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Per un programma del Partito Unitario dei Lavoratori. di D. Lamacchia

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No, non esiste un Partito Unitario dei Lavoratori. Non ancora. Spero che al più presto possa avviarsi un processo che porti alla sua formazione o ad una forza simile. Un partito che abbia l’ambizione di unificare tutte le forze intellettuali ed organizzative che fanno riferimento al mondo del lavoro per dargli la prospettiva di una emancipazione, condizione unica per una emancipazione di tutta la società verso un modello di tipo socialista, democratico ed egualitario.

Dopo gli anni dallo scioglimento del PCI e delle vicende che hanno attraversato le realtà seguite a tale evento, PD, RC, SI, LEU, Art. Uno, ecc. e la catastrofe delle ultime elezioni è inevitabile pensare che se si vuole dare concretezza ad una prospettiva di crescita di una forza di sinistra in Italia si debba partire dal riconoscere che le divisioni sono la causa principale della sconfitta elettorale e della perdita di consenso tra i lavoratori e l’elettorato più in generale.

La necessità di un nuovo partito nasce dal riconoscere vero che nessuna delle realtà attualmente esistenti possa unificare tutte le opzioni in campo. Non serve a nulla fare delle sommatorie ma è necessaria una nuova sintesi.

Non credo che un ruolo unificante possa svolgerlo il PD. Non sono chiari in quel partito le caratterizzazioni identitarie. Fatto che ha portato alle diverse scissioni. Il cambio dei vertici a partire dal Segretario non è sufficiente a colmare il vuoto e le contraddizioni della proposta. Troppo sono sedimentate le abitudini, i caratteri, le culture, i contrasti anche personali.

Da dove partire? Innanzitutto da una condivisione della lettura della situazione internazionale. Grazie agli eventi seguiti allo sfaldamento del blocco sovietico e anche allo sviluppo della tecnologia digitale (il villaggio globale) una situazione nuova si è venuta a determinare nell’equilibrio tra le potenze. È saltato l’equilibrio nato a Yalta subito dopo il II conflitto mondiale. Soprattutto vanno evidenziate la crescita di Cina e India e dei paesi che per un periodo furono chiamati “non allineati”, oggi identificati come BRICS. Alcuni parlano dell’avvento del “secolo cinese”. Difatti va riconosciuta una perdita di egemonia dei paesi occidentali e degli USA in particolare. Fatto che induce a riconoscere la necessità di un mondo pluricentrico capace di coscientizzare che le problematiche vissute dal mondo non sono risolvibili con azioni unilaterali. Valgano ad esempio i problemi del cambiamento climatico, della transizione energetica ad esso connessa, dello sforzo necessario per risolvere problemi endemici come la fame e le malattie, specie quelle infettive, le migrazioni causate dagli squilibri. Un nuovo ordine mondiale necessita e non può venire se non attraverso un passo avanti in direzione di un superamento delle diseguaglianze. Un Europa più unita, coesa, autonoma ne è condizione necessaria. L’attuale conflitto Russia-Ucraina può essere letto come una conseguenza dell’avvenuto disequilibrio tra le potenze. Fermo restando la condanna all’invasione dell’Ucraina da parte russa, va ricercata la via per un cessate il fuoco e l’avvio di trattative tese alla pace.

È da considerare inammissibile che forze di sinistra votino in parlamento come le destre sui provvedimenti tesi all’aiuto all’ucraina, innanzitutto per la fornitura di armi.

Una forza di sinistra non può non considerare la NATO come strumento obsoleto ai fini di un equilibrio tra le potenze. Un ruolo di autonomia necessita da parte europea con la strutturazione di un esercito autonomo capace di imporre un suo punto di vista senza accondiscendenze passive agli USA o ad altre potenze.

Per quanto attiene alle politiche sociali una forza di sinistra non può che avere come riferimento le classi lavoratrici, i sui bisogni, rivendicazioni, volontà di riscatto, aspirazioni, speranze. I cambiamenti nella struttura del mondo economico, nei modi di produzione dovuto all’avvento del digitale ha sicuramente chiuso l’epoca dell’“operaismo” ma non quella dei conflitti sociali e del contrasto “capitale-lavoro”. Lo dicono il diffuso precariato anche di fasce sociali un tempo protette, l’alta disoccupazione giovanile, la perdita di potere salariale, la interruzione della mobilità sociale, il contrasto tra periferie e centri urbani, la solitudine degli anziani per citare solo alcuni delle contraddizioni in atto, più in generale l’acuirsi della forbice tra garantiti e non garantiti.

Una forza di sinistra non può che promuovere ogni azione tesa ad un allargamento e diffusione delle garanzie sociali, di maggiore e più diffuso benessere.

Prioritario deve essere considerata la protezione del potere di acquisto salariale. Ciò può avvenire per mezzo di automatismi come lo fu la scala mobile.

La proposta di stabilire un salario minimo per legge deve essere considerato un obbiettivo perseguibile insieme al rafforzamento della contrattazione nazionale.

L’ipotesi di una riduzione dell’orario di lavoro secondo la logica “lavorare meno, lavorare tutti” deve essere un obiettivo strategico prioritario. Così per l’abolizione del Jobs Act e delle forme di precariato.

La lotta alla disoccupazione soprattutto giovanile deve essere perseguita attraverso politiche di investimenti poderosi da parte pubblica in direzione dei settori cardini dell’economia: trasporti, scuola, formazione e ricerca, sanità, infrastrutture, abitazione, ecc.

Ciò può avvenire attraverso un riequilibrio della spesa privilegiando quella “fruttuosa” verso quella “infruttuosa” riducendo sprechi e investimenti in settori come gli armamenti, un maggiore controllo sugli esiti delle cantierizzazioni, unificazione dei centri di spesa.

Cardine di una politica di sinistra è la riforma del fisco, confermando e migliorando l’impianto progressivo, per mezzo di un taglio del cuneo fiscale soprattutto per la parte gravante sui lavoratori.

La crescita delle entrate deve fondarsi sull’aumento della base contributiva generata dagli investimenti e una efficace lotta alla evasione.

Prioritarie devono essere considerate “riforme di struttura” che mirino ad un rafforzamento del dominio pubblico su quello privato, specie nei settori strategici e sensibili: energia, comunicazione, infrastrutture, sanità, formazione e ricerca, trasporti, con la eliminazione del criterio dannoso che scarica le spese sul pubblico e i profitti sul privato. Si vedano a tale proposito la condizione di alcune realtà come l’Alitalia, la sanità in alcune regioni, il settore siderurgico, il settore delle telecomunicazioni, le autostrade.

Il miglioramento della efficienza dei servizi deve essere realizzato per mezzo di tecniche di controllo della qualità che coinvolgono sia gli operatori che l’utenza, non solo la dirigenza, con incentivazioni salariali degli operatori sulla base di criteri di soddisfazione dell’utenza e il raggiungimento di obiettivi definiti di eccellenza.

Sono questi solo alcune delle tematiche da affrontare. Non meno importanti sono i temi delle forme di partecipazione. Quale partito, con quale struttura organizzativa, nazionale e territoriale, come selezionare i gruppi dirigenti per impedire ingressi miranti al carrierismo o alla rappresentanza di interessi lobbistici o di categoria, all’autoreferenzialità?

Buona riflessione!

Donato Lamacchia

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L’opposizione governativa. di M. Zanier

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Il governo Meloni è il primo di centro-destra della storia repubblicana trainato da una donna certo, ma soprattutto da un partito di destra con ancora la fiamma tricolore nel simbolo. C’è stato, è vero, il governo Tambroni nel 1960 durato pochi mesi a maggioranza Dc con l’appoggio esterno del Msi e ci sono stati negli anni Novanta e Duemila i governi Berlusconi con nella maggioranza Alleanza Nazionale, in cui però Fini aveva fatto un percorso diverso dall’attuale premier, ed erano trainati da Forza Italia, che è un partito sostanzialmente padronale e dalla Lega, oltreché da spezzoni dell’ex Dc.

La maggioranza uscita dalle urne il 26 settembre scorso, che hanno visto la vittoria del centro destra e al suo interno l’affermazione di Fratelli d’Italia, il partito della destra guidato da Giorgia Meloni, in posizione nettamente preminente, è stato confermato dalle ultime elezioni regionali, in cui l’astensione è stata un dato drammatico.

Da cittadino italiano che si riconosce nei valori della Costituzione nata dalla Resistenza, sono naturalmente preoccupato della piega che ha preso la nostra democrazia rappresentativa e della mancanza di un’opposizione unita, realmente propositiva ed efficace. Questo però non mi impedisce di tenere gli occhi aperti ed osservare con interesse e una certa speranza l’incertezza dei primi passi del governo in carica.

Andiamo per gradi. Come sicuramente molti di noi ricordano, fin dall’inizio Silvio Berlusconi si è mostrato contrariato a dover affidare ad un’altra persona che non fosse lui la guida del governo di centro-destra e, aggiungo io, sicuramente lo disturbava il dover prendere ordini da una formazione di destra nata dopo Forza Italia e dopo i suoi governi di centro-destra, ma molto probabilmente anche dal fatto di essere comandato da una giovane donna. Come dimenticare gli appunti velenosi che rabbiosamente scriveva il fondatore del centro-destra a favore di telecamera in Parlamento mentre si stava formando la coalizione attuale?

Questo scoglio, che un politico più accorto avrebbe potuto superare con una certa diplomazia, ossia mettendoci per un momento nei panni della Meloni, mantenendo il punto politico del governo guidato da lei ma riconoscendo all’anziano Berlusconi ancora un ruolo di facciata nel nuovo governo, magari firmando l’accordo di coalizione ad Arcore e chiamandolo al telefono ogni tanto (come pare talvolta suggerire il suo fedelissimo Gasparri) si è dimostrato un ostacolo insuperabile che affiora spesso tra le onde in tempesta in cui naviga il governo.

Ma la saggezza non è la migliore alleata di Giorgia Meloni che nei confronti di Berlusconi ha preferito mostrare il pugno duro, umiliandolo prima nella firma dell’accordo di coalizione in via della Scrofa dove ha sede il suo partito, Fratelli d’Italia, facendo capire chi comanda ora nel centro-destra, ribadendo il concetto con l’affermazione a favore di telecamere : Non sono ricattabile! e sottolineando periodicamente che la sua coalizione è coesa e che vota compatta, indipendenteme3nte da ciò che afferma il presidente di Forza Italia, evidentemente a titolo personale.

E’ per questo, credo, che Berlusconi ha fatto ad urne regionali ancora aperte quella famosa dichiarazione contro Zelensky e l’intervento militare italiano al fianco dell’Ucraina, preparando l’amaro boccone che la Meloni ha dovuto mandare giù a Kiev, col presidente ucraino che dava di fatto dell’inaffidabile a lei ed alla sua maggioranza e metteva per la seconda volta in discussione il ruolo in Europa dell’attuale governo italiano ( la prima volta era stato dopo l’altolà di Sanremo provocato soprattutto dall’alleato Matteo Salvini) che è già in difficoltà di suo agli occhi del mondo per non essere più guidato da una personalità internazionalmente riconosciuta come Mario Draghi.

Insomma: la situazione è grave ma non è seria, come direbbe Ennio Flaiano, se guardiamo bene la maggioranza governativa. Questo fa ben sperare chi, come me, si auspica la fine in tempi ragionevoli di questo strano esperimento governativo che di fatto non ha un orizzonte naturale molto lontano nel tempo, dato che non sembra voler seguire la linea degli interessi personali e aziendali di quello che è ancora il padrone del Centro Destra, ossia Silvio Berlusconi, il quale non ci sta evidentemente a ricoprire un ruolo defilato nella coalizione e che è a capo di un partito personale ed aziendale che molto probabilmente non sopravviverà alla sua dipartita.

Nella Lega, d’altronde, la leadership di Matteo Salvini, il terzo incomodo della coalizione di governo, è molto più debole di un tempo e quel partito è destinato, secondo me, dopo di lui a diventare più moderato o a tornare ad una dimensione locale.

Sulle altre componenti non mi soffermo perché il loro peso nella coalizione è poco determinante.

Il lavoro politico di un’opposizione degna di questo nome, dunque, sarebbe facilitato in partenza. Il problema è che un fronte compatto e propositivo alternativo a questo strano governo, ancora non c’è. Perché da solo il Movimento 5 Stelle non può fare molto ed è difficile ancora capire come potrà agire il Partito Democratico che sta per concludere a giorni il suo lungo ed estenuante percorso alla ricerca di un o una nuovo o nuova Segretario. Sinistra Italiana e i Verdi sono cresciuti un po’ ma non rappresentano ancora una fetta importante dell’elettorato. Manca inoltre una vera forza di sinistra, che io amerei avesse in sé i germi del migliore pensiero socialista, in grado di contribuire alla definizione di un fronte compatto e nulla purtroppo me la fa intravedere in modo significativo.

Al momento non resta quindi che osservare, non senza una qualche soddisfazione, gli elementi che nel governo in carica remano contro Giorgia Meloni, perché se non esiste ancora un’opposizione efficace, esiste per fortuna un’opposizione governativa.

Marco Zanier

Campo largo? di D. Lamacchia

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Lo ammetto non ho seguito molto il congresso di Articolo Uno (a proposito dove si poteva seguire? Anche colpa dei media che lo hanno parecchio snobbato). Un paio di cose però le ho capite: Roberto Speranza è stato rieletto segretario e che il congresso ha accettato la proposta di Letta (PD) del cosiddetto “campo largo”. Poco cenno si è fatto ai contenuti della proposta politica venuta dal congresso. Probabile responsabilità dei media anche su questo. Comunque pare che tra le proposte ci sia una maggiore attenzione alle dinamiche salariali. Siano ben venute. Ciò che emerge con forza però è la proposta politica del “campo largo”. Una proposta che intende avvicinare se non proprio unire le forze “non di centrodestra” per fronteggiare al meglio la coalizione avversaria sempre più evidentemente a guida Fratelli d’Italia. Che si provi, in vista delle elezioni, a formulare proposte di aggregazione mi sembra abbastanza normale. Ciò che non mi convince sono i contenuti programmatici. Infatti non se ne parla. Mi viene allora da dire, va bene pensare ad un “bus” più grande per allargare il numero di partecipanti alla gita ma vorrei sapere anche chi è proposto alla guida, quel è la meta e qual è il percorso che si intende seguire. Per esempio cosa si pensa della proposta del Prof. Carlo Rovelli di inserire nei programmi finanziari una diminuzione annuale delle spese militari e di sostituirle con investimenti in attività di interesse pubblico? Alla sinistra servono parole, messaggi chiari che rendano credibili l’offerta politica. Servono uomini credibili. Non bisogna diventare “un po’ più di centro” per conquistare elettorato di centro. Uomini come Pisapia, Zedda, Vendola hanno dimostrato in passato di poter conquistare ampi strati di elettorato non di sinistra pur essendo chiaramente di sinistra. Cosa avevano di così “magico” se non la credibilità della loro persona e delle proposte? La mancanza di credibilità ha negli anni creato sfiducia. Prima conquistata dal populismo e ora dalla pratica dell’astensionismo e della rinuncia. Non serve un “campo largo”, serve un Partito Democratico di Sinistra che faccia del lavoro e delle libertà “nuove” (Jus soli, parità di genere, lotta alle discriminazioni di identità, ecc.) il suo “campo di battaglia” identitario. Al primo posto la Pace e un nuovo internazionalismo. L’internazionalismo dei popoli oppressi e non garantiti a cui i benefici dell’era digitale non arrivano. Quei popoli che alla democrazia arrivino attraverso la lotta per i diritti e non per “esportazione” della stessa. Non serve un nuovo partitino che tenta di sfruttare il “mercato aperto” dell’astensionismo come sembra stia facendo De Magistris, sull’onda del risultato elettorale francese. Non ci serve un Melenchon italiano, serve una forza politica radicata nella tradizione del lavoro e delle lotte per la sua nobilitazione e liberazione.

Così si esprime Il neo segretario generale Fiom Cgil, Michele De Palma,

“Il mondo degli operai è radicalmente cambiato rispetto a 50 anni fa, allontanandosi sempre più dalla sinistra. Come può essere recuperato?

Mettendo  al  centro  il  lavoro  e  ripartendo  dalle  persone, a cominciare dalle donne e dalle giovani generazioni,  che  per  vivere  devono  lavorare.  La crisi della democrazia che stiamo attraversando in maniera  così esplicita è causata dal fatto che i partiti, più che preoccuparsi della disaffezione degli elettori, guardano solamente a quante sono le percentuali di coloro che ancora votano. In questo periodo gli operai sono diffidenti, e lo sono giustamente, perché nel corso di questi anni  gli  si  è  chiesto  di  sacrificarsi  per  il  bene  del  Paese.  Loro  hanno  pagato  quei  sacrifici  e  questo  ha  significato  molto  spesso  non  salvare  né  loro  né  il  Paese che nel frattempo ha perso un asset fondamentale per sedersi fra i Paesi del G7, cioè l’industria. In questo  momento  i  metalmeccanici,  ma  anche  tutti  i  lavoratori, hanno fatto di necessità virtù perché sono stati lasciati soli. I partiti popolari usciti dalla Seconda guerra mondiale avevano i lavoratori come interlocutori e non solo le imprese. Oggi dobbiamo recuperare quel rapporto, tornando a discutere dei problemi veri dei cittadini e dei lavoratori.”

Il primo Maggio, questo, lo ricordiamo con forza!

Donato Lamacchia

Noi, vecchi Socialisti d’Italia. Costantino Lazzari al Congresso di Livorno del 1921

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Cari compagni

Esaminiamo la situazione intricata nella quale si trova oggi il PSI. Oggi una frazione ci viene a domandare, nell’interesse del partito, di dividere il partito nell’interesse del proletariato italiano.

Ma credete davvero che quando noi avremo allontanato i riformisti il nostro partito avrà acquistato una maggiore potenza rivoluzionaria? Io credo sia sufficiente per noi garantire la libertà di pensiero e la disciplina dell’azione. La necessità della scissione ci viene consigliata dai nostri compagni che lottano meravigliosamente per la rivoluzione nel loro Paese, la Russia, ma non è giusta e non è opportuna perché indebolirebbe noi e la lotta che dobbiamo fare.

Noi abbiamo visto con molta simpatia sui muri delle città i manifesti con il proletariato che spezza le catene gettandole nell’abisso del creato. E’ l’Ordine Nuovo. Quando mi sono ritrovato di fronte al gruppo dei compagni torinesi, pieni di sapienza di attività e di giovinezza, mi sono ricordato di quaranta anni fa quando abbiamo iniziato col Fascio operaio. Bene, benissimo fanno quei compagni. Ma nel loro comportamento c’è un difetto, ed è la deficienza nel sentimento della fraternità e dell’uguaglianza tra di noi.

Guardate cosa mi capita di leggere in questo giornale: ‘Il Partito comunista riunendo in sé la parte più avanzata e cosciente del proletariato…’ . Modestia a parte, constato la loro superba sicurezza. Noi non ci siamo mai considerato né più avanti né più coscienti degli altri, sapendo che tutti quanti dobbiamo riunire le nostre facoltà, i nostri diritti, la nostra buona volontà.

Oggi contro il nome del nostro Partito, contro questo nostro appellativo di socialisti viene opposta la qualifica di comunisti. Ma in Italia, ha ragione di esistere questa distinzione? Da noi non c’è una differenza tra comunismo e socialismo, noi siamo diventati socialisti educando la nostra anima con il Manifesto dei comunisti di Marx. L’obiettivo generale che tutti dobbiamo raggiungere è la civiltà socialista. Se in questa parola c’è l’espressione chiara e concreta del nostro scopo, perché dovremmo cambiare la nostra qualifica e diventare comunisti?

Questi comunisti che oggi per bocca del compagno bulgaro qui presente, sono venuti a consigliarci la scissione e la liquidazione dei riformisti, e non hanno ancora liquidato dal loro partito i massoni. L’Internazionale dice che, se vogliamo servire la causa della rivoluzione mondiale, dobbiamo spogliarci della giacchetta portata fino ad adesso, cambiare i connotati, cambiare passaporto e diventare comunisti. Io ho assistito tre volte al cambio del nome del nostro Partito, ma sempre semplicemente per la necessità di salvarci dalla reazione.

Nella storia di questi quarant’anni abbiamo distrutto una grande quantità di idoli e altari proprio per far sorgere questa bandiera del PSI. Da poveri, modesti proletari abbiamo creato in Italia un movimento col quale le classi dominanti devono fare i conti oggi e dovranno capitolare domani. Vi siete mai accorti di come sono belli, pedagogici i consigli di Mosca e Pietrogrado per diventare perfetti affiliati della Terza Internazionale? Belli, magnifici, ma non per i nostri contadini e per i nostri operai.

Noi, vecchi Socialisti d’Italia, non ci sentiamo né pigmei né giganti davanti agli uomini dell’Internazionale, perché sappiamo di avere un passato del quale rispondere e un dovere da compiere verso l’avvenire. L’unico bene indistruttibile che abbiamo a nostra disposizione è l’unità, con la quale possiamo portare alla Terza Internazionale una forza reale, sicura e devota.

Costantino Lazzari

Intervento al XVII Congresso del Partito Socialista Italiano di Livorno

Teatro Goldoni. Domenica, 16 gennaio 1921


Costantino Lazzari nacque a Cremona nel 1857, amico di Engels, compagno di Lenin e Trotszkij a Zimmerwald, fu tra i fondatori del Partito Operaio Italiano nel 1882 e del Partito Socialista Italiano dal 1892, ne fu Segretario per sette anni tra il dal 1912 al 1919, tranne che per due brevi periodi a causa del suo arresto per “disfattismo”. Allo scoppio della Prima guerra mondiale sostenne la posizione pacifista, decisa dalla stragrande maggioranza del PSI. Una volta proclamata l’entrata in guerra dell’Italia nel 1915, coniò lo slogan “né aderire, né sabotare”. Perseguitato dai fascisti, morì a Roma nel 1927 in estrema povertà e solitudine.

Preparare un’alternativa a questo Governo. di A. Angeli

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Alberto Angeli 2

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C’è del tragico, nella confusa strategia del Governo per il reperimento delle vitali risorse finanziarie con le quali affrontare l’emergenza e disegnare un orientamento, un orizzonte oltre il quale condurre il paese una volta superata questa difficile fase pandemica.  Aspettando Godot, cioè che Conte si svegli, La BCE, la Banca centrale europea,  il 12 marzo ha allargato di 120 miliardi di euro il suo piano di acquisti di titoli pubblici e privati tramite l’emissione di nuova moneta (il Quantitative easing, che era già in corso con l’obiettivo di comprare 240 miliardi di euro di titoli). Il 18 marzo, il piano di acquisti per il 2020, è stato rafforzato con un nuovo programma aggiuntivo da 750 miliardi. Il programma è stato anche reso più flessibile perché è stato slegato dall’obbligo di acquistare titoli di diversi Stati in proporzione alla loro presenza nel capitale della Bce: questo le ha permesso a marzo di acquistare 12 miliardi di titoli italiani e solo 2 miliardi di titoli tedeschi. Da qui alla fine dell’anno la Bce comprerà 220 miliardi di titoli italiani, tra Btp, obbligazioni private e altri titoli. Il fondo salva stati viene finanziato con 240 miliardi. Anche il MES è stato sdoganato per affrontare questa crisi pandemica, senza condizionalità per le spese sanitarie, ma respinto con sdegno da Conte e i 5Stelle. Da 4 anni le banche private possono ottenere denaro a tasso zero dalla Bce. Dal 12 marzo le regole patrimoniali sono state allentate per favorire l’aumento del credito.

Altri sostegni sono previsti a favore dei Prestiti concessi alle imprese da Bei e Comse, la Banca europea per gli investimenti, i cui azionisti sono tutti gli Stati dell’Unione europea, la quale ha proposto la creazione di un fondo da 25 miliardi che servirà a garantire prestiti alle imprese per 200 miliardi di euro. Stop al patto di stabilità dal 20 di marzo. Con questa decisione la Commissione europea ha deciso di applicare, per la prima volta nella sua storia, la “clausola di salvaguardia” prevista dall’articolo 107 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea. Utilizzo immediato dei fondi disponibili, per cui per l’Italia significa anticipare l’impiego dei 37 miliardi ancora disponibili nell’attuale bilancio 2014/2020 sul Fondo Europeo Sviluppo Regionale (FESR) e Fondo Sociale Europeo (FSE), che le regioni e alcuni ministeri dovranno spendere entro il 2023. Il 2 aprile la Commissione europea ha lanciato il programma SURE, un fondo europeo da 100 miliardi contro la disoccupazione. Il Fondo, attraverso 25 miliardi di garanzie volontarie degli Stati membri, proporzionate al loro Pil, permetterà di finanziare le “casse integrazioni” nazionali. Sempre la Commissione Europea raccoglierà risorse sui mercati emettendo un prototipo di Eurobond (con tripla A, quindi a tassi bassissimi), che saranno a disposizione dei Paesi che hanno bisogno di prestiti con scadenze a lungo termine, come il nostro paese. Oltre ai fondi strutturali e agli strumenti di debito la Commissione propone di ampliare l’ambito di applicazione del Fondo di solidarietà Ue (strumento di sostegno ai Paesi colpiti da calamità naturali), per aiutare gli Stati membri in questa circostanza eccezionale. La misura permetterà agli Stati membri colpiti più duramente di accedere a un sostegno supplementare per un importo che potrà toccare 800 milioni e che potrà essere ampliato.

La reazione di Conte, quasi imperturbabile e fredda: “Lotteremo fino alla fine per gli eurobond”. E sul Mes: “Non è adeguato, l’Italia non ne ha bisogno. Tanto per non mettere in difficoltà Di Maio. Per il resto del governo, silenzio.  Quindi, il governo si muove alla cieca, senza un piano e al buio. Cosi nessuno, proprio il nessuno omerico, sa quanti soldi serviranno per portare il paese fuori dalla crisi e quale sia il piano del Governo per fronteggiare l’emergenza e il piano di sviluppo per il dopo, nonostante l’inflazione delle commissioni speciali, costituite allo scopo di indagare sul sistema dell’universo infinito. Come l’asino di Buridano, Conte non sa scegliere e rischia di far morire il paese.  Non mancano certo le proposte, dalla patrimoniale estesa, partendo da una fascia di reddito di 80.000€, a quella di conteggiare il risparmio privato a diminuzione del debito pubblico che, secondo lo studio apparso sul Sole 24 Ore, consentirebbe di abbatterlo per il 25% della sua grandezza. O, ancora, rivolgersi ai risparmi privati depositati o in titoli, per un valore di circa di 1800 mld di euro, con l’emissione di un Btp ad hoc, denominato titolo salva Italia, per raccogliere poche decine di miliardi da rendere quando?, con quale interesse e per sostenere quale programma? Insomma, comunque si giri la frittata, è sempre al risparmio degli italiani verso cui  guarda e si orienta l’attenzione degli economisti sicuramene della scuola del pensatore Austriaco  Friedrich August von Hayek.  Altre strade sono possibili, ma non è questo il governo dal quale aspettarci una risposta all’altezza dei problemi e delle difficoltà. Spetterebbe al PD e alla sinistra riformista farsi carico di una proposta, un progetto, al quale legare l’emergenza e disegnare il dopo, dimostrando audacia, fierezza riformista sui temi e sulle politiche da sostenere e proporre all’Europa per il futuro dell’Italia, quale unica strada da seguire per indicare ai cittadini, ai lavoratori, ai giovani, una prospettiva credibile, coinvolgendoli nella preparazione, ciascuno secondo le sue capacità e le sue possibilità, perché sentano così di avere contribuito a renderla possibile.

Alberto Angeli

La Sinistra rimetta al centro il conflitto, il lavoro, la questione sociale. di P. P. Caserta

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Quanti hanno a cuore oggi la ricostruzione di una sinistra che sia terza e autonoma dovrebbero stare attenti a non finire nel tritacarne neoliberale del movimentismo post-ideologico.

È un rischio sempre incombente, lo abbiamo visto con il M5S, lo stiamo vedendo con le sardine (anche se tra i due movimenti ci sono sia assonanze che differenze) e lo vedremo, credo, ancora in forme nuove. Non si tratta di disprezzare nessuno, ma solo di capire che non si può pensare di affidare ai movimenti post-ideologici il lavoro che è nostro. Non solo questo, in realtà. Tra le braccia di questi movimenti sono finite e finiscono molte delle speranze dei delusi della sinistra. Bisogna, allora, trovare il modo di rendere chiaro che un vasto coinvolgimento di massa non rende un movimento popolare nello scopo. I movimenti post-ideologici, figli della ritirata e della disintermediazione della politica, sono elitisti nell’essenza. Non c’è bisogno di alcuna dietrologia per affermare questo, è più che sufficiente leggerne le premesse reali. Sono movimenti organici alla polarizzazione del dibattito ideologico da tempo in essere, che riduce l”alternativa” alla falsa scelta tra un blocco nazional-populista e uno elitista, in un gioco di specchi, di legittimazione reciproca, che deve escludere una politica popolare.

Si risponde decostruendo i movimenti ma si risponde, soprattutto, essendo sinistra oltre i nominalismi, tornando nei luoghi del conflitto, mettendo al centro il Lavoro e la questione sociale, lavorando, in connessione con le migliori realtà nella scena internazionale, alla costruzione di una sinistra né populista né elitista, ma popolare ed eco-socialista.

Il fatto che la sinistra debba tornare nei luoghi del conflitto non significa che debba tornare semplicemente nei vecchi luoghi. Occorre, invece, leggere i nuovi luoghi e le nuove forme del conflitto, che è sempre in primo luogo il conflitto tra Capitale e lavoro e le cui forme mutano nel tempo. In effetti, a me pare che l’errore qui sia stato duplice: a volte la sinistra ha abbandonato i luoghi del conflitto, persino il tema del conflitto. In altri casi è tornata nei vecchi luoghi del conflitto, ma non vi ha trovato quasi più nessuno, mentre altrove, nei luoghi nuovi, la sofferenza e il risentimento crescevano, e altri avanzavano per intercettarli, rappresentarli e canalizzarli.

Questi due errori corrispondono approssimativamente alla pseudo-sinistra neoliberista e alla sinistra vetero-comunista nelle sue forme più sclerotizzate. Anche per questo c’è bisogno del Socialismo, che ha la cultura di non irrigidirsi in formule interpretative definitive e chiuse della realtà sociale. 

Il conflitto si è spostato. Le nuove forme del conflitto non sostituiscono le vecchie, vi si aggiungono. Da questo non si può prescindere e occorre riprendere il filo.

Pier Paolo Caserta

“Conflitto di classe” e “lotta di classe”. di P. P. Caserta

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Pier Paolo Caserta

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A sinistra del PD, come è noto, c’è il vuoto. Ora, poiché il PD non è sinistra, ne dovrebbe conseguire, per via di sillogismo, che la sinistra è ridotta a vuoto, al Nulla.

La Sinistra è nichilista? Autolesionista?

In primissimo luogo, non c’è sinistra senza visione conflittualistica della società.

Se, almeno in Italia (anche altrove non mancano le difficoltà ma va un po’ meglio), da un punto di vista politico la sinistra è nulla, significa che non c’è nessuno o quasi capace di farsi interprete di  una visione conflittualistica, di far propria una visione conflittualistica in modo adeguato ai tempi.

Capita che qualcuno mi rimproveri, anche da sinistra, di parlare “ancora” di lotta di classe, sarei antico. Hanno ragione e hanno torto. In realtà penso si debba distinguere tra “conflitto di classe” e “lotta di classe”. Il conflitto di classe è nelle cose, è un dato, è nella società, c’è sempre, in ogni epoca, in forma specifica, e la nostra epoca non fa eccezione. La lotta di classe è, invece, il risultato della decisione consapevole di farsi carico del conflitto di classe, per affrontarlo. Perciò hanno ragione e hanno torto. Hanno torto perché il conflitto di classe esiste eccome, hanno ragione perché la lotta di classe è stata addormentata, deviata, con un’efficacia forse senza precedenti. La sinistra che non risponde su questo piano è una sinistra che si adatta, che si lascia incantare, sedurre, sviare, che si conforma e si annulla nel conformismo (compreso l’anti-salvinismo), che si assottiglia e si spegne mentre rincorre appena qualche sbiadito feticcio.

Pier Paolo Caserta

Riprendiamoci il partito, di M. Zanier

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Marco Foto

Se c’è un partito della sinistra che è stato realmente aperto ai movimenti sociali ed alle rivendicazioni dei lavoratori è il Partito socialista italiano. Si pensi all’apertura di Anna Kuliscioff verso le lotte delle donne, a Rodolfo Morandi che lavorò all’organizzazione clandestina degli operai durante il fascismo, a Pietro Nenni che sosteneva le legittime richieste dei contadini del dopoguerra, a Giacomo Mancini aperto al dialogo coi movimenti studenteschi degli anni ’60, a Michele Achilli che voleva un PSI che facesse sue alcune istanze del movimento degli anni ’70.

Il nostro partito è stato in origine la forma politica necessaria ad organizzare il primo movimento operaio ed artigiano nato alla metà dell’Ottocento dalle società di mutuo soccorso. E il socialismo è stato per tantissime persone per tutto il secolo scorso una speranza di cambiamento profondo della società. Quando parliamo di socialismo parliamo però di qualcosa di ancora più grande. E Vittorio Foa che affermava che una storia del socialismo è pensabile solo come storia globale dei problemi della classe operaia, cioè come storia della società e delle lotte toccava perciò secondo me un punto importante da cui ripartire.

C’è ancora molto bisogno di socialismo, lo diciamo sempre. Ma perché, ditemi, dovremmo avere un posto nello scenario politico italiano se non per proporre una strada davvero praticabile per trasformare profondamente gli equilibri sociali che oggi sono tutti sbilanciati verso alcune classi sociali ed i poteri forti? Se non per dare una speranza alle nuove generazioni che non avranno una pensione perché non hanno la certezza di un posto di lavoro stabile col quale costruirsi una famiglia, comprarsi una casa e poter fare dei figli? Ci stanno portando via il futuro e la speranza del cambiamento.

La politica attuale, compagni, è solo da condannare perché distrugge quotidianamente le poche certezze dei lavoratori che con grande fatica abbiamo contribuito a costruire nei veri governi di centro-sinistra, quelli degli anni ’60, quando la nostra guida si chiamava Pietro Nenni.

A noi fare delle riforme generiche non può e non deve bastare, perché, come diceva Filippo Turati al Congresso di Imola del PSI del 1902: “Tutti noi non vogliamo altre riforme se non quelle che si conquistano colla lotta di classe, che rinforzano il proletariato nella sua difesa di classe per i fini del socialismo. […] Il nostro non è riformismo, perché questa parola indica la ricerca filantropica della riforma per la riforma, non la riforma conquistata colla lotta di classe. […]. Cos’allora è il socialismo se non l’organizzazione in un partito delle lotte e delle aspirazioni delle classi sociali che vivono con estrema difficoltà, che non hanno mezzi di sussistenza ed hanno molta difficoltà ad immaginare un futuro per sé e per le generazioni a venire? Noi dobbiamo essere con loro, compagni, dobbiamo rinascere ma con un partito strutturato e fortemente orientato a sinistra, conseguente con le nostre radici per dare le risposte che gli altri non danno o non possono dare.

Per il nostro ideale sono stati incarcerati e uccisi nel dal fascismo e dai nazisti tanti compagni coraggiosi: penso a Giacomo Matteotti che disse Uccidete pure me ma l’idea che è in me non la ucciderete mai, a Carlo Rosselli per cui il socialismo era in primo luogo rivoluzione morale, e in secondo luogo trasformazione materiale, ma anche al padre delle Europa unita Eugenio Colorni ed al grande sindacalista Bruno Buozzi, solo per fare alcuni esempi. Per questo dobbiamo continuare orgogliosamente sulla nostra strada.

Eppure, se mi guardo intorno, da troppo tempo in campo socialista vedo emergere alcuni personaggi poco propensi rilanciare davvero il socialismo italiano, più interessati purtroppo a costruire deboli alleanze tattiche e preoccupati soprattutto di assicurarsi un seggio personale.

Ma il socialismo è un’altra cosa: è  l’orizzonte necessario, l’unico rimasto per le nuove generazioni, per i disoccupati, i pensionati al minimo, i precari e per chiunque chieda con forza un futuro migliore. Per questo il movimento che abbiamo costruito a marzo e chiamato orgogliosamente “Socialisti in movimento” va bene ma non basta, compagni.

La grande manifestazione del marzo scorso che ha dato vita ai “Socialisti in movimento” e questa nostra prima Assemblea nazionale se da un lato ci fanno capire quanto serva dare una forma fluida alle molte espressioni dei movimenti socialisti, dall’altre pone con urgenza di far confluire quanto prima queste nostre energie nella ricostruzione di un partito, il nostro: per contare, per far sentire la nostra voce, per tentare davvero di aprire la strada della trasformazione profonda e graduale della nostra società. Abbiamo bisogno del nostro simbolo, delle nostre tante sezioni sparse nella Penisola delle Federazioni, delle nostre feste, del nostro giornale storico e delle Fondazioni socialiste per costruire davvero una politica migliore.

Nencini ci ha fatto sparire dai sondaggi, ci ha appiattito su questo o quel segretario del PD, ha seguito i diktat di Monti, contribuito a distruggere lo Statuto dei Lavoratori, ad attaccare la Scuola pubblica, mettendo seriamente in pericolo la nostra Costituzione.

Il tempo delle incertezze è finito, compagni. Riprendiamoci il PSI, ce la possiamo fare.

 

Marco Zanier.

Appello ai socialisti che si tengono fuori dal Psi, di M. Molinari

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Maurizio Molinari

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Se vi è una critica che io, con molti altri, ho rivolto alla politica dell’attuale gruppo dirigente del PSI e’ quella di essere appiattiti sulla politica del PD e troppo ossequienti verso il loro segretario Renzi un segretario ormai inviso a troppi per supponenza , arroganza e superficialità ( chissà se andrà nelle zone terremotate a a parlare di casa Italia, sembrava cosa fatta).
Guardate pero’ che la frantumazione a sinistra del PD, non e’ meno arrogante , superficiale e antisocialista del PD,sono spezzoni di movimenti, ad essere gentili,che hanno come il PD tagliato i ponti con il loro passato, ripudiato la cornice culturale che ne tracciava i limiti ideali, nel contempo incapaci di creare un muovo progetto politico, rifugiandosi in un generico progressismo, invocando un centrosinistra, formula da noi creata nel lontano 1963, che ha finito la sua spinta rinnovatrice a fine anni 80, 30 anni fa.

Voi ora dite che volete influenzare, rendere piu’ riformista quella maionese impazzita che e’ la sinistra al PD, un progetto neanche tanto originale, visto che era lo stesso di quanti aderirono PD e si e’ visto come e’ finita. Mi dite, di grazia, che differenza esiste tra il cercare candidature nel PD e cercarle in Art.1 MDP e simili ?

Se unendo i vari circoli partitini e associazioni che si dicono socialisti (sono decine in Italia) ci si sente tanto forti da influenzare in senso socialista il Pd o altri soggetti di sinistra, tanto piu’ saremmo in grado di influenzare , dare nuovo slancio e un nuovo progetto politico al nostro partito, perche’ non rientrare e riiscriversi, se il partito in Sicilia e’ in mano a Vizzini e Oddo e ci possono non soddisfare nella loro conduzione, lottiamo nell’interno per cambiare, nulla potra’ cambiare se i compagni e le compagne critici verso la conduzione del partito saranno lasciati soli.
Questo non significa , non allearsi, non fare liste insieme ad altre forze ma con un confronto con pari dignita, dove deve essere preminente il carattere socialista, ben visibile la partecipazione del partito non di gruppi sparsi.

Non sta a me entrare nel merito delle scelte circa le prossime regionali io sono di Torino, ma l’ invito e l’appello che vi faccio e quello che facciate ogni sforzo possibile perche’ i socialisti siciliani affrontino unitariamente la prossima sfida elettorale, se ciò sarà possibile il socialismo avrà vinto, differentemente avremo perso tutti. Scusate , lungi da me il voler dare consigli o lezioni , ma volevo esprimervi , con franchezza, quella che e’ una mia grande preoccupazione, a 70 anni e 47 di militanza vorrei rivedere il mio partito a dibattere al suo interno, anche con asprezza, ma tornare unito a difendere i ceti deboli che da 125 anni e’ la sua missione, meditiamo compagne/i la sinistra o tornerà ad essere socialista o semplicemente non esisterà.

Maurizio Molinari

Riflessioni a sinistra sul Brancaccio, di R. Achilli

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achilli riccardo

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Quando Montanari dice “mai con il Pd e con il centrosinistra” è in buona fede. D’altra parte, dietro di lui c’è D’Alema, che non potrà più costruire alcun rapporto umano e politico con Renzi.

In verità, sono gli assetti politici del prossimo Parlamento ad escludere, per inutilità, SI/Lista Falcone-Montanari da qualsiasi schema coalizionale. Un Berlusconi che non potrà più fare alleanze con Salvini, che chiede lo scalpo della leadership di centrodestra, potrebbe mettersi insieme al Pd renziano ed alle fronde centriste alfaniane, perché questa è, numericamente, l’unica ipotesi di maggioranza parlamentare fra “sistemici” che possa essere costruita. In questo caso, Pisapia finirà nell’insignificanza, se l’operazione di ricucitura di Prodi e D’Alema non avesse successo, oppure, più probabilmente, si alleerà con questa larga coalizione, facendone la coscienza critica (di facciata). Risucchiando nuovamente tutta o parte di Mdp, e lasciando all’opposizione il resto della sinistra.

Ovviamente, nel caso ipotetico in cui M5S, Lega e Fratelli d’Italia riuscissero a fare una coalizione di antisistemici, a maggior ragione non ci sarebbe alcuna alleanza con il Pd, visto che tutti starebbero all’opposizione per conto loro.

Ma il punto vero è un altro. Il punto vero è sul programma e sulla capacità organizzativa di costruirlo ed imporlo. I temi dell’Europa, delle politiche economiche, della verticalizzazione oligarchica imposta alla politica, che la svuota di senso, tramite il progressivo stravolgimento delle istituzioni rappresentative, e la parallela verticalizzazione oligarchica in campo sociale, che allarga le diseguaglianze e, aumentando le barriere alla mobilità, le congela, sono i temi sui quali concentrare la proposta. Sono i temi che hanno consentito a Sanders, a Mélenchon ed a Corbyn di ottenere risultati straordinari, rimettendo in campo una proposta di politica economica e sociale di tipo socialista, tradizionale, pre-blairiana.

Sul secondo punto, occorre una struttura partitica robusta, fatta di classi dirigenti preparate culturalmente e di quadri intermedi, nazionali e territoriali, in grado di riportare verso l’alto la domanda sociale e costruire una sintesi. Non è concepibile affidare la costruzione della proposta ad una società civile devastata da oltre 25 anni di assenza politica, caduta di rappresentanza, perdita di coscienza di classe, atomizzata nell’individualismo metodologico del neoliberismo. La società va ricostruita, perché non esiste più., o per meglio dire, esiste ma non è in grado di darsi una autorappresentazione politica che non sia l’immaginario liberista.

Senza queste due cose, i discorsi sull’unificazione delle liste elettorali e sul posizionamento nell’arco parlamentare, Pd sì/Pd no, centrosinistra sì/centrosinistra no, non portano alcun consenso, sono letti come un farfugliamento autoreferenziale di apparati dirigenti alla ricerca di una sopravvivenza, non costruiscono politica. Non costruiscono nemmeno un popolo, dopo che l’entusiasmo per i 1.600 accalcati davanti al Brancaccio si esaurisce. Perché il popolo non si costruisce con gli eventi mediatici, ma con un paziente lavoro di ricostruzione di basi culturali e politico-programmatiche, e di luoghi fisici ed organizzativi dove far lievitare la passione.

E allora mi dispiace, ma nell’evento di ieri, non essendo ancora stato colto il punto vero della questione, non posso che leggere il tentativo di “fare qualcosa”, di fare movimento e quindi muovere un po’ di aria, nella speranza di far passare la nottata, di trovare un/una leader spendibile mediaticamente ed una aritmetica additiva in vista del 3%. Un grande stratega del calcio, che è un ruzzino per alcuni versi istruttivo, ovvero Liedholm, diceva sempre che la squadra vincente è quella che fa muovere il pallone più dei giocatori. Se si muovono i giocatori ma il pallone non viaggia, si gira a vuoto e si sprecano energie.

E siccome credo che D’Alema, il vero organizzatore dell’evento di ieri, non sia uno sciocco, ma anzi una intelligenza fine e perfida, da vent’anni impegnata a sterilizzare ogni energia di sinistra dentro schemi centristi e liberali, mi viene da pensare che l’ennesimo richiamo all’orizzontalismo civico e agli slogan buonisti non sia altro che un tentativo di rientrare in gioco (essendo lo spazio vicino al Pd precluso a D’Alema fintanto che Renzi sarà in vita) costruendosi una sinistra innocua e priva di capacità di esprimere una alternativa reale, di sistema.

Riccardo Achilli