo raggruppamento si chiama di Centro-Destra è per la presenza di Forza Italia e, in misura minore dei centristi di destra di Maurizio Lupi (che ha raccolto anche i voti democristiani dell’Udc di Lorenzo Cesa), che bilanciano in senso moderato i due partiti più schiettamente di Destra che sono Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni e la Lega di Matteo Salvini, che sono la maggioranza relativa e orientano questa coalizione in modo nuovo rispetto al passato. Ma queste sono cose note.

Quello su cui si riflette molto poco, secondo me, è che l’anello debole di questa maggioranza di governo è costituita dai moderati, ossia da Forza Italia soprattutto che è modellata da sempre sulla persona del suo leader, Silvio Berlusconi, che è nato nel 1936 e non può essere immortale e che non presuppone un vero ricambio generazionale al suo interno, nonostante si diano molto da fare Maurizio Gasparri, Antonio Tajani e il giovane Alessandro Cattaneo. Nessuno in quel partito, questa è una certezza, può prendere il posto per quell’elettorato di Berlusconi, che è il carismatico padrone del suo partito e che continua ad orientare molte testate giornalistiche oltreché il suo apparato di emittenti televisive. Quando lui non ci sarà più un giorno (gli auguro lontano), il suo partito sarà destinato a sciogliersi come neve al sole o a ridimensionarsi fortemente anche e soprattutto come immaginario popolare per quell’elettorato ed i suoi deputati, senatori e amministratori locali non potranno essere automaticamente “saltare il fosso” come hanno fatto alcuni di loro oggi entrando in Fratelli d’Italia, perché non è automatico che chi ha votato un partito moderato e padronale voti un partito postfascista come quello guidato da Giorgia Meloni. Non è così che funziona.

Senza l’8% di Forza Italia, i democristiani di destra che rendono presentabile questa coalizione di nostalgici, non si aggregheranno, credo, automaticamente al carrozzone di Giorgia Meloni e Salvini (anche lui mi pare insidiato all’interno della Lega da una nuova generazione di amministratori locali ambiziosi) e lei non potrà andare lontano, non avendo matematicamente i numeri per governare ancora. Quindi mettiamo da parte la paura di una lunga e salda coalizione di Destra-Centro. Questa perciò rischia di essere per la Meloni la prima e l’unica occasione di stare al governo del Paese.

Anche perché i moltissimi che l’hanno votata nel 2022, giocandosi così l’ultima carta, sperando cioè che l’unica persona che non era mai stata alle leve del comando, potesse dare loro delle risposte e delle soluzioni definitive, si renderanno presto conto che non potrà essere così. Perché è contro l’aumento dei salari più bassi, perché dovrà ancora proseguire le politiche sull’immigrazione impostate negli anni passati dato che lo chiedono gli industriali che hanno bisogno di manodopera strutturale, perché i suoi esponenti di spicco parlano con disprezzo dei giovani che percepiscono il reddito di cittadinanza mandandoli a zappare nei campi, senza tanti giri di parole e attaccano i diritti delle coppie omosessuali che in una certa misura hanno votato (incautamente direi) per il centro-destra.

Ovviamente lo sgretolamento a fine legislatura della coalizione guidata dalla Meloni non risolve al mio avviso il problema di una rappresentanza politica degna e responsabile.

Il fronte progressista che ha fatto un salto di qualità prima con la conferma di Giuseppe Conte a capo di un Movimento 5 Stelle ancorato ad una proposta progressista, poi con l’elezione di Elly Schlein al vertice del Partito Democratico che si pone in grande discontinuità col moderatismo di Enrico Letta e si collega alle richieste della CGIL da un lato, del popolo arcobaleno dall’altro e fa cartello sul salario minimo con le altre opposizioni. Ma non basta. Bisogna ripartire, secondo me, dai territori, dalla Scuola e dalla Salute pubblica, dalla difesa dell’ambiente, dai luoghi di lavoro, prendendo una posizione ferma nei confronti delle aziende che delocalizzano e licenziano operai ed impiegati da un giorno all’altro, in contesti spesso meno combattivi della realtà operaia della GKN che da qualche anno sta facendo scuola. C’è bisogno a sinistra di una visione del futuro, di un’idea di trasformazione graduale e profonda della società che a me piace chiamare ancora Socialismo.

Marco Zanier.

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Il pesce senza testa. di R. Achilli

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Questo Paese non è riuscito, pur avendo avuto fasi molto promettenti, a consolidare una classe dirigente degna di questo nome.

Possiamo tirare in ballo fattori strutturali: l’assenza di una borghesia sufficientemente capitalizzata da potersi costituire come gruppo dirigente con afflato nazionale, rimanendo sostanzialmente una appendice semi parassitaria delle relazioni con la politica; il controllo criminale di rilevanti regioni del Sud, che ha finito per estendere i suoi tentacoli fino ai centri del potere politico ed economico, creando una selezione avversa ai vertici decisionali; una connaturata attitudine al clientelismo che fa parte del nostro bagaglio.

Essenzialmente non c’è più nemmeno quel simulacro di classe dirigente che pur nella bistrattata Prima Repubblica si era creata, perché il Paese è allo sfascio culturale e morale. Fedez e la Ferragni sono ormai gli intellettuali collettivi.

Ma anche perché non ce n’è bisogno. Frantz Fanon, quando analizzava i processi di decolonizzazione, puntava il dito sulla misera qualità dei gruppi dirigenti indigeni: essenzialmente valletti di poteri esterni, cooptati per fedeltà al padrone, dotati di una mentalità più commerciale che amministrativa, fondamentalmente dei trafficanti con una sovrastruttura retorica di esaltazione del comando esterno.

L’Italia di oggi è più o meno in questa situazione semi-coloniale. Nella sua scellerata esistenza, una sola cosa Draghi ha detto di condivisibile: un Paese con il 140% di debito pubblico e con una modesta capacità di crescita potenziale non ha nessuna sovranità. Le decisioni sono prese dai creditori o da coloro che temono l’esplosione di una bolla debitoria, che avrebbe ripercussioni globali, stanti le dimensioni assolute del nostro debito.

È chiaro quindi che non c’è classe dirigente perché le decisioni strategiche sono prese altrove. Non nei palazzi romani o nelle ormai fatiscenti palazzine del logoro potere sindacale o associativo. Ai nostri gruppi dirigenti vengono lasciate solo le decisioni di sotto-politica, un po’ come al cane viene lasciato l’osso, mentre il padrone si mangia la ciccia: le cadreghe, la piccola intermediazione localistica, l’affarismo e la corruttela di piccolo cabotaggio.

Nel migliore dei casi il dirittocivilismo innocuo, perché sganciato dai diritti sociali. Così come l’ambientalismo senza lotta di classe è giardinaggio, i diritti delle donne o del mondo Lgbt, senza aggancio dentro un movimento politico più ampio di rivendicazione di un maggior potere dentro i rapporti produttivi, si traducono in un miserrimo riconoscimento formale di diritti che la componente più benestante e che vive in un contesto di relazioni globalizzate ha già, e di cui la donna in povertà, o il gay in miseria, non sanno cosa farsene. È bello, per parafrasare Pino Daniele, “ascire pe le strade e gridare “so’ normale!”, ma se la pancia è vuota è una soddisfazione piuttosto sterile.

E così la classe dirigente viene sostituita da amministratori coloniali che vivono dentro circuiti corruttivi e nepotistici, oppure da squallidi pagliacci che prendono in giro, a turno, l’elettore medio, fintanto che il loro gioco viene scoperto e sono prontamente sostituiti da nuovi underdog più giovani, più trendy, con giacche più colorate, con promesse più abbaglianti.

Non c’è granché da dire, e nemmeno da scandalizzarsi. Questo Paese ha ciò che si è meritato.

Riccardo Achilli

Onore a Giorgio Ruffolo. di G. Giudice

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Ho appena appreso della scomparsa del carissimo compagno Giorgio Ruffolo.

Storico rappresentante della cultura politica socialista. So che era malato da tempo. Era nato nel 1926.

In Lucania abbiamo avuto l’onore di avere Giorgio come deputato. Ci fermavamo a parlare spesso: Lui ci rammentava della sua forte amicizia con Federico Caffè, che considerava il suo vero maestro. E spesso lo accompagnava a Cambridge, patria degli economisti post-keynesiani come la Robinson e Piero Sraffa. E del suo forte legame con il nostro Paolo Sylos Labini. Giorgio, in giovantù era stato Trotzkista, come Rino Formica. Iscritto al PSI fin dal 1944, come tutti i giovani di ispirazione trotzkista , aderì al PSLI di Saragat, tranne uscirne nel 1950. E rientando nel PSI nel 1958 , dopo la svolta autonomista. Superò il trotzkismo e si avvicinò ad Antonio Giolitti. Grande sostenitore della politica di programmazione economica, fu economista all’OCSE, coordinatore del Centro Studi dell’ENI di Mattei. Poi , per lunghi anni Segretario della Programmazione Economica. Un economista non accademico, che però valeva molto di più di molti economisti accademici.

Il suo approccio all’economia era di carattere sistemico. Intendeva l’economia non come un sistema chiuso, ma aperto ad altre discipline , come la sociologia, l’antropologia, l’ecologia. Aveva una cultura enciclopedica. Profondo conoscitore di Marx , come di Keynes e di Schumpeter. Ammiratore di Karl Polanyi. Fu un critico radicale del neoliberismo. Nel suo gran bel libro “La Qualità sociale” fa conoscere a fondo le teorie neoliberiste e monetariste di Milton Fridman e della Scuola di Chicago. Come quella dei teorici del privatismo economico e delle “politiche dell’offerta” . A cui mosse un attacco formidabile proprie sulle loro radici epistemologiche.

Si definiva un “socialista liberale”, ma, precisava , non nel senso di Tony Blair, ma in quello autentico di Carlo Rosseli. Coordinatore del “Progetto Socialista ” del 1977 (opera ben più consistente e corposa del “Vangelo Socialista di Pellicani (verso il quale non mancò di profondere critiche) …..fu un critico di Craxi, non un suo antagonista. Diceva che bisogna sempre distinguere tra Craxi ed il craxismo. Nondimeno , pur essendo un profondo sostenitore dell’autonomia socialista, rifiutò il “bonapartismo” di Craxi e la sua gestione del partito.

Severo critico del togliattismo non fu però mai anticomunista. Ebbe ottimi rapporti con uomini del calibro di Gerardo Chiaromonte. Insieme a Luciano Gallino (anch’egli socialista) fu il primo a mettere in evidenza la forte tendenza alla finanziarizzazione dell’economia capitalista nella globalizzazione neoliberista. Fu un europeista convinto, ma anche un profondo critico della deriva che la UE stava prendendo, fino a sostenere l’idea della doppia circolazione monetaria (comE Gallino) nel suo ultimo libro “Il film della crisi” scritto con il caro amico e compagno Stefano Sylos Labini, figlio di Paolo. Ci sarebbe tanto altro da dire su Giorgio.

Condivisi con lui l’esperienza della Fed Laburista, e la entrata nei DS che per me fu un fallimento.

Caro Giorgio, con te se ne va un pezzo importante della mia formazione politica. Ma anche tu sei stato cancellato dalla “damnatio memoriae” della cultura socialista. Riposa in pace carissimo compagno socialista.

Giuseppe Giudice

Conte il nuovo “faro” della sinistra italiana? di D. Lamacchia

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Si può imparare dalla storia? Non solo, si deve! Non solo i soggetti individuali, le singole persone, gli intellettuali (ci sono ancora gli intellettuali?), dalla storia devono imparare i soggetti collettivi, cioè coloro che la storia la fanno. Perché questo accenno alla storia? Perché viviamo tempi in cui sembra che dalla storia non si è imparato un gran che. Nei tempi dell’illusione facile generata dalla comunicazione facile si è persa la capacità di riflettere e approfondire e si è persa la capacità di pensare il futuro partendo dal passato. Non si sa più cos’è la “memoria storica”.

Prendiamo il caso della sinistra in Italia ed in Europa. Perché questa perdita di “egemonia culturale” così marcata? Venendo meno l’ideologia “operaista” a causa dei noti sconvolgimenti nei rapporti di produzione determinati dall’”era digitale” la risposta è stata la virata liberista che ha fatto perdere il legame con il proprio soggetto sociale di riferimento, il mondo del lavoro e del disagio sociale. Ha dominato l’illusione che la flessibilità nelle relazioni economico sociale avrebbe apportato e distribuito ricchezza, benessere. Così non è stato ed è sotto gli occhi di tutti. Ad un “pensiero politico forte” si è sostituito un “pensiero politico debole” creatore dell’illusione e, come direbbe il vecchio Marx, di “falsa coscienza” diffusi, in una parola, di populismo, che avrebbe spazzato via il sistema della corruzione e dell’ingiustizia. Non è stato così come è sotto gli occhi di tutti. La domanda “pesante” è, è ancora possibile dare una prospettiva al socialismo? Sebbene liberato dai dogmi operaisti io credo di sì perché le ingiustizie non sono certo finite! Le contraddizioni nel tessuto socio-economico sono ancora tutte al loro posto, da essere usate al fine di cambiamenti profondi in senso egualitario. Esiste il soggetto politico che si può fare carico del compito? Non c’è purtroppo o non ancora. Non può essere l’attuale PD per il groviglio di vecchio “atlantismo” e liberismo che hanno caratterizzato le sue politiche, specie con l’arrivo di Enrico Letta alla segreteria, né sono credibili i vari agglomerati minoritari alla sua sinistra. L’unico a mostrare più saggezza e credibilità è Bersani che però tentenna nella sua capacità di azione, colpa anche dell’improvviso calare come mannaia dell’evento elettorale. Insomma ciò di cui si avverte necessità è la formazione di un soggetto politico forte che raccolga la sfida di rilanciare la prospettiva del socialismo nel nostro paese e nel mondo e di creare una cultura politica di sinistra democratica e libertaria diffusa, capace di fronteggiare l’onda conservatrice.

Come si può constatare è ancora presente una frazione di quel movimento che incarnò in modo maggiore la spinta populista. Mi riferisco al M5S e a Giuseppe Conte che ne è l’attuale reggente. Sono note le vicende governative di cui sono stati protagonisti fino alla caduta di Draghi e all’attuale situazione elettorale. Come si colloca il M5S nel quadro delineato di una prospettiva socialista e di sinistra? A questa domanda Conte ha risposto con un ritornello noto, frutto di “pensiero debole” secondo cui le categorie destra/sinistra appartengono al bagaglio del novecento e che ora si deve far riferimento ai programmi e ai problemi (sic). Addio memoria storica! Non si comprende quindi come sia possibile che vengano da esponenti del vecchio PCI inviti a votare M5S e a considerare Conte come capace di incarnare istanze sociali e prospettive che sono proprie della sinistra. Vero è che le proposte e i programmi non mancano di attenzione al sociale. L’autonomia dimostrata sul piano delle scelte internazionali è apprezzabile ma non mancano di ambiguità. Vedi l’orientamento troppo “filo cinese” e lo scetticismo europeista mostrato spesso in Parlamento europeo e dal loro garante Peppe Grillo.

Conte ispira onestà. Senza dubbio, ma non è l’unico! Una “buona politica” non è solo una faccia pulita.

Una buona politica non è fatta solo di categorie della morale e del sentimento è fatta da programmi giusti e organizzazione, attenzione agli interessi in gioco, agli obiettivi, alle alleanze, alle opportunità contingenti e alle strategie. Insomma va bene come alleato, “compagno di strada” non come “nuovo faro della sinistra”. No, Conte e il M5S non sono di sinistra! Malissimo comunque ha fatto il PD a rifiutare un’alleanza con loro (ipotesi Bersani), alleanza che ha dimostrato alle elezioni “locali” di essere vincente.

Dopo le elezioni questo avrà un peso nella discussione sul futuro della sinistra in Italia. Ecco un tema centrale, cosa accadrà dopo il voto? Sarà possibile avviare un progetto per un nuovo soggetto unitario che dia futuro alla sinistra tutta? Chi ne può essere protagonista? Si guardi al dopo voto quindi e si pensi a dare voce forte a chi potrà essere protagonista di questo obiettivo. Il compito inizia ora, prima del voto. Se dal voto le forze vocate a questa idea venissero mortificate il progetto non avrebbe futuro facile. Dal voto devono uscire forti le forze che vogliono una prospettiva chiaramente di sinistra perché si possano concretamente spostare gli orientamenti anche nei partiti attuali. In primo luogo il PD. Se svolgi una critica di sinistra e a sinistra che devi votare! L’alternativa al “male minore” non può essere il “tanto peggio, tanto meglio”. Conte non è il Melenchon italiano.

Donato Lamacchia

L’Europa è in pericolo. di A. Angeli

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Del discorso pronunciato da Mario Draghi al Parlamento europeo il 3 maggio riporto i tre paragrafi terminali, introdotti dall’omaggio reso alla memoria di David Sassoli che ha presieduto il Parlamento Europeo in anni difficili e alla sua visione di speranza per un’Europa” che innova, che protegge, che illumina”. Ecco i paragrafi: i padri dell’Europa ci hanno mostrato come rendere efficace la democrazia nel nostro continente nelle sue progressive trasformazioni; l’integrazione europea è l’alleato migliore che abbiamo per affrontare le sfide che la storia ci pone davanti; oggi, come in tutti gli snodi decisivi dal dopoguerra in poi, servono determinazione, visione, ma soprattutto unità. Ho letto l’intero discorso e il pragmatismo politico ( S. Peirce ) ne costituisce la linea discorsiva, propositiva, e tuttavia alla visione realistica propria di una concezione analitica del ragionamento riguardo alla guerra manca quella connessione fra conoscenza e azione. Nel discorso dominante è il richiamo alla pace e all’impegno diplomatico per una tregua della guerra in corso e al sostegno all’Ucraina, che si sviluppa in più direzioni, di particolare rilievo l’impegno a fornire le armi  ( lascio ai poltrointellettuali di casa la distinzione tra armi difensive o offensive) per contenere l’invasione e indurre Putin ad una trattativa. Purtroppo, ciò su cui il discorso si impoverisce è la visione strategica sulla quale costruire un pensiero che consideri la realtà della situazione e pragmaticamente strutturi una proposta e una iniziativa alternativa a quella di Washington. Infatti, la realtà di cui l’Europa deve prendere atto è il totale disinteresse di Putin a trattare con l’Europa, essendo il suo obiettivo, la sua vera sfida, quella di indurre l’America di Biden  a trattare la resa dell’Ucraina, invero quella degli USA.

Il fatto che nel discorso di Draghi non ci sia alcun accenno alla posizione  politica di Biden e di Antony Blinken ,  che si riassume nell’aspettativa di una sconfitta della Russia sul campo Ucraino che porti alla  sostituzione di Putin, non ci deve sorprendere essendo un allievo di quella classe sociale o elitaria allevata ad  asset finanziari  e diplomazia bancaria; oppure, poiché, come da tempo si profetizza, dovrà incontrarsi con Biden e lì chiarire le sue valutazioni politiche sulla guerra in corso e le eventuali iniziative diplomatiche da seguire, è ragionevole pensare che anche in quella sede prevarrà il pragmatismo: ma  per quale obiettivo? Lo stato dei fatti ci dice che Draghi non solo non ha un mandato europeo per far cambiate idea a Biden, ma non è portatore neppure di una proposta europea alternativa, una strategia di lavoro su cui far leva per ottenere una tregua e avviare un percorso diplomatico serio, risolutivo per la pace. Questa miseria di idee mette in pericolo l’Europa, al momento non ancora coinvolta direttamente anche se, come si dice, si trova con i sassi alla porta. Ma è solo un’ipotesi, poiché il “ caso” può nascere in ogni istante; e allora sarebbe troppo tardi e l’America troppo lontana.  Ecco, questo è il punto vero della situazione: l’Europa vive nell’alleanza con gli USA in una posizione troppo subordinata, per cui se vuole trovare una soluzione rapida a questa guerra e riportare la pace nel nostro continente, deve cercare all’interno la sua forza e una sua strategia su cui impostare una trattativa che tenga conto della realtà modellata da oltre 70 giorni di guerra. Non è pensabile che Draghi riesca in questa impresa, pur essendo l’Italia, per l’America, un partener storico, poiché le divisioni e quindi la debolezza dell’Europa ( le divisioni sulle sanzioni petrolifere docet ) non gli conferiscono quella credibilità e la forza che solo un Europa unita, attraverso le sue istituzioni, può presentarsi al confronto con gli Americani non per assentire, caso mai per dotare l’alleanza  atlantica di una linea politica che corrisponda al livello di guardia della crisi che ormai investe e ridisegna l’attuale assetto geopolitico, di cui l’aggressione Russa all’Ucraina ne rappresenta l’allarmante e irreversibile stato dei fatti.

Poi c’è l’opinione pubblica. Un’inflazione di sondaggi ci rivela l’orientamento degli italiani sulla guerra in corso e sulla politica del governo, sostanzialmente una maggioranza quella che condanna l’aggressione Russa, ma anche una spaccatura simmetrica tra i contrari e incerti riguardo alla fornitura delle armi. Tutti vogliono la pace, anche se le strade da perseguire per raggiungere lo scopo spesso divergono. Poi ci sono le conseguenze economiche e sociali, che la guerra produce e diffonde fino a far presagire sacrifici enormi, che verrebbero a sommarsi a quelli che già il cittadino sopporta da oltre due anni a seguito  della pandemia virale. Una situazione che comincia ad avere riflessi sulla tenuta del consenso a sostegno della politica di favore verso l’Ucraina, una reazione dovuta all’assenza di una strategia dalla quale si possa comprendere fin dove il governo o, meglio, la NATO intende spingersi per pervenire ad una tregua e aprire un percorso per la pace. La larga maggioranza che sostiene il governo dà segni di squilibri, con il movimento 5stelle e la Lega che si preparano alle prossime scadenze elettorali  di giugno prossimo e le politiche del 2023, profittando delle forti tensioni che percorrono il paese, sia per la crisi economica e la forte inflazione che si mangia i redditi delle pensioni e del lavoro, che per le avvisaglie di una recessione economica che trova nel provvedimento della FED una previsione piuttosto allarmante.

Se quindi il discorso di Draghi a Bruxelles è stato considerato importante e pragmaticamente impegnativo sul piano della forma, nella sostanza segna l’assenza di una visione di emergenza e di piena assunzione di responsabilità da parte dell’Europa sul fronte della guerra e rispetto alla linea interpretativa dell’America, che espone l’Europa a un rischioso confronto con la Russia, contro la quale le sanzioni deliberate hanno un ritorno di fiamma che incendia la nostra debole economia, riorienta l’opinione pubblica verso una caduta di solidarietà a favore dell’Ucraina e di distanziamento dal governo Draghi e dai partiti che lo sostengono a vantaggio di quelle forze, Conte e Salvini, pronte a ricostruire l’avventura di un populismo che si rivelerebbe disastroso per la tenuta della democrazia del nostro Paese.

Alberto Angeli

La Bielorussia, la Polonia e i migranti: chi tira i fili della crisi. di A. Angeli

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Si fa sempre più grave e tesa la situazione al confine occidentale della Bielorussia, dove migliaia di migranti sono stati spinti ( guidati con forza? ) dai soldati di Lukaschenko con lo scopo di fare saltare i confini con la Polonia. Una Pressione che ha costretto Polonia e Lituania a dichiarare lo stato di emergenza e a chiudere le frontiere ammassando migliaia di militari e erigendo un filo spinato, tutto per fermare i migranti ( quanti: diecimila, 15.000 ?) che cercano cercano disperatamente di entrare in occidente. I rischi di una incontrollata azione induce a temere che la situazione possa degenerare in uno scontro violento . D’altro canto è proprio l’escalation programmata a suo tempo dal presidente bielorusso Alexander Lukashenko, fin dal maggio 2021, di ” inondare l’Europa di droga e migranti “, contro cui l’Europa esprime una forte condanna e guarda con preoccupazione a quanto sta avvenendo. Ormai è chiaro, si tratta di una rappresaglia per le sanzioni imposte dell’Europa in seguito all’atterraggio forzato di un aereo commerciale e alla detenzione di due dei passeggeri , il giornalista dell’opposizione Roman Protasevich e la sua compagna, la cittadina russa Sofia Sapega, dalle autorità bielorusse nel maggio 2021.

Se stiamo a quanto dichiarano da chi ha svolto indagini al riguardo ( corroborate anche da precise accuse da parte degli stessi migranti ) l’esercito bielorusso ha trasportato un gran numero di persone, molte in fuga dai conflitti del Medio Oriente, e le ha scortate al confine con la Polonia, dove ora sono intrappolate tra le difese del confine polacche e l’esercito bielorusso. Sul caso più di un esperto di questioni inerenti all’aera e dei rapporti tra Russia e Bielorussia ( cioè Putin e Lukaschenko ), la situazione si presta ad essere interpretata come un manovra voluta dalla Russia per consolidare la dipendenza di Lukashenko dal Cremlino. Ma il vero obiettivo è senza ombra di dubbio ravviabile nella volontà di Putin di aumentare l’influenza di Mosca sui negoziati con Berlino, per accelerare la certificazione del gasdotto Nord Stream 2, poiché la cancelliera tedesco uscente, Angela Merkel, ha invitato la Russia ad intervenire per superare rapidamente la crisi.

Il governo polacco stima che oltre ai migranti già numerosi ai suoi confini altri potrebbero essere raccolti lungo il confine con la Bielorussia , secondo quanto riferito, scortati da personale militare bielorusso. Allora può accadere di tutto, con i militari polacchi sotto pressione che ricorrono sempre più spesso a misure sempre più violente, fino a rendere la situazione incontrollabile per la una escalation di accuse in corso tra i due paesi confinanti. Questa tensione induce a considerare non del tutto esclusa una imprevedibile reazione da parte di une delle due sentinelle che si fronteggiano lungo la frontiera, anche se gli ultimi avvenimenti ( cancellazione dei voli dai Paesi da cui partivano i migranti come turisti per la Bielorussia e l’apertura di Punti a garantire comunque i rifornimenti di metano all’Europa e l’invito a Lukschenko a calmarsi ) inducono a considerare altamente improbabile la minaccia di un conflitto, ch potrebbe coinvolgere la NATO e la Russia. Timore che ha spinto anche lo stesso Lukashenko a dichiarare che non cerca lo scontro. Ci si domanda se questi sono segnali rassicuranti, anche se le prospettive di un’immediata riduzione dell’escalation sembrano al momento improbabili, dato che l’UE ha deciso questa settimana di ampliare la portata delle attuali sanzioni contro la Bielorussia, proprio la cosa che ha scatenato in primo luogo le ritorsioni di Lukashenko. Pertanto, con l’adozione di un nuovo pacchetto di sanzioni che potrebbe verificarsi il 25 novembre, l’attuale crisi potrebbe estendersi fino a dicembre e fino al 2022.

Ma la crisi ha anche un altro risvolto, in quanto ha messo a fuoco il ruolo e gli interessi della Russia Putiana, con i leader del governo della Polonia che hanno accusato direttamente Putin di avere orchestrato questa intricata situazione. Non è chiaro, solo per chi non vuole pensare, fino a che punto il Cremlino sia direttamente coinvolto nella promozione dell’attuale crisi, ma la situazione fa comunque il gioco della Russia. Inevitabilmente spingerà ulteriormente Lukashenko sotto l’influenza di Mosca – qualcosa che il Cremlino alla fine sembra cercare, almeno stando agli avvisi diretti all’usurpatore lukaschenko . In particolare, il 4 novembre, Russia e Bielorussia hanno finalmente firmato i tanto attesi cosiddetti programmi sindacali, o road map per l’integrazione . Questi documenti cercano in definitiva di avvicinare i due stati integrando i loro sistemi economici e amministrativi. Sebbene i dettagli dei documenti non siano pubblici, le informazioni disponibili suggeriscono che sono stati notevolmente annacquati . Tuttavia, il fatto che ciò sia avvenuto dopo anni di stallo di Lukashenko sottolinea la crescente influenza della Russia sulla Bielorussia.

Si tenga inoltre conto di un altro fronte., da cui ricaviamo la notizia che l’escalation della crisi arriva tra rinnovate notizie di un altro ammassamento di truppe russe al confine con l’Ucraina . Con l’occidente preoccupato dalla crisi dei migranti e Kiev, che invia anche truppe e aumenta le forze di frontiera per prevenire qualsiasi potenziale ricaduta, il Cremlino potrebbe approfittare della situazione per provocare un’ulteriore destabilizzazione in Ucraina. Queste rinnovate tensioni ai confini arrivano subito dopo la visita del segretario alla Difesa degli Stati Uniti, Lloyd Austin , nella regione del Mar Nero, inclusa l’Ucraina, per ribadire il sostegno di Washington. In passato, tali eventi ed espressioni di sostegno all’adesione dell’Ucraina alla Nato hanno provocato un forte contraccolpo da parte della Russia . Mosca vede l’Ucraina e altri stati post-sovietici come sotto la sua sfera di influenza. In quanto tale, un’escalation del conflitto tra Ucraina e Russia rimane improbabile, ma gli sviluppi servono a ricordare il potenziale di una rapida escalation, soprattutto alla luce delle preoccupazioni sulla quantità di equipaggiamento militare che la Russia ha lasciato al confine con l’Ucraina orientale quando si è ritirato ad aprile.

Per tutti i motivi su esposti l’evoluzione della crisi dei migranti al confine bielorusso rappresenta la più grave escalation delle tensioni regionali tra la Bielorussia e l’Europa da anni. Inoltre, con l’UE che si limita ad ampliare le sanzioni contro Minsk , rimane lo scenario più probabile che Lukashenko continuerà a perseguire l’attuale strategia di ritorsione. Pertanto, anche la situazione umanitaria nell’area continuerà a deteriorarsi, soprattutto a causa dell’abbassamento delle temperature prima dell’inverno e delle segnalazioni che gli operatori umanitari non sono in grado di entrare nell’area , rischiando una vera e propria crisi umanitaria.

La democrazia affronta nuove minacce; l’Europa, tutti i paesi dell’Europa, attraversano un periodo di sconvolgimenti dopo la Brexit; gli Stati Uniti tracciano un percorso difficile per uscire dall’amministrazione Trump; il coronavirus sta devastando gran parte del mondo. La disuguaglianza è in aumento e le divisioni nella società si stanno ampliando, spesso alimentate dalla retorica incendiaria dei governi. E non dobbiamo illuderci sul fatto che qualsiasi aiuto dalla Russia per risolvere la crisi bielorussa avrà probabilmente un prezzo. E tuttavia, l’Europa non può e non deve chiudere gli occhi di fronte al dramma che si avvicina per quella parte dell’umanità spregiativamente utilizzata dalla Russia e dal suo servo Lukaschenko, dia prova di coraggio, di grande spirito umanitario, un mondo diverso perché basato sulla solidarietà e senso dell’umanità, aperto e pronto all’accoglienza salvando bambini, donne e anziani sottraendoli al gioco di potenze stupide e senza anima .

QUESTA è L’EUROPA CHE TUTTI VOGLIAMO CHE SIA.

Albero Angeli

Il metano sta bruciando il pianeta. di A. Angeli

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Il 12 dicembre 2015 si chiuse la Conferenza di Parigi, ( La XXI Conferenza delle Parti dell’UNFCCC, COP 21 o CMP 11) aperta il 30 novembre, con un accordo globale sulla riduzione dei cambiamenti climatici, il cui testo ottenne il consenso dei rappresentanti delle 195 parti partecipanti. L’accordo diventò  giuridicamente vincolante dopo la ratifica avvenuta a New York tra il 22 aprile 2016 al 21 aprile 2017, per essere  adottato dalle parti partecipanti all’interno dei propri sistemi giuridici (attraverso la ratifica, accettazione, approvazione o adesione), Nel novembre 2019 Donald Trump deliberò ufficialmente la procedura di uscita dagli accordi di Parigi. A Gasglow è in corso un durissimo confronto sul documento finale mentre fuori, per le strade e le piazze, i giovani di Fridays For future e di tanti altri movimenti manifestano la propria rabbia ricordando che il tempo per salvare il pianeta è già scaduto. I giovani, appunto. Sono loro la parte della verità e lo ha ricordato anche Obama, l’ex Presidente degli Stati Uniti, nel lungo intervento alla conferenza sul clima. E’ stato un fiume in piena: ha attaccato Trump e le sue politiche negazioniste sull’ambiente, bacchettato le grandi assenti Russia e Cina, ironizzato sul catering e ha citato Shakespeare., ma è scivolato su una caratteristica dei grandi, quando ha detto: “ che ora il mondo è pieno di Grete, volendo forse annullare il simbolo di questa lotta in cui sono impegnati migliaia di giovani, l’energia più importante di questa durissima lotta dal  cui successo dipende il loro futuro.

 Doppiamo allora chiederci se gli anni di devastanti siccità, inondazioni, ondate di calore e incendi dall’adozione dell’accordo sul clima di Parigi, non ci hanno insegnato qualcosa, ammettendo, ecco il limite di Obama, che abbiamo sottovalutato il ritmo del cambiamento climatico estremo e destabilizzante. Il mondo si è riscaldato di circa 1,1 gradi Celsius rispetto ai livelli preindustriali, in gran parte dal 1950 , e il ritmo continua. Ecco perché era così importante che più di 100 paesi si unissero  in una coalizione guidata dagli Stati Uniti e dall’Unione Europea nel corso della COP26 per ridurre le emissioni globali del potente gas serra metano di almeno il 30% entro il 2030 .

Ma i delegati che si sono incontrati alla conferenza mondiale sul clima a Glasgow hanno dimostrato di pensare ad altro anziché alla sicurezza del pianeta, mentre avrebbero dovuto agire con più responsabilità, lucidità, immediatezza , fin dal giorno dopo la conclusione della Conferenza  per limitare l’aumento della temperatura a breve termine. Intanto, più nazioni avrebbero dovuto aderire al patto riguardante l’impiego del metano per ridurre drasticamente le emissioni di CO2 nell’atmosfera,  tra cui Cina, Russia e India, i primi tre grandi emettitori di metano al mondo, e l’Iran, il nono più grande. Gli Stati Uniti, che la scorsa settimana hanno presentato il proprio piano di riduzione delle emissioni  di metano, sono quarti, seguiti dal Brasile, che ha firmato l’accordo. Questo, ovviamente, riassume la  difficile sfida del cambiamento climatico: d’altro canto nessuno può sentirsi in salvo, questo perchè i confini non possono proteggere dall’impatto planetario dovuto al riscaldamento, quindi ogni paese deve unirsi alla lotta, specialmente i grandi inquinatori.

Per chi ha aderito al patto del metano, il loro impegno deve essere  misurato fin da subito e con costanza dandone concreta prova mediante azioni  all’altezza della gravità climatica, non con discorsi, se effettivamente da parte di questi Pesi si vuole  rallentare il riscaldamento prima che le conseguenze diventino catastrofiche. Questo fa parte di una strategia di mitigazione essenziale, insieme alla rapida eliminazione del carbone e dare priorità alla protezione delle foreste e procedere alla piantumazione dei 1000 miliardi di alberi per rallentare il cambiamento climatico.

L’altro elemento di tale strategia è la riduzione delle emissioni dei più perniciosi inquinanti climatici, quelli che, insieme al metano, sovraccaricano il riscaldamento a breve termine. A parte la geoingegneria del clima, questo è il modo più veloce per rallentare il riscaldamento globale.

Questi superinquinanti, come sono chiamiati, hanno il potenziale per capovolgere i sistemi naturali critici, accelerando lo scioglimento del ghiaccio marino artico riflettente e delle calotte glaciali in Antartide e Groenlandia e lo scioglimento del permafrost nelle regioni boreali del mondo. Quel disgelo sarà disastroso per il clima se finirà per liberare le grandi quantità di metano e altri gas serra all’interno del suolo ghiacciato.

Sappiamo, leggendo i risultato scientifici  delle misurazioni dell’aria intrappolata nel ghiaccio antartico, che la quantità di metano nell’aria ha raggiunto il livello più alto in almeno 800.000 anni. E poiché le emissioni di metano possono essere più di 80 volte più potenti nel riscaldare il pianeta in 20 anni rispetto all’anidride carbonica, i tagli al metano hanno un ruolo speciale nel limitare l’aumento della temperatura a breve termine. Particolarmente potenti sono anche altri due inquinanti climatici di breve durata: gli idrofluorocarburi, utilizzati principalmente nella refrigerazione e nel condizionamento dell’aria, e la fuliggine di carbonio nero, causata dalla combustione incompleta di combustibili fossili, legno e rifiuti organici, come gli scarti dei giardini e delle aziende agricole. Riduzioni di questi inquinanti sono possibili con la tecnologia esistente e potrebbero limitare ulteriormente l’aumento della temperatura nei prossimi due decenni , evitando un riscaldamento tre volte superiore entro il 2050 rispetto alle strategie mirate al solo biossido di carbonio.

Nel 2016, con l’accodo di Parigi, 197 paesi hanno deciso di ridurre l’uso di idrofluorocarburi di oltre l’80% nei prossimi 30 anni, con la possibilità di evitare quasi mezzo grado Celsius di riscaldamento entro la fine del secolo. Questi paesi devono accelerare tale programma e fornire ulteriore sostegno finanziario per aiutare alcuni paesi a basso reddito a conformarsi.

Dalle ricerche condotte in alcuni Paesi  in cui sono state adottate norme sull’aria pulita, è risultato che le stesse  servite a ridurre  le emissioni di carbonio da fuliggine nera del 90% dagli anni ’60. Questo può essere replicato altrove. In particolare, il mondo deve concentrarsi sulle emissioni di carbonio nero dalla produzione di petrolio e gas nell’Artico. Queste particelle oscurano la neve e il ghiaccio, riducendo il riflesso della radiazione solare in una regione che si sta riscaldando a un ritmo tre volte superiore a quello globale, con il potenziale di influenzare i modelli meteorologici globali. La riduzione di queste emissioni dovrebbe essere una priorità globale. In breve, abbiamo bisogno di una strategia globale combinata di tagli profondi alle emissioni di anidride carbonica riducendo le emissioni di metano e di altri superinquinanti. Altrimenti, sarà difficile raggiungere l’obiettivo di limitare gli aumenti di temperatura a breve termine e il potenziale di riscaldamento incontrollato. Questo dovrebbe essere uno sforzo a tutto campo da parte di tutti i paesi a sostegno della giusta lotta dei giovani ai quali è obbligatorio dare loro una speranza per il futuro.

Alberto Angeli

La sfida del XXI secolo: realizzare il Socialismo per combattere i nuovi poteri economici. di G. Martinelli e A. Angeli

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Il XX secolo terminò con un drammatico interrogativo sul destino dell’idea socialista, sulla quale ormai è diventato un luogo comune affermarne la crisi d’identità e di rappresentanza della sinistra politica quale sintesi del riformismo e del progresso. Molte sono state le tesi che agli inizi del III° millennio presagirono “ la fine del socialismo come rappresentante della sinistra ”. A dare una qualche fondatezza a quelle tesi sono gli avvenimenti del XX secolo che segnarono una svolta nella storia della sinistra mondiale e italiana: la caduta del muro di Berlino nel 1989, la fine del PCI e la nascita del PDS nel febbraio 1991 e del Comunismo Sovietico dicembre 1991. Tuttavia, i processi sociali e politici che si sono susseguiti nel tempo hanno portato in superficie una realtà che rappresenta tutt’altra cosa rispetto ai segnali, questi si profetici, di quelle tesi deterministiche sulle quali si misurava la coincidenza della fine del socialismo con la crisi della sinistra Europea, poiché mentre coincideva con la fine del comunismo , non poteva darsi per scontato che a questa crisi seguisse quella del socialismo democratico europeo dato che, appunto, non aveva alcuna attinenza con la crisi del marxleinilismo. E infatti il socialismo Europeo mantiene tuttora una presenza politica a partitica e di governance in molti Paesi dell’Europa, una identità che però ha subito una metamorfosi fino a patire una trasfigurazione identitaria e politica degli ideali socialisti, con l’archiviazione del pensiero rivoluzionario e anticapitalistico, sostituendolo con un distopico sogno di rifondazione di un socialismo liberale del XXI secolo, come sta avvenendo in Italia. E qui s’impone un’altra precisazione: è totalmente sbagliato attribuire a un fenomeno naturale o al destino cinico e baro la destrutturazione dell’ideale socialista, conseguenza di una metamorfosi identitaria e di prospettiva politica, che si è concretizzata nell’abbandono della sua vocazione genetica di alternativa al capitalismo per identificarsi in una politica liberal-borghese e di collaborazione con il potere economico e finanziario, e scoprire così di ritrovarsi nell’indistinto processo politico in cui destra e sinistra si annullano in un indeterminismo sociale a vantaggio dei populisti e sovranisti. E’ questa curvatura politica che determina per la sinistra la perdita del sostegno elettorale del mondo del lavoro, degli esclusi, di chi subisce le diseguaglianze prodotte dalla globalizzazione, che sembra inarrestabile in molti Paesi, ma, per quanto c’interessa qui rilevare, soprattutto in Italia. Ed è in questa frattura che si inserisce il populismo con la manipolazione dei temi sensibili: lavoro, reddito, sicurezza, immigrazione, ambiente, politica Europea, ruolo dell’Euro, fino a spingersi ad una messa in discussione del parlamento, della democrazia, dell’antifascismo Costituzionale. L’economista Shoshana Zuboff afferma nel suo ultimo lavoro: “ogni vaccino inizia con un’attenta conoscenza della malattia nemica”, e per il socialismo la malattia sono le nuove forme di sfruttamento e di condizionamento delle libertà individuali e collettive e l’antidoto, il vaccino contro la malattia del nuovo capitalismo moderno è il socialismo, anche se, certamente, occorre un laboratorio in cui approfondire la ricerca di queste nuove forme patologiche con le quali si manifesta la malattia, e non solo perché siamo nel XXI secolo, ma perché il socialismo rimane oggi l’unica e ultima risposta.

Gabriele Martinelli e Alberto Angeli

Su Draghi profezie telegrafiche di Tiresia? di L. Manisco

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Il neo-presidente del Consiglio non ama parlare, ma quando ha parlato per più di un’ora al senato ha intonato una filastrocca di traguardi da raggiungere senza indicare scadenze, mezzi e procedure.Non siamo astuti come lui ma le astuzie altrui meritano la nostra attenzione. Ne abbiamo decifrate due. Della sua politica contro il cambiamento climatico ha usato il termine di “transizione” verso direttive a tal uopo. E del rilancio dell’economia ha detto che debbono essere “selettive”. Allusioni indicative? Non tanto. Per citare l’Alighieri i termini usati erano “Sì come cosa in suo segno diretta”. La transizione vuol dire solo prender tempo, rinviare, fors’anche devolvere a governi futuri quel compito. I provvedimenti economici e finanziari per il Super Mario vanno promossi con metodo selettivo: sostenere fiscalmente le aziende produttive e privare di qualsiasi sostegno quelle – la maggioranza – colpite dalla crisi che rischiano il fallimento. Il che, diciamo noi, vuol dire disoccupazione di massa e povertà senza ritorno.Il Draghi è un “Chicago’s boy”, un prodotto della scuola economica iper-libertista fibdata da ultra-conservatori del calibro di Milton Friedman e George Stigler. Ha lasciato vistose tracce su quanto ha appreso alla Goldman Sachs ed ha applicato alla BCE. Ritenere che possa cambiare idea a Palazzo Chigi è una pia illusione. Anzi, la grave crisi che ha colpito il Bel Paese potrà stimolare la sua creatività e il suo rigore. Non riuscirà ad aumentare significativamente il Pil di 1.649 miliardi ma cercherà di ridurre l’astronomico debito pubblico di 2.620 miliardi. Come? Ristrutturare e mimetizzare la destinazione dei 209 miliardi rateizzati dall’Unione Europea? Troppo poco! Tagliare lo stato sociale e la sanità, investendo quel che resta sulle misure anti covid-19 e le vaccinazioni. Scelta obbligata per un regime capitalistico. E se non basta ancora affittare il Colosseo alla McDonald’s e vendere la Fontana di Trevi. Non è solo una battuta: mentre il signor Draghi strangolava la Grecia un giornale inglese menzionò la possibilità per il British Museum di comprarsi metà dell’Acropoli.La politica estera: il Draghi si dichiara atlantico convinto proprio mentre la Merkel e Macron al Presidente Biden che al G-7 proclama “l’America è tornata” ribattono che per l’Europa ci vuole più autonomia. I mass media italiani evitano di menzionare quanto sopra: il silenzio è totale:”tutto tace, questa pace fuor di qui dove trovarla?”.Non prevediamo come il cieco indovino Tiresia il futuro. Guardiamo al presente stato delle cose senza transizioni e selettività.

Lucio Manisco

Draghi premier, chi ha vinto? di S. Valentini

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La crisi di governo aperta da Renzi non poteva che avere come inevitabile esito quello di uno spostamento verso un assetto ancora più moderato del quadro politico, con buona pace di Leu che immaginava un patto di legislatura con il Pd, 5 Stelle, con l’aggiunta dei “costruttori”, per intraprendere politiche in grado di affrontare la drammatica emergenza della pandemia in un contesto però di ripresa economica del Paese su basi più eque.

Il patto di fine legislatura tra le tre forze politiche esce a pezzi con l’avvento di Mario Draghi. Lo scopo fondamentale della apertura della crisi era quello di determinare chi avrebbe gestito il Recovery Fund, i 209 miliardi della UE. In altre parole, per quali politiche saranno spesi e soprattutto chi saranno i principali beneficiari di questo enorme fiume di denaro. Questa ripartizione della torta deve essere definita entro aprile e si intreccia con la scadenza del semestre bianco che inizia ad agosto. Dopo si entra nella fase della elezione del Presidente della Repubblica, che dovrà essere del perimetro della nuova maggioranza di Draghi, e dell’iter per l’approvazione di una legge elettorale semi proporzionale. Due atti politici fondamentali per destrutturare il blocco delle destre. I fautori del maggioritario, del bipolarismo e dell’alternanza arricceranno – virtuosi liberali – il naso, ma questa è la strada che imboccherà il nuovo governo e la maggioranza che lo sostiene. La necessità diviene virtù in politica!

Allora vista da questa ottica la crisi è tutt’altro che incomprensibile. Del resto numerosi erano stati i segnali che si andava in questa direzione. Il più importante è stato l’imponente riassetto proprietario dei maggiori media oggi sotto il ferreo controllo dei grandi gruppi monopolistici e delle oligarchie finanziarie. Mi pare allora evidente che la crisi non è solo il risultato dell’egocentrismo di Renzi. Le scelte politiche non si spiegano con una psicologia da accatto. La posta in gioco è molto grande: la collocazione internazionale dell’Italia e il suo futuro post-pandemia. Questione resa ancora più preminente e urgente dal fatto che il Presidente del Consiglio italiano è chiamato a presidiare per il 2021 il vertici del G.20.

La sconfitta di Trump ha aperto in Occidente una fase politica nuova. La destra nazionalista e populista aveva già subito in Europa una pesante sconfitta con la nascita della “maggioranza Ursula” (quella che nel 2019 ha permesso la conferma della presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen). Questo dato politico va assolutamente evidenziato. E in Italia, dopo il governo giallo-verde del primo Conte vi è stato un riallineamento con Francia e Germania con il Conte bis sostenuto dal Pd. Le oligarchie finanziarie, di qua e al di là dell’Atlantico, non vogliono populisti e nazionalisti al governo. La stagione in cui una parte del capitale finanziario ha fatto loro l’occhiolino, per usarli al fine di dare una base di consenso a feroci politiche neoliberiste, con la elezione di Biden, si è sostanzialmente conclusa. Ci saranno indubbiamente dei forti colpi di coda, ma le forze nazionaliste e populiste sono per ora in fase discendente. Lo ha capito molto bene Giorgetti che chiede di ricollocare la Lega su una posizione moderata e filo atlantica. Ora l’Occidente, nel bel mezzo di una drammatica crisi sanitaria, economica e sociale, ritrova i suoi cosiddetti valori comuni. Ma l’economia cinese va come un treno e quindi vi è bisogno di condurre politiche nuove per competere con il colosso asiatico e i suoi alleati, in primo luogo la Russia. Ovviamente, questa nuova situazione, non favorevole all’Occidente, non risolve i problemi. Le cancellerie europee e quella statunitense sono consapevoli che non è possibile tornare agli equilibri mondiali emersi dopo l’89. Gli ultimi vent’anni hanno segnato un rovesciamento dei rapporti di forza che si sono determinati dopo il crollo dell’Urss. Il mondo è profondamente cambiato: siamo in un mondo multipolare caratterizzato dal declino statunitense come grande potenza economica. Anche l’UE, (Germania e Francia in testa) vuole dire la sua e ricercare il suo spazio per competere su scala globale con gli altri fondamentali poli dell’economia mondiale. Nazionalisti e populisti escono battuti, sconfitti, ma non per questo l’Occidente ha ritrovato la sua unità di fondo. Può sbandierare i comuni valori, ma le divisioni tra Usa e UE restano tutte e si aggravano, sono evidenti, a iniziare dai rapporti economici e commerciali da stabilire con la Cina e la Russia. La “guerra dei vaccini” si ascrive tragicamente in questo scontro politico, economico e finanziario, prima ancora di essere una emergenza sanitaria.

L’Italia non ha la storia della Francia e neppure è la Germania, locomotiva dell’economia europea. In Italia il partito trasversale atlantico e filo-americano è sempre stato molto forte e nel passato si è scontrato duramente non solo con la sinistra ma anche con le forze che puntavano decisamente all’integrazione economica europea. Il partito filo-americano, oggi rappresentato soprattutto da Renzi e forse da Giorgetti, ma anche da una parte del Pd, (si guardi la fanfara mediatica messa in piedi da Zingaretti sulla vittoria elettorale di Biden e sul mito della democrazia americana, o alle rozze campagne antirusse e anticinesi), si è però indebolito nell’ultimo periodo. Il Pd non ha una posizione strategica sulla grandi questioni geopolitiche, è appiattito sulle decisioni della Casa Bianca, condividendo molte delle scelte compiute in politica estera prima da Obama e poi da Trump, non distinguendosi da quelle più scellerate che quest’ultimo ha fatto. Il partito filo-americano si è indebolito poi anche per la massiccia presenza politica e istituzionale del Movimento 5 Stelle che ha determinato un forte appannamento dell’atlantismo italiano. Da questa situazione scaturisce la manovra degli atlantisti più intransigenti che tentano un riequilibrio che riavvicini l’Italia a Biden, il nuovo inquilino della Casa Bianca. Ma i 209 e rotti miliardi di euro e l’enorme debito pubblico accumulato in questi mesi sono garantiti non dagli Usa ma dalla Germania. Troppo spesso si dimentica questo aspetto essenziale. Ecco perché il confronto tra chi vuole una UE atlantista e tra chi invece vuole dare forza e velocità al progetto di vera integrazione è molto forte in seno al blocco politico, finanziario ed economico dominante in Europa.

Gli Usa hanno però i loro drammatici e straordinari problemi da affrontare. Biden è preoccupato dalla instabilità della situazione interna dovuta alla radicalità dello scontro politico in atto nel paese, che è spaccato in due come una mela, deve fare i conti con l’emergenza pandemica e con una crisi economica e sociale, ma anche di valori fondativi del paese, che forse non ha precedenti nella storia americana. Tale situazione lascia pochi margini e possibilità di iniziativa a sostegno degli “amici” europei. Tra l’altro la soluzione non può essere quella di stampare dollari all’infinito per fronteggiare la crisi economica. È una operazione che porta a un ulteriore indebitamento degli Stati Uniti proprio verso la Cina.

Dunque, l’Europa è costretta a fare da sola, per la prima volta dopo il secondo conflitto mondiale, deve camminare sulle sue gambe. Del resto l’UE, oltre a non avere un sostegno economico dagli Usa, come in passato (non credo che si attenuerà la guerra commerciale con la Germania anche se sarà condotta con altre modalità), deve sempre più fare a meno di uno strumento diplomatico e militare di pressione a Est e nel Sud del mondo come la Nato. La presenza di paesi come la Turchia complica e rende molto difficile l’utilizzo della Nato in chiave pro-UE, come strumento di tutela dei suoi interessi. In un mondo multipolare l’UE ha bisogno di una sua maggiore autonomia politica, economica e persino militare dagli Stati Uniti. Essere insomma amica di tutti e competere nello stesso tempo con tutti.

La crisi aperta da Renzi si sviluppa dunque all’interno di questo scenario, cioè la collocazione e il ruolo dell’Europa nel prossimo futuro che si trova ad un bivio, da un lato la visione perseguita dall’asse strategico franco-tedesco, pur tra limiti e contraddizioni, dall’altro l’antico rapporto di subalternità con gli Usa. Naturalmente lo scontro non è ancora così netto. I margini di mediazione tra le due diverse spinte sono ancora ampi. Ma il confronto è aperto e si gioca oggi una partita che potrebbe porre una forte ipoteca sulla opzione europeista. Il Regno Unito, con la Brexit, ha fatto la sua scelta e vedremo cosa succederà nei prossimi anni in Irlanda e in Scozia. Mentre la Cdu tedesca prepara il dopo Merkel in perfetta continuità con la sua politica, respingendo le posizioni di quella parte del partito che vorrebbero una politica meno europeista. La Francia, anche quando è stata governata dalle sinistre, ha sempre fatto leva sull’orgoglio nazionale francese. L’anello debole dello scenario è l’Italia.

Non è pertanto una polemica pretestuosa quella del leader di Italia Viva che ha criticato Conte per l’intestazione della delega ai servizi segreti o per la condanna troppo tiepida dell’assalto al Campidoglio degli Stati Uniti in quanto troppo legato a Trump, forse proprio tramite l’intelligence. La questione della collocazione internazionale dell’Italia non è punto trascurabile della crisi. Nella sua lettura occorre tenerne conto e solo qualche raro commentatore lo ha fatto. La richiesta del Ponte di Messina e del Mes, che in Europa nessun paese ha deciso di utilizzare, sono argomenti di pura propaganda per dare maggiore forza alla polemica politica. Draghi aveva già reso esplicito il suo pensiero a proposito e cioè che non riteneva opportuno chiederlo per non allarmare i mercati. Caso mai l’unico interrogativo legittimo è sapere se effettivamente Renzi sia un paladino della nuova amministrazione democratica americana o si è illuso di poterlo essere. Mi pare che Giorgetti abbia carte migliori da giocare. Comunque si vedrà strada facendo, soprattutto se sarà confermata la notizia che dalla Casa Bianca sarà candidato a Segretario generale della Nato grazie ad una vecchia promessa fatta da Obama. D’altronde i suoi rapporti con l’Arabia Saudita sono un indizio. In politica contano le azioni e quella compiuta da Renzi si colloca nel solco del partito filo-americano.

Il piatto principale però del confronto/scontro è il Recovery Fund, un mucchio di denaro che dovrà affluire dall’UE nei prossimi sei anni. Leggo che molti sostengono, soprattutto a sinistra, che Renzi sia una delle punte di diamante di questo disegno, funzionale al grande capitale. In questa analisi c’è del vero, ma chi sostiene che Renzi sia il maggior sostenitore di politiche neoliberiste nostrane dimentica che anche gran parte del Pd è funzionale a questi interessi, come anche qualcuno del Movimento 5 Stelle, per non parlare dei centristi o di Forza Italia e della Lega. Per essere più esplicito: quali discontinuità ha introdotto Zingaretti rispetto a Renzi? Forse il primo ha come referenti più i sindacati che la Confindustria? Certamente l’attuale segretario del Pd è portatore di una politica economica che contiene alcuni aspetti cari alle socialdemocrazie (aspetti e non nodi tematici fondamentali), ma non vi è stato da parte del Pd nessun ripensamento critico rispetto alle scelte fatte dal centrosinistra in questi trent’anni. La pandemia impone oggi un ulteriore indebitamento del Paese, ma subito dopo, finita l’emergenza, si tornerà a una politica liberista rigorosa. Il trattato di Maastricht è stato sospeso, non è stato abrogato!

Che siamo in piena emergenza lo ha capito molto bene la Germania della Merkel non adottando la stessa politica che aveva condotto nei confronti della Grecia o di altri paesi europei. Con una pandemia in corso, che ha un impatto sociale drammatico, non si è di sinistra perché vengono bloccati i licenziamenti, o perché si potenzia la cassa integrazione, o perché vengono distribuiti un po’ di bonus o sussidi. Misure analoghe sono state prese da quasi tutti i governi, compreso quello del vituperato Trump, quindi non da queste misure si distingue un governo di destra da uno di sinistra. Un governo di sinistra si caratterizza per interventi volti ad una più equa redistribuzione della ricchezza, per le politiche per il lavoro e l’occupazione, per investimenti strutturali nella economia green, per lo sviluppo di servizi pubblici essenziali: sanità, casa, innovazione tecnologica, formazione. Per questo sono convinto che la politica economica di Draghi, a differenza del governo Monti, non sarà, almeno nella fase emergenziale pandemica, segnata da provvedimenti “lacrime e sangue”. Non sarà insomma all’inizio una politica improntata alla pura austerità liberalista. Non è questa la fase che sta attraversando l’UE.

Lo scontro politico dunque che si è aperto con la crisi di governo non è tra riformisti e neoliberisti, cosa che Leu fatica a comprendere, ma muove dalla opzione di quali interessi economici e finanziari deve rappresentare la politica. C’è chi guarda agli Usa e continua a intrecciare i suoi legami con quelli del capitale finanziario americano, chi punta alla Germania, che già controlla, in modo diretto o indiretto, buona parte del tessuto produttivo del Nord del Paese, chi infine vuole fare affari, senza avere troppo lacci politici, con la Cina, ma anche con la Russia. Un groviglio di interessi insomma non riconducibili a una visione politica unitaria del blocco di forze dominanti. Un insieme di contraddizioni che la politica non riesce adeguatamente a mediare. Tutti vogliono mettere le mani sul malloppo che viene dall’UE, avendo però molto chiaro che la parte del leone nel dettare la ripartizione delle risorse non poteva essere prerogativa solo del Movimento 5 Stelle e Conte, insieme ad un Pd ondivago che non ha una visione strategica. Questo è il vero motivo che ha scatenato l’opposizione della Confindustria, della grande stampa e dei media, controllati appunto dalle oligarchie finanziarie, che da tempo lavoravano per giocare la carta Draghi.

L’iniziativa di Renzi, condivisa anche dal Pd (e chissà da chi altro nel centrodestra), partiva dalla necessità di procedere a un forte rimpasto di governo per ridimensionare la presenza nell’esecutivo del Movimento 5 Stelle poi, se ci scappava pure il cambio del premier tanto meglio, nessuno si sarebbe strappato i capelli. Ma il piano iniziale ha imboccato un altro sentiero. La manovra si è combinata con il ruolo di Mattarella che ha imposto tutt’altra piega alla crisi. Il Presidente della Repubblica e il suo fido Franceschini hanno determinato un esito non previsto rispetto agli obiettivi iniziali che si volevano ottenere dalla manovra. Molti commentatori hanno notato che il nome di Draghi è stato proposto da Mattarella appena poco dopo che Fico gli ha riferito l’esito negativo del suo tentativo di rimettere in piedi la maggioranza parlamentare uscente per un Conte ter. Ciò vuol dire che il Presidente della Repubblica stava preparando il “pacco” da giorni, lo aveva pianificato. Mattarella ha lasciato prima bruciare l’ipotesi Conte, e tutti quelli che si illudevano, in testa Zingaretti e Bettini (lo stratega!), di costruire una alleanza politica con il Movimento 5 Stelle e con i cosiddetti “costruttori”, sono rimasti con un pugno di mosche, per poi compiere un vero e proprio colpo di mano, politico e istituzionale, da Statuto Albertino più che da Carta Costituzionale, più da monarca che da presidente di una repubblica parlamentare. Al Presidente della Repubblica non deve inoltre essere piaciuta – e non si può dargli torto – la campagna acquisti di parlamentari dal centrodestra, tra l’altro solo in parte riuscita, per tentare di formare una maggioranza di governo senza Italia Viva. Un ulteriore degrado e immiserimento della politica che Leu non ha colto. Una ennesima pagina nera del trasformismo parlamentare, questa volta con l’avallo anche della sinistra.

Con estrema abilità, da raffinato democristiano, Mattarella ha azzerato le ambizioni di tutti i principali protagonisti, ma ha fatto in modo che tutte le responsabilità della crisi fossero scaricate su Renzi, che credeva di essere il grande manovratore, ma che invece è stato manovrato come tutti gli altri protagonisti della crisi. L’argomento che ha ben chiaro il Quirinale è che si debba tenere conto della Germania che garantisce il nostro enorme debito pubblico e ci mette in mano ingenti risorse finanziarie. Mi pare più propenso quindi a raccogliere le istanze del processo di integrazione europea che vengono da Berlino. Del resto una partita simile, dalle grandi conseguenze politiche, economiche e finanziarie, persino di ordine geopolitico, non poteva essere lasciata in mano a un governicchio esposto agli umori quotidiani del Movimento 5 Stelle, di Italia Viva e di un Pd senza spina dorsale. Insomma Mattarella ha fatto lo stesso ragionamento che il Pd e Italia Viva avevano fatto su Conte e il Movimento 5 Stelle. Se non ci fossero di mezzo le drammatiche sorti del Paese sembrerebbe una commedia umoristica degli equivoci.

209 miliardi dall’UE saranno dunque gestiti da un tecnocrate della finanza europea che ha solide relazioni con i grandi gruppi monopolistici, con le banche e con le oligarchie finanziarie. Saranno quindi questi poteri forti a realizzare i progetti del Recovery Fund e nello stesso tempo dare tutte le garanzie al capitale finanziario europeo che tali progetti saranno funzionali ai suoi interessi. E non a caso i mercati volano mentre l’economia reale è in agonia. Chi meglio di Draghi può garantire questa straordinaria operazione con una maggioranza di governo in cui tutti i grandi potentati hanno un posto a tavola? L’esito della crisi conferma inoltre che il sistema istituzionale e politico europeo è un sistema a-democratico totalmente dominato dal capitale finanziario. Anche la democrazia formale oramai è stata messa in discussione. Ci vogliono altre prove politiche per capirlo?

Dalla crisi escono quindi con le ossa rotte il Pd, il Movimento 5 Stelle e Leu. Renzi può salvarsi solo se i suoi amici americani gli daranno un incarico di rilievo. Si dirà: Franceschini e Mattarella sono del Pd. Vero. Ma dentro il PD molti ex democristiani sono convinti che occorra ricostruire un forte partito o schieramento neocentrista che sia il polo egemone di un governo moderato e allineato alla maggioranza che governa l’UE. Una formazione che sia l’argine principale di uno schieramento politico e parlamentare impegnato prima di tutto a sbarrare la strada a quelle destre che non intendono ridurre il loro tasso di nazionalismo e di populismo. Facendo leva sulle contraddizioni della Lega l’obiettivo è di ridimensionare il loro spazio politico. Il secondo obiettivo del nuovo polo neocentrista è ridurre la base elettorale del Pd, svuotarlo politicamente e bloccare il suo pur velleitario tentativo di inglobare in modo subalterno la sinistra. Il terzo obiettivo, infine, è impedire che la sinistra possa dare vita a una formazione influente. In questo disegno strategico quindi non c’è spazio per il Pd di Zingaretti senza arte né parte. Questo disegno neocentrista, portato avanti soprattutto dal diffuso mondo ex democristiano, è funzionale, a me pare, alla strategia dell’asse Berlino-Parigi di integrazione europea. Con Draghi si intende normalizzare il quadro politico dopo i grandi guasti determinati da bipolarismo e dal vento populista figlio illegittimo del governo Monti.

In questa prospettiva non regge la critica di chi sostiene che le risorse del Recovery Fund devono essere utilizzate per realizzare progetti qualificati se effettivamente si vuole la loro approvazione da parte della Commissione europea. In questa partita ciò che veramente conta è che i progetti siano organici agli interessi e all’espansione del capitale franco-tedesco. Dunque è necessario correre, fare presto e affidarsi mani e piedi alle oligarchie finanziarie europee. L’obbligo al senso della responsabilità della politica alla fin fine si riduce a questa urgenza posta dalla finanza. Nel 2021 si ripropone insomma, sia pur in forme nuove, il metodo politico della Dc, un partito che sapeva mediare tra le diverse spinte del capitalismo italiano, tra imprese pubbliche e imprese private. Una inedita riesumazione della prima repubblica anche se i cavalli di razza di allora oggi sono dei ronzini, con le dovute eccezioni. Una nuova maggioranza politica centrista, senz’altro amica degli Usa, almeno finché non matureranno altre condizioni dettate dall’asse franco-tedesca. Un forte polo moderato ma centrista insomma che abbia lo sguardo rivolto soprattutto ai padroni dell’UE. Draghi per condurre tale politica è perfetto!

In questo disegno c’è spazio pure per Conte come leader di una parte importante del Movimento 5 Stelle e possa raccogliere anche un po’ di elettorato deluso dal Pd, in modo che, dopo la frantumazione dei partiti attuali, solo dei pezzi marginali vadano alle destre o alla sinistra. Il lavoro di costruzione di un forte polo politico centrista attorno alla figura di Draghi è un cantiere aperto e lungo la strada è indubbio che vi saranno correzioni e assestamenti, ma la via imboccata è questa. Allora una alleanza strategica tra Leu, Pd e Movimento 5 Stelle non regge alla prova delle trasformazioni politiche in corso. In primo luogo in quanto è concepita come operazione di palazzo e non come processo unitario che dovrebbe svilupparsi a partire dai territori. Basta dare una occhiata a quello che è avvenuto in questi anni nelle elezioni amministrative, comunali e regionali, e allo stato dei rapporti tra i tre partiti nei comuni dove si vota, a iniziare da Roma e Torino. In secondo luogo perché una parte dei gruppi dirigenti del Pd e del Movimento 5 Stelle perseguono altre opzioni strategiche e non si muovono nella direzione di costruire una nuova alleanza politica che sia una riesumazione di un centrosinistra, travestito dietro a delle formule amene, magari un po’ più spostato a sinistra. Vi sono contraddizioni strutturali tali in questa potenziale alleanza evocata che impedisce il decollo politico dell’operazione, non ha sufficiente credibilità e consenso elettorale, non è né vincente né centrale.

Molti sostengono che il governo è fragile. Ha una maggioranza parlamentare composita. Ma il governo, nel fronteggiare l’emergenza della pandemia, deve fare tre cose: decidere gli indirizzi e come utilizzare le risorse del Recovery Fund in accordo soprattutto con la Germania; garantire la elezione di un Presidente della Repubblica che sia dentro a questo perimetro e prospettiva del Paese; fare una legge elettorale un po’ più proporzionale, sufficiente a smontare ulteriormente l’attuale centrodestra. E per fare queste cose i numeri di partenza sono più che sufficienti. Cresceranno con il consolidarsi dell’operazione politica. Questo è il suo compito e non ha importanza come definire il governo: maggioranza Ursula, governo istituzionale o di unità nazionale, governo tecnico o politico. La debolezza politica (ma non numerica) della maggioranza parlamentare che lo sostiene è la sua forza, anche perché a questo governo non ci sono alternative se non quella del voto che la maggior parte del Parlamento e delle forze politiche non vogliono. Ma soprattutto non le vuole il grande capitale. L’unico progetto in campo – che ha 209 miliardi di motivazione convincenti – è quello di legare ancora di più il destino del Paese alla Germania. Ecco perché il partito filo-americano non si è rafforzato e alla lunga forse è destinato a soccombere. Questo passaggio della crisi di governo conferma il declino statunitense in atto. Quando invece dei Di Bella da New York, come opinionisti fissi nei Tg, ce ne sarà uno presente tutte le sere da Berlino, forse gli italiani inizieranno a comprendere dove sta andando il Paese.

Per concludere vorrei aggiungere qualche riflessione sulla sinistra. Però ho poco da dire. Posso solo affermare che è totalmente fuori fase e forse conta poco anche per questo. Dovrebbe cogliere i processi in atto, ma non è in grado di farlo. Emergono due tendenze nella martoriata, povera e divisa sinistra, entrambe prive di consistenza politica.

La prima, del tutto politicistica, utilizza l’argomento di non lasciare il governo Draghi alle destre, come se il pericolo fosse la collocazione parlamentare del suo governo. Draghi non è di destra, semplicemente è diretta espressione del potere, quello vero, che pesa e conta. L’atteggiamento da avere rispetto governo Draghi non può essere ridotto a tattica parlamentare, spacciandola per sopraffina manovra togliattiana. Leu non è il Pci e neppure tra le sue file c’è un nuovo Togliatti. La seconda tendenza è ideologica. Si ricorda giustamente cosa rappresenta in termini di potere Draghi e per questa ragione si crede che riproporrà per l’immediato una politica economica di austerità, come fecero la Bce e l’UE dieci anni fa quando soffocarono la Grecia e misero in riga tutta una serie di paesi europei, tra cui l’Italia. Ripeto, non siamo in quella fase. Una politica liberista da adottare, dopo la fine dell’emergenza pandemica, resta una prospettiva di fondo, ma non si concretizzerà nei primi mesi del governo Draghi, anzi produrrà al contrario qualche sorpresa, spiazzando la campagna ideologica di chi denuncia, ancora prima di vedere il governo all’opera, selvagge politiche antipopolari da subito, perdendo così la pochissima credibilità che ancora vanta. Per dirla in altro modo non credo che Draghi chiederà il Mes, o che voglia sopprimere il reddito di cittadinanza (caso mai lo riformerà per farne esclusivamente uno strumento di sussidio per le famiglie più povere) e tratterà con i sindacati su quota cento e soprattutto sul blocco dei licenziamenti. Prevedo che finché il Paese sarà in piena emergenza pandemica si avvarrà dell’attuale sistema emergenziale di protezione sociale per non gettare il Paese nel totale caos sociale. Il suo compito è soprattutto preparare e impostare strategicamente la nuova legislatura che sarà quella sì di “lacrime e sangue”, garantita magari da lui come Presidente della Repubblica.

La sinistra dunque cosa dovrebbe fare? Leu intanto, invece di imbarcarsi nel governo Draghi (mentre scrivo vi è qualche incertezza di Sinistra Italiana), dovrebbe marcare una forte discontinuità politica prendendo le distanze dal governo, anche considerato che ha una modestissima pattuglia di parlamentari, del tutto ininfluente per le sorti della maggioranza. Sarebbe così più credibile per poter promuovere una iniziativa politica rivolta all’insieme della sinistra, sia verso alcuni settori del Movimento 5 Stelle che del Pd, sia verso quelle forze della sinistra fuori dal Parlamento che potrebbero essere sensibili a un processo costituente di un nuovo partito. Occorre da oggi, partendo dalla condizione data, costruire una prospettiva nuova per la sinistra. Ma non mi pare però che sia questo l’intendimento. Dall’altro lato i partitini extra-parlamentari, più o meno residuali e autoreferenziali, dovrebbero sciogliersi invece di agitarsi senza costrutto nel fare spicciola propaganda ideologica. Ma l’aria che tira, anche in questo caso è pessima. Dunque la discussione sulla necessità di costruire una forza di sinistra capace di incidere sugli scenari politici italiani ed europei è rimandata, rinviata a data da destinarsi, con molta probabilità dopo le elezioni politiche.

C’è chi evoca la ripresa della lotta sociale. Ma le tensioni sociali sono già forti, dopo un anno di pandemia, e oggettivamente sono destinate a crescere nei prossimi mesi, nei prossimi due/tre anni. Dopo una prima fase di assoluta emergenza pandemica, che durerà ancora a essere ottimisti fino all’estate, si passerà inevitabilmente al ritorno a politiche rigorose per fronteggiare l’enorme debito pubblico, ma con un piano strategico del Recovery Fund approvato e avviato e con un quadro politico totalmente diverso. Vi è una penuria di risorse che si rivela anche nel caso del Recovery Fund, se non si conduce una politica vera di ridistribuzione della ricchezza e di lotta alle diseguaglianze che naturalmente non si prende in considerazione. Nonostante l’ingente flusso di finanziamenti, dopo una corposa trance iniziale, per i prossimi sei anni non arriverà a erogare che poco più di 10 miliardi all’anno tra finanziamenti a fondo perduto e risparmi di interessi, a meno che l’UE non decida altri provvedimenti. Ben poca cosa rispetto all’enormità di una crisi che ha creato una massa immane di imprese insolventi, come ricordato proprio da Draghi. Diventa allora urgente affidare al “tecnico” l’impostazione di una politica economica fortemente competitiva e selettiva, una politica di assoluto rigore e di contenimento del debito pubblico. La questione vera è quindi la ripresa della lotta politica! Per questo ci sono le condizioni oggettive per la formazione di un nuovo partito della sinistra, ma non quelle soggettive. Una volta chiarito che il Pd non giocherà più un ruolo centrale nel quadro politico italiano e sarà nel contempo ridotto, sotto il livello di guardia, il pericolo delle destre nazionaliste e populiste, e quindi verrà meno il ricatto del voto utile, forse si realizzeranno anche le condizioni soggettive per spingere alla formazione di un forte partito della sinistra che non nasca per una politica basata su un illusorio riformismo rinchiuso dentro gli steccati di un sistema a-democratico dominato dal capitale finanziario. Nutro fermamente questa speranza, anche se per i prossimi due o tre anni non vedo all’orizzonte nulla di buono.

P.S.

Chi è Mario Draghi? Dal 1991 al 2001 è Direttore Generale del Ministero del Tesoro, dove viene chiamato da Guido Carli, ministro del Tesoro del Governo Andreotti VII, su suggerimento di Carlo Azeglio Ciampi, all’epoca governatore della Banca d’Italia. È stato confermato da tutti i governi successivi: Amato I, Ciampi, Berlusconi I, Dini, Prodi I, D’Alema I e II, Amato II e Berlusconi II. In questi anni è stato l’artefice delle privatizzazioni delle società partecipate in varia misura dallo Stato italiano.

Nel 1992, prima che in Italia avesse inizio la stagione delle privatizzazioni, incontrò alti rappresentanti della comunità finanziaria internazionale sul panfilo HMY Britannia della regina d’Inghilterra Elisabetta II. Questo episodio scatena un’accesa polemica nel dibattito pubblico italiano. Nel 2008, il Presidente emerito della Repubblica italiana, Francesco Cossiga, ricordando quest’episodio, respinse l’ipotesi di vederlo sostituire Romano Prodi a Palazzo Chigi. Cossiga affermò assai esplicitamente: <<Un vile, un vile affarista…socio della Goldman & Sachs, grande banca d’affari americana …il liquidatore, dopo la famosa crociera sul Britannia, dell’industria pubblica, la svendita dell’industria pubblica italiana, quand’era Direttore Generale del Tesoro, colui che svenderebbe quel che rimane di questa povera patria (Finmeccanica, l’Enel, l’Eni) ai suoi comparuzzi di Goldman Sachs>>. In questa Banca fu dal gennaio 2002 al dicembre 2005, quando divenne Governatore della Banca d’Italia, dove rimase fino alla nomina a quella Centrale Europea nel 2011.

Dalla campagna di privatizzazione di società come IRI, Telecom, Eni, Enel, Comit, Credit e varie altre, consegnate ai cosiddetti “capitani coraggiosi”, lo Stato italiano ricavò all’incirca 182.000 miliardi di lire. Secondo alcune stime, il rapporto debito pubblico italiano sul Pil scese dal 125 per cento del 1991 al 115 del 2001. Fu inoltre la guida della commissione governativa che scrisse la nuova normativa in materia di mercati e finanza e per questa ragione viene informalmente chiamata legge Draghi (Decreto legislativo 24 febbraio 1998 e come ben si nota, qui ci si attiene al terrore del debito pubblico, tipica concezione della scuola neoclassica tradizionale, prekeynesiana. Quindi Draghi, svendendo le imprese pubbliche, viene considerato benemerito per aver ridotto questo debito. E poi, solo alla fine del mandato alla BCE, egli si ricorda vagamente di alcune tematiche keynesiane e accenna ad una autocritica per l’austerità caratteristica di tutta la politica economica della UE.

Ci vuole tanto a capire che siamo oramai in un sistema a-democratico dominato dal capitale finanziario e dai suoi tecnocrati? Quando la politica è incapace di prendere decisioni allora subentrano loro con l’appellativo di salvatori della Patria, ma devono solo gestire, come per il Recovery Fund, un fiume di denaro per conto delle oligarchie finanziarie europee, in particolare della Germania.

Quello di Mattarella è un colpo di mano? Sì, ma non è il primo e non sarà l’ultimo. La Costituzione italiana è solo carta da sbandierare per fare retorica sull’ideologia della democrazia.

Sandro Valentini