Pace
La pace una priorità, se vogliamo salvare il mondo. di A. Angeli

Provate a scrivere per esteso la cifra: trecentomila miliardi di dollari, ( poco meno del 350% del PIL mondiale). A tanto ammontava il debito globale detenuto da famiglie, imprese, banche e governi alla fine del 2022. Un peso enorme, che già all’inizio di questo 2023 è andato aumentando a causa della guerra e che grava come un masso sulle spalle dei debitori, alle prese con il rialzo dei tassi di interesse resosi necessario per sconfiggere l’inflazione ( una sfida ben lontana dall’essere vinta ). C’è di che essere preoccupati: se un paese è inadempiente verso i suoi creditori è un grosso problema per i suoi cittadini, ma se sono molti paesi ad andare in default, è il mondo a precipitare nella crisi.
Se guardiamo agli anni ’80, il default in America Latina determinò l’iperinflazione, rivolte di popolo e instabilità in molti paesi: Argentina, Brasile, Perù. Oggi, 2023, il mondo si trova sull’orlo di un’altra crisi del debito e con oltre 56 guerre attive, di cui quella scatenata dalla Russia contro l’Ucraina deve considerarsi la più pericolosa, sia per la stabilità dell’ordine geopolitico mondiale sia per i riflessi economici e finanziari legati all’andamento dell’interscambio internazionale, su cui grava l’inflazione, la crisi energetica e la fornitura di materie prime e la conseguente crisi della containerizzazione. Una crisi nelle mani dei leader del mondo, gli unici che riunendosi potrebbero concordare e sostenere le necessarie misure per impedire una catastrofe, poiché si stanno manifestando i segnali della recessione in Germania e un default del bilancio americano, se non interverrà un accordo tra democratici e liberali. E questi leader dovrebbero utilizzare la cassetta degli attrezzi in cui sono stati risposti gli strumenti che contribuirono a superare la crisi del debito latinoamericano, specie la parte delle misure che indussero i creditori a condividere il dolore del rigore e ad accettare meno di quanto fosse il loro credito.
Molti paesi si erano esposti eccessivamente e avevano un debito insostenibile anche prima che il Covid 19 spargesse le sue spore nel mondo ( il debito Italiano a fine 2022 registrava un 150,3 % sul pil ). La pandemia ha aggravato questa situazione spingendo molti paesi a deliberare nuovi debiti per rimanere a galla e fare fronte al rallentamento del commercio internazionale. Poi la guerra in Ucraina, crisi energetica, prezzi alle stelle, inflazione, scarsità nei rifornimenti. Ora, l’aumento dei tassi di interesse ha notevolmente ampliato il costo del servizio di quel debito. Si stima che 56 paesi siano in difficoltà debitoria o a rischio, più del doppio rispetto al 2015. Una situazione pesante, che condiziona la struttura del bilancio, imponendo ai paesi indebitati di spendere una quota del bilancio nazionale a ridurre il debito e a pagare gli interessi su quello rimanente. E quando i paesi devono dedicare una parte rilevante delle entrate del governo al servizio del debito, si trovano con meno risorse per pagare le necessità di base come la formazione, i trasporti, la prevenzione e le cure sanitarie , l’energia, insomma i servizi necessari per il funzionamento di un’economia e per la cura dei propri cittadini. Né hanno abbastanza da investire per il futuro: nei sistemi sanitari per prepararsi alla prossima pandemia o nella transizione energetica verde. D’altro canto anche gli investitori stranieri, se avvertono rischi di perdere molto denaro su larga scala, adatteranno la loro condotta di investitori alla nuova situazione, con effetti imprevedibili sui mercati finanziari.
Agli inizi del 2023 ci sono stati alcuni progressi nelle riunioni del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale a Washington, una circostanza che ha messo a confronto tutti gli attori: banche multilaterali di sviluppo, istituzioni finanziarie private e di settore, prestatori sovrani ( con i big di Cina e USA), per trovare una soluzione su come accelerare la ristrutturazione del debito e superare i colli di bottiglia nel processo di rianamento. Questa nuova Tavola rotonda sul debito sovrano globale, guidata dal FMI, dalla Banca mondiale e dall’India, l’attuale presidente del Gruppo dei 20, ha raggiunto un accordo su alcune questioni, anche se molto che rimane irrisolto su come verrà effettuata la ristrutturazione.
Seguendo il detto: qualsiasi progresso è una buona notizia, o la speranza è l’ultima a morire, il mondo si attende novità su questo fronte, mentre indugia su quello che rappresenta l’incognita più pericolosa e la questione prioritaria : il fronte di guerra della Russia contro l’Ucraina. Allora, seguendo la logica, si può dire che il debito può attendere. Mentre la pace deve essere ora la priorità assoluta, e un’occasione per i paesi irretiti nelle maglie del debito di impegnarsi con più decisione per una tregua, prima fase del confronto per raggiungere la pace e definire il nuovo equilibrio globale che, realisticamente, dovrà sostituire il vecchio ordine già messo in discussione fin dal 2008 e poi nel 2014, con l’aggressione Russa alla Georgia e poi con l’occupazione della Crimea. Sono gli scontri geopolitici una delle ragioni principali per cui i negoziati sul debito sono impantanati. In questo processo di ridefinizione dell’ordine geopolitico globale, in cui includere il debito globale e la ricerca della pace, la presenza della Cina costituirebbe un segno di quanto le cose siano cambiate dagli anni ’90, quando la Cina era principalmente un mutuatario. Oggi è il più grande creditore bilaterale del mondo . In questo nuovo panorama, è molto più difficile raggiungere un accordo su chi dovrebbe essere rimborsato e su quale lunghezza temporale definire il rimborso. La Cina, che ha prestato circa 900 miliardi di dollari ai paesi in via di sviluppo negli ultimi 10 anni, principalmente per progetti infrastrutturali nell’ambito della sua Belt and Road Initiative, è stata riluttante a concedere la riduzione del debito, a meno che gli obbligazionisti commerciali e le banche multilaterali di sviluppo non adottino lo stesso criterio. Purtroppo, tutte le iniziative che la Cina ha intrapreso nello corso di questi ultimi anni, dalla emergenza virale, alla via della seta, dalla soluzione del debito alla ambigua proposta di pace sulla guerra scatenata dalla Russia con l’occupazione della Crimea, non segnalano nulla di confortante e di positivo. Certo, l’America, prima con Trump e oggi con Biden, ha al suo attivo rilevanti responsabilità, si potrebbe dire imperdonabili scelte politiche, che la Cina non poteva non interpretare come vere e proprie sfide, sia su Taiwan, che su il contenzioso sul commercio transfrontaliero dei chip e la guerra dei dazi.
I nostro globo è oggi avvolto da un immenso calore, e non è solo il prodomo di un collasso climatico, ma il segnale di un disastro politico globale che i leader dei paesi più importanti sembrano incapaci di gestire e affrontare con la dovuta intelligenza e lungimiranza. Bisognerebbe ricorrere all’imperativo categorico di Kant:” è il solo e unico principio a priori della ragione, che comanda alla volontà di essere buona in se stessa, cioè di agire prescindendo da qualunque inclinazione sensibile e da qualunque fine particolare, assumendo un punto di vista universale”
Alberto Angeli
La nuova Bad Godesberg della sinistra italiana? di D. Lamacchia

Bad Godesberg borgo di Bonn dove nel 1959 si tenne il congresso della SPD e dove la stessa decise di adottare un programma non più rivoluzionario ma più marcatamente socialdemocratico con apertura al riformismo, al mercato e alle classi medie.
Perché il richiamo a Bad Godesberg? Perché si sta assistendo in questi giorni ad uno stravolgimento della cultura politica di gran parte della sinistra storica italiana o di ciò che ne è rimasto dopo la fine del PCI. Molti sono i temi su cui ci si divide, dal ruolo del mercato, dell’ecologia, delle istituzioni, delle alleanze politiche, ecc.
Ciò che ha fatto emergere la guerra è che una divisione si è creata tra chi ha abbracciato convintamente una cultura “atlantista” e chi no.
Cosa si intende per ”atlantismo”? L’insieme delle visioni politiche ed economiche che sottostanno al “Patto atlantico”. Personalità che magari in gioventù hanno marciato per condannare convintamente l’intervento in Vietnam dell’America, hanno condannato il golpe fascista in Cile sostenuto dalla stessa America e i successivi interventi militari tesi ad “esportare democrazia”, ora si ritrovano affianco dell’America e della NATO ad approvare aiuti militari all’Ucraina in nome dei valori di democrazia e libertà per cui starebbero a battersi gli ucraini stessi contro “l’impero delle dittature” rappresentato da Putin. Senza entrare nel merito delle cause e concause della mai troppo condannabile invasione da parte dell’autocrate russo, qui si vuole analizzare il fenomeno “schieramento atlantista” di gran parte dell’opinione di sinistra italiana. Insomma questa sinistra ha sposato interamente il concetto secondo cui Putin avrebbe invaso l’Ucraina perché con l’ingresso in NATO della stessa, un pezzo importante del suo mondo si convertirebbe ai principi di libertà e di democrazia da lui avversati. A conferma di una contrapposizione tra “mondo libero” quello occidentale da una parte e “mondo delle oppressioni” dall’altro. Di qui la necessità di schierarsi senza esitazioni da parte della democrazia. Sebbene questa rappresentazione, per ragioni di spazio, è molto schematizzata, devo dire che ha il limite di tutte le semplificazioni. Non rappresenta tutta la verità e come tutte le semplificazioni nascono con lo scopo di giustificare pensieri e azioni. Ci sono differenza tra occidente e oriente? Certo! Ci si può divertire ad andare indietro al mondo greco-romano patria del pensiero critico classico e del diritto che ha forgiato tutta la cultura del mondo occidentale o all’illuminismo, alla cultura del liberalismo scaturita dalla rivoluzione francese, al positivismo e ancora alla rivoluzione democratico-borghese che ha visto l’occidente come protagonista. Mentre ad est veniva conservata una storia tutta basata sul principio di autorità che mai ha abbandonato una origine “tribale”, patriarcale fino all’epoca dei soviet e all’oligarchia odierna. Tutto oro ciò che luccica ad occidente? Assolutamente no. Al pensiero liberale e critico di Spinoza, Locke, Montesquieu, Kant si sono contrapposti i regimi autoritari dei monarchi e imperatori assolutisti e dei regimi nazi-fascisti di epoca contemporanea. Leggiamoci o rileggiamoci la sofferta vita di Karl Marx per esempio, uno tra tanti, costretto dai regimi autoritari a vagare tra un paese e l’altro d’Europa per sfuggire alla persecuzione. Come se una dicotomia si sia sempre attuata tra pensiero teoretico e azione politica. Che dire della cultura razzista e colonialista, di certa cultura oscurantista di stampo religioso diffusa per tutto il ‘900 fino ai giorni nostri? Ci si può liberare di tutto ciò con una scrollata di spalle? Non sono storia e memoria dell’occidente? Pur tuttavia la sinistra è chiamata a fare i conti con certa “memoria”. Dopo le esperienze da “socialismo realizzato” che soluzione dare al “conflitto” tra uguaglianza e libertà? Come rispondere al trasferimento di impresa da un paese più ricco con salari più alti ad uno con salari più bassi che genera sviluppo e benessere tra altri lavoratori? Come conciliare piena occupazione e salvaguardia ambientale? Come conciliare piena occupazione e sviluppo tecnologico? Come conciliare sicurezza sociale e debito pubblico? Come conciliare le migrazioni epocali con i principi di uguaglianza e solidarietà umana? Come si fa a convivere tra culture diverse in un mondo globalizzato quando gli scambi da un “mondo” a l’altro non sono più una scelta ma un dato di fatto ineludibile? Cosa produrre? Come produrre? Per chi produrre? Solo alcuni degli interrogativi pesanti a cui necessita dare risposta. La risposta a questi interrogativi rappresenta la sfida del pensiero egualitario. Sono forse le risposte chiuse nelle pieghe del pensiero “atlantista”? Non sono chiuse in quel modello il liberismo, il mercatismo, l’ordoliberalismo? Non sono questi modelli basati sul principio della competizione? Non richiede la competizione la definizione di un mondo “chiuso” da contrapporre ad un altro altrettanto chiuso. “Aperto” sì, ma solo al suo interno e chiuso verso l’esterno? Non diventa perciò questa competizione anche di tipo militare? La NATO non è funzionale a questo modello? Le sfide del mondo ineludibilmente globalizzato non richiedono invece la ricerca di modelli basati sul principio della cooperazione? Conosco l’obiezione, per cooperare bisogna essere in due almeno e quindi necessita che anche l’ ”altro” ne abbia volontà ma se questa volontà non c’è la chiusura è inevitabile. Vero! Ma ciò non ci esime dall’avere una visione che contrasta con questa prospettiva e dal lavorare perché si affermi una visione da “mondo aperto”. Come si esce da una situazione di transizione se non con uno sguardo verso il futuro e non con uno sguardo verso il passato? Non diventa così l’atlantismo un arnese obsoleto anzi addirittura pericoloso? Perché allora una parte della sinistra ha abbracciato l’atlantismo? Non posso che dire che l’abbia fatto per incapacità di saper guardare lontano per chiudersi in una zona di confort facile a portata di mano. Una volontà tesa a scrollarsi di dosso l’ultimo tabù e liberarsi di un peccato originale che fu l’aver condiviso il passato con il sovietismo ora incarnatosi inconsciamente in Putin. “Komunismo” ecco di cosa emendarsi. Liberiamoci pure della “K” ma non smarriamo una visione egualitaria per la soluzione dei problemi. Rileggiamo Gramsci e il suo rapporto con il liberalismo gobettiano, Ingrao. Ingrao ha speso tutta la sua vita a cercare di conciliare egualitarismo e libertà. Riprendiamo il suo pensiero per un nuovo governo unitario del mondo. Quando egli scriveva di queste cose era considerato, me compreso, troppo in avanti coi tempi. Ora siamo in quei tempi! Ci siamo con tutta la drammaticità di una guerra che rischia di diventare tragedia mondiale. Non ci si può nascondere dietro schemi sorpassati e inefficaci, serve la visione di una prospettiva “aperta” alla cooperazione, non di ”atlantismo”.
Donato Lamacchia
Il pacifismo e le guerre. di A. Benzoni
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Il pacifismo, come movimento politico organizzato, nasce, cent’anni dopo la rivoluzione francese e cent’anni prima della caduta del muro, al congresso di fondazione della Seconda internazionale. Suo nemico, il capitalismo, portato all’uso della violenza dalle sue contraddizioni interne ma soprattutto dalla necessità di contrastare, in ogni modo e ricorrendo a qualsiasi mezzo, il processo di emancipazione del proletariato. Suo fratello/coltello, l’interventismo democratico: comune l’intendimento di costruire un mondo migliore (che per quest’ultimo, si identifica con l’emancipazione dei popoli oppressi); opposti metodi da adottare che si identificano, nel secondo caso, con il ricorso alla guerra.
Tutti e due si collocano nell’ambito della sinistra e occasionalmente avranno modo di convergere (come nella seconda guerra mondiale). Come, nel corso del novecento, avranno modo di convergere i socialisti (per i quali la guerra è un male in sé) e gli altri fratelli/coltelli, i comunisti (per i quali le guerre sono giuste o ingiuste a seconda della natura delle forze in campo).
Ciò premesso i pacifisti, intendono battersi contro la guerra in tre modi: nei casi specifici impedendola e operando perché cessi al più presto; in linea generale e permanente, lottando per evitare processi, comportamenti o crisi politiche suscettibili di portare ad un conflitto aperto.
Questi i protagonisti; intorno a loro movimenti di opinione suscettibili di assumere un’identità e una forza propria; e il cui ruolo, in ultima istanza, risulta quasi sempre determinante. All’interno di un universo che ha come suo epicentro l’Occidente.
Questi i protagonisti che, dopo la caduta del muro, credono di essere arrivati al traguardo. Con metodi diversi. Ma con un orizzonte comune davanti a loro.
Trent’anni dopo i due fratelli/coltelli sono totalmente scomparsi dallo schermo. Gli interventisti democratici perché rei confessi di “pubblicità ingannevole” di progetti che con la democrazia e i diritti umani non avevano proprio nulla a che fare. I pacifisti perché incapaci non dico di intervenire ma di fare sentire la propria voce in un mondo percorso da guerre di ogni tipo e svolte con qualsiasi mezzo, nei confronti di tutti e in ogni angolo del globo; molte delle quali sull’orlo di degenerare e in modo catastrofico. Senza che nessuna, dico nessuna di questi sembri avviata a qualche tipo di componimento.
Mai come ora ci sarebbe bisogno di pacifismo e di pacifisti; ma mai come ora la loro assenza è stata così totale.
Perché? Il problema è cruciale; ma non è facile da risolvere. Né possiamo ricorrere a schemi ideologici nell’affrontarlo. Anche perché, in uno schema ideologico, ci si schiera con i buoni contro i cattivi; mentre, qui e oggi, latitano i primi mentre proliferano i secondi.
Inutile poi, per non dire fastidiosa, la solita lagna sulla “sinistra che non c’è più”. E ve lo dice uno che, su questo tema, ci sta inzuppando il pane; e da mesi. Basti dire, da ora in poi, che la sinistra sta ancora nel paese dei balocchi in cui è approdata decenni fa. Possibile, e magari anche probabile che il crescere dei pianti e delle urla la risveglino dal suo sonno beota. Ma ciò avverrà gradualmente; e non riesco francamente a vedere i suoi pallidi esponenti alla testa di un qualsiasi corteo.
Per l’intanto la protesta non ha bisogno di nessun imprimatur. Perché c’è e cresce in tutto il mondo. Ma, per diventare politicamente rilevante nella lotta contro le guerre, ha bisogno di due cose: istituzioni e/o centri decisionali cui fare riferimento; e soprattutto una sufficiente attenzione da parte della pubblica opinione. Mentre, qui e ora, non ha a propria disposizione né l’una né l’altra.
Qualche breve considerazione sul primo punto. Per sottolineare il fatto che nessuna, dico nessuna, delle grandi organizzazioni internazionale abbia espresso una sola opinione, o formulato una qualsiasi proposta, su una qualsiasi delle grandi crisi in atto. Mentre la principale di queste, l’Onu e il suo consiglio di sicurezza, ha addirittura rinunciato a riunirsi; se non altro per fare proprio l’innocuo appello di Guterres alla tregua dei combattimenti durante la pandemia.
Un fatto gravissimo, questo. E ancor più grave l’indifferenza totale che lo circonda. Due elementi che privano la protesta di una cassa di risonanza essenziale per la sua stessa esistenza in vita.
A limitare drasticamente la nostra capacità di ascolto concorrono invece una serie di fattori: alcuni ereditati dal passato; altri frutto dell’evoluzione in atto lungo questi anni; altri ancora, forse i più significativi, relativi alla radicale mutamento della natura e della portata della guerra nel momento presente.
Difficile così, in primo luogo, scendere in strada contro un pericolo di conflitto generale e devastante che abbiamo cancellato e per sempre dalle nostre menti dopo il 1989 e fino al punto di rifiutarsi di vedere i suoi molteplici segnali premonitori. E ancora, accettare il fatto, pur oggettivamente evidente, che l’America di Trump sia diventata il principale pericolo per l’ordine e per la pace mondiale, dopo essere giunti, tutti, a considerarla come il suo principale pilastro.
E, ancora, difficile guardare al mondo esterno come variabile indipendente del nostro destino dopo essersi rancorosamente ripiegati, tutti, all’interno dei nostri confini (con un provincialismo che nel nostro paese è giunto a livelli difficilmente superabili.
E, infine, e soprattutto, difficile capire che le strategie internazionali di oggi, in un mondo senza né ordine né regole, sono diventate “guerre condotte con altri mezzi”.
Non mancano certo, in questo sistema, i conflitti armati aperti. Ma si svolgono nelle periferie e per interposta persona. Mentre, ad occupare la scena sono le sanzioni, le guerre economiche, le interferenze reciproche talora eversive, i soprusi dei governanti nei confronti dei governati; le massime sofferenze per i popoli, il minimo rischio per chi le arreca. Il tutto in un contesto in cui non si danno soluzioni ai conflitti in corso ma, nel contempo, in cui i contendenti non vanno oltre certi limiti; perché superarli li sottoporrebbe a rischi inaccettabili.
Manca, dunque, in tutti questi drammi, l’incubo della “guerra che torna”; l’unico in grado di scuotere i cuori e le menti. Il che ci lascia liberi di condurre le guerre che ci coinvolgono direttamente, quelle contro il coronavirus e le sue possibili conseguenze.
Si aggiunga, a completare il quadro che le guerre, quelle in cui la gente muore non di stenti o di malattie ma perché colpita da un qualche ordigno, sono lontane da noi. E che a morire sono gli altri senza il minimo rischio personale o ricaduta psicologica per l’uccisore: perché a determinare l’esito fatale saranno bombe intelligenti o asettici droni.
Nulla, in tutto questo, suscettibile di muovere pulsioni pacifiste.
Pure la causa del pacifismo non finirà nella pattumiera della storia. Perché diventerà un elemento di una causa e di uno schieramento assai più ampi: quelli che separano i difensori di un ordine mondiale basata sulla solidarietà e quello che lo concepiscono come sbocco di una lotta di tutti contro tutti. Una partita, questa, appena cominciata; e tutta aperta.
Alberto Benzoni
L’articolo è tratto dal sito alganews.it al link: https://www.alganews.it/2020/05/03/il-pacifismo-e-le-guerre/?fbclid=IwAR2LC3yqtVwijbKfvfkKbF2rFN6kPHIR9VkntrrrLTew3xfkAV_2lYRjYXA
La logica della guerra. Il grande nulla nella guerra per la guerra. di G. Marigo
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La logica della guerra si nutre di dicotomie, contraddizioni ed assoluti categorici se così non fosse non potrebbe funzionare. Essa esige adepti e seguaci che non si pongano domande sulle altrui ragioni e che credano ciecamente di essere nel giusto (l’unico giusto possibile) e che sia loro dovere difendere le ragioni dell’una o dell’altra parte.
Scegliere fra Trump e Soleimani e fra il mondo che il Cow -boy incappucciato di bianco vede e quello che il generale islamico difendeva è sinceramente difficile ed anche per nulla interessante per me.
Entrambi sono colorati di colori cupi, grevi … a loro modo orrendi. Il Mondo migliore possibile che speriamo e nel quale crediamo è lontanissimo e diverso da tutti loro.
Eppure potremmo finire persino con il dover combattere per difendere l’uno dall’altro ed a dover credere che esista una vera una ragione per farlo. Salvo poi, quando la storia descriverà questo periodo, scoprire d’essere stati manipolati ed usati a pretesto per il Grande Nulla della guerra per la guerra, come è sempre stato prima dell’ultima … Usati per un risiko mortale ed inutile, per un aggiustamento di posizione al tavolo del potere assoluto. Per il petrolio o il coltan, oppure il rame e le terre rare, per l’uranio o l’acqua; oppure qualsiasi altra cosa stupida e materiale che sia servita a reale pretesto … ed anche questo sarà una scusa per mascherare le ragioni d’una follia assoluta fatta di competizione e di pura rivalsa di deformato senso del possesso, dell’assurda convinzioni d’essere padroni di qualsiasi cosa. Un orrendo risvolto della natura umana?
Prendere una parte significa accettare la logica folle e demenziale che le vede contrappost, che arricchisce solamente chi dallo scontro e dalla competizione riceve linfa e vigore, chi gestisce il potere reale di questo mondo. Chi mai rischierà di morire in questo teatro degli orrori.
Aprire gli occhi sulla realtà ci porterebbe a scoprire come, stranamente, i veri burattinai della competizione pranzino assieme, frequentino gli stessi luoghi, abbiano i medesimi status simbol, abbiano i medesimi interessi e prevedano di rifugiarsi nel medesimo bunker in caso di disastro epocale.
Scopriremmo come gli interessi che muovono questa commedia tragica siano del medesimo tipo da una parte e dall’altra, anzi come essi non abbiano parte alcuna.
Le guerre alla fine son tutte uguali non le vince davvero nessuno e non risolvono nulla, eppure ogni volta ci caschiamo quando una testa di legno, un uomo di cartone, un servo burattino del potere vero si prende la briga di giocare questo gioco stupido e criminale.
Stranamente è sempre il medesimo tipo d’uomo che interpreta la parte del macellaio si chiami Giulio Cesare, Napoleone, Mussolini, Hitler, Truman Churchill, Roosevelt, Khomeini, Khamenei, Netanyahu, Soulimani o Trump,con i loro servitori sciocchi e d estimatori e le loro nefande tifoserie schierate (I Salvini e le Meloni di casa nostra, ma non solo), mentre i mercanti di armi, i generali … i venditori di anime e gli inventori di crociate traggono tutti i vantaggi possibili dal momento, finalmente a loro favorevole … ammesso che ve ne sia uno che non lo sia.
E così ci stanno trascinando in una nuova follia, con la prospettiva che la prossima guerra si combatta nuovamente con clave e sassi, ammesso di sopravvivere a quella che si sta prospettando sempre più chiaramente e che forse non ha mai finito di covare sottotraccia sin dalla fine del secondo conflitto mondiale.
La scusa per accenderla ormai è innescata, da tempo. Così come da tempo è iniziato il giochino del “dar ragione” a Putin piuttosto che a Trump o Obama A Netanyahu piuttosto che a Khamenei o a Kim Jong-Un. Figli di differenti, ma uguali oligarchie … uomini di potere e tigri di carta dalle quali dovremmo piuttosto liberarci, ma che finiamo per incensare. Chi scrive non sta con nessuno di loro e crede solamente nella Pace … ma forse saremo davvero troppo pochi ad essere convinti di questo e quel che vogliono succeda, succederà comunque.
Giandiego Marigo
60° Trattato di Roma, di S. Valentini
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Vedo parecchia confusione nelle celebrazioni dei Trattati di Roma. Si confonde Unione Europea, Euro ed Europa.
L’Europa è una entità politica e culturale e geografica che va dagli Urali ai Pirenei, da Capo Nord a Pantelleria. La costruzione degli Stati Uniti d’Europa non può assolutamente prescindere da questo tratto distintivo. Lo sapeva bene Altiero Spinelli con il suo Manifesto di Ventotene e non a caso non era molto entusiasta di questa UE. Ma nessuno lo rammenta.
A proposito di Ue si dice che senza questa unione non ci sarebbero stati oltre 60 anni di pace nel vecchio continente. Grande bugia. La pace in Europa è stata garantita purtroppo dalla guerra fredda, con la divisione del Continente tra Patto Atlantico e Patto di Varsavia.
L’Ue di oggi non è la figlia dei Trattati di Roma, bensì del Trattato di Mastricht del 1992 firmato da 12 Paesi, tra cui l’Italia, da cui si partì per giungerte agli attuali 27 paesi.
Un trattato fortemente ispirato al liberalismo politico ed economico e alla supremazia del mercato. Altro che Repubblica fondata sul lavoro come recita la nostra Costituzione!
L’euro è stato adottato solo da alcuni paesi dell’Unione. La Ue ha due velocità nelle politiche monetariste quindi già esiste.
Nella costruzione dell’area dell’euro in questi anni non si è tenuto conto in modo sufficiente di realizzare politiche fiscali, sociali, ecc.
Quando si afferma che si vuole ristrutturare l’UE occore dire fino in fondo tutta la verità. L’UE ho rappresenta un passaggio per costruire gli Stati Uniti d’Europa, cioè un’Europa dei popoli o è destinata a divenire sempre più una delle principali centrali di potere del capitale finanziario nell’epoca della globalizzazione capitalistica.
In questo ambito si pone la questione sia del governo europeo, espressione di un parlamento che abbia poteri sostanziali che delle sorti dell’Alleanza Atlantica e della Nato. Un’Europa che non ha una sua totale autonomia politica e militare, che includa anche l’aspetto non secondario della sicurezza, non sarà mai un’entità unitaria sovrana.
Basta perciò con le ipocrisie di un europeismo che non pone al centro della sua attività la crescita e il benessere dei popoli europei.
Sandro Valentini
Brevi riflessioni su la proposta di Pisapia, di S. Valentini
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A me pare che Pisapia ponga una questione giusta ma si rivolge all’uomo sbagliato, a Renzi.
C’è la necessità di ricostruire un campo largo delle forze democratiche e progressiste alternativo a tutti gli altri schieramenti. Il centro sinistra deve marciare almeno su due gambe, e su questo sono d’accordo.
Ma la strategia neocentrista di Renzi va in questa direzione? Mi pare di no. Il progetto di Pisapia passa quindi solo se la strategia neocentrista del Pd, oggi dominante, sarà sconfitta. Attenzione, il renzismo non è solo Renzi, al di la delle sue varianti è una strategia che ha molti sostenitori. E’ la vocazione del maggioritario, su cui il Pd è nato, dunque è in continuità con il veltronismo.
Per un Pd che guardi a sinistra occorre sperare nella forza di persuasione di altre figure, anche tra loro molto diverse, come Bersani e la Bindi, che dicono cose molto giuste, quasi di “rifondazione” del Pd. Saranno in grado di spostare l’area dorotea di Franceschini verso tale progetto, insomma di dar vita a una nuova maggioranza dentro il Pd? L’operazione è possibile ma non certa. Questi dovrebbero essere gli interlocutori del progettodi Pisapia dentro il Pd.
Seconda interrogativo. Chi ricostruirà la gamba di sinistra di questo progetto?
Bersani? La Bindi, Cuperlo? A me pare che questi vedano solo come orizzonte il Pd, anche se Bersani mi pare molto attento affinché il partito tessa rapporti per costruire il campo largo. A meno di una iniziativa avventuristica (da non escludere di Renzi, ma Mattarella e Franceschini sono pronti a stopparla) non mi pare che la sinistra del Pd, nel suo insieme, sia proiettata ad abbandonare il Pd.
Infine, il dato più drammatico: la sinistra è divisa in tanti rivoli, non si muove unitariamente nella direzione che chiede Pisapia. Gli arroccamenti, le visioni identirarie, i piccoli interessi di bottega la spingono ancora una volta, nonostante il potenziale del bacino a due cifre offerto dal voto referendario sul No, sulle rive del minoritarismo. Occorre allora che si affermi nelle prossime settimane una leadership forte a sinistra, in grado di portare avanti il progetto di Pisapia e nel contempo favorire, dall’esterno, un ricollocamento del Pd sul versante che chiede Bersani. Per fare questo il ruolo di Pisapia è insufficiente. È importante ma troppo poco. Occorre altro!
E qui vado al punto. È necessario che scendano coraggiosamente in campo, come ha fatto Pisapia, altre figure, in particolare mi riferisco a De Magistris e a D’Alema con il sostengo in qualche misura riconoscibile della Cgil. Non è la mia una eresia o una burla da “scherzi a parte”. Se se vuole un nuovo soggetto politico della sinistra che incida, occorre unire e non dividere. Unire senza pregiudizi.
De Magistris è portatore di una visione fondamentale per la sinistra, una visione non politicistica. Egli è attento a tutto ciò che viene dai territori: le grandi lotte per la pace, il lavoro, i beni comuni e la tutela dell’ambiente. Insomma è portatore di una visione per cui la sinistra non è solo la sommatoria di ceti politici ma un movimento ampio capace di rappresentare i conflitti, di movimenti che partecipano da protagonisti al processo costituente di un nuovo e autonomo soggetto politico. Senza un robusto insediamento sociale non vi sarà mai un un uovo soggetto politico della sinistra convincente.
D’Alema, poiché in questa fase, come ha mostrato in tutta la campagna referendaria, è il dirigente più autorevole che la sinistra dispone; ha legami internazionali e rapporti forti con personalità del mondo della cultura.
Qualcuno prenderà l’iniziativa di porsi sulla strada proposta da Pisapia ma aggiustando il tiro?
Non ne ho idea ma so che bisognerebbe fare qualcosa e subito.
Alessandro Valentini
Attacco alla Costituzione, una lunga storia, di L. Canfora
L’attacco alla Costituzione partì già quasi all’indomani del suo varo. Il 2 agosto 1952 Guido Gonella, all’epoca segretario politico della Democrazia cristiana, chiedeva – in un pubblico comizio – di riformare la Costituzione italiana, entrata in vigore appena tre anni e mezzo prima, il 1 gennaio 1948. Si trattava di un discorso tenuto a Canazei, in Trentino, e la richiesta di riforma mirava – come egli si espresse – a «rafforzare l’autorità dello Stato», ad eliminare cioè quelle «disfunzioni della vita dello Stato che possono avere la loro radice nella stessa Costituzione». E concludeva, sprezzante: «la Costituzione non è il Corano!» (Il nuovo Corriere, Firenze, 3 agosto 1952).
Nello stesso intervento, il segretario della Dc, richiamandosi più volte a De Gasperi, chiedeva di modificare la legge elettorale, che – essendo proporzionale – dava all’opposizione (Pci e Psi) una notevole rappresentanza parlamentare. L’idea lanciata allora, in piena estate, era di costituire dei «collegi plurinominali», onde favorire i partiti che si presentassero alle elezioni politiche «apparentati» (Dc e alleati).
Come si vede, sin da allora l’attacco alla Costituzione e alla legge elettorale proporzionale (la sola che rispetti l’articolo 48 della Costituzione, che sancisce il «voto uguale») andavano di pari passo.
Pochi mesi dopo, alla ripresa dell’attività parlamentare fu posto in essere il progetto di legge elettorale (scritta da Scelba e dall’ex-fascista Tesauro, rettore a Napoli e ormai parlamentare democristiano) che è passata alla storia come «legge truffa». Imposta, contro l’ostruzionismo parlamentare, da un colpo di mano del presidente del senato Meuccio Ruini, quella legge fu bocciata dagli elettori, il cui voto (il 7 giugno 1953) non fece scattare il cospicuo «premio di maggioranza» previsto per i partiti «apparentati».
L’istanza di cambiare la Costituzione al fine di dare più potere all’esecutivo divenne poi, per molto tempo, la parola d’ordine della destra, interna ed esterna alla Dc, spalleggiata dal movimento per la «Nuova Repubblica» guidato da Randolfo Pacciardi (repubblicano poi espulso da Pri), postosi in pericolosa vicinanza – nonostante il suo passato antifascista – con i vari movimenti neofascisti, che una «nuova Repubblica» appunto domandavano.
La sconfitta della «legge truffa» alle elezioni del 1953 mise per molto tempo fuori gioco le spinte governative in direzione delle due riforme care alla destra: cambiare la Costituzione e cambiare in senso maggioritario la legge elettorale proporzionale. Che infatti resse per altri 40 anni. Quando, all’inizio degli anni Novanta, la sinistra, ansiosa di cancellare il proprio passato, capeggiò il movimento – ormai agevolmente vittorioso – volto ad instaurare una legge elettorale maggioritaria, il colpo principale alla Costituzione era ormai sferrato. Ammoniva allora, inascoltato, Raniero La Valle che cambiare legge elettorale abrogando il principio proporzionale significava già di per sé cambiare la Costituzione. (Basti pensare, del resto, che, con una rappresentanza parlamentare truccata grazie alle leggi maggioritarie, gli articoli della Costituzione che prevedono una maggioranza qualificata per decisioni cruciali perdono significato). Ma la speranza della nuova leadership di sinistra (affossatasi più tardi nella scelta suicida di assumere la generica veste di partito democratico) era di vincere le elezioni al tavolo da gioco. Oggi è il peggior governo che l’ex-sinistra sia stata capace di esprimere a varare, a tappe forzate e a colpi di voti di fiducia, entrambe le riforme: quella della legge elettorale, finalmente resa conforme ad un tavolo da poker, e quella della Costituzione.
Ma perché, e in che cosa, la Costituzione varata alla fine del 1947 dà fastidio? Si sa che la destra non l’ha mai deglutita, non solo per principi fondamentali (e in particolare per l’articolo 3) ma anche, e non meno, per quanto essa sancisce sulla prevalenza dell’«utilità sociale» rispetto al diritto di proprietà (agli articoli 41 e 42). Più spiccio di altri, Berlusconi parlava – al tempo suo – della nostra Costituzione come di tipo «sovietico»; il 19 agosto 2010 il Corriere della sera pubblicò un inedito dell’appena scomparso Cossiga in cui il presidente-gladiatore definiva la nostra costituzione come «la nostra Yalta». E sullo stesso giornale il 12 agosto 2003 il solerte Ostellino aveva richiesto la riforma dell’articolo 1 a causa dell’intollerabile – a suo avviso – definizione della Repubblica come «fondata sul lavoro». E dieci anni dopo (23 ottobre 2013) tornava alla carica (ma rimbeccato) chiedendo ancora una volta la modifica del nostro ordinamento: questa volta argomentando «che nella stesura della prima parte della Costituzione – quella sui diritti – ebbe un grande ruolo Palmiro Togliatti, l’uomo che avrebbe voluto fare dell’Italia una democrazia popolare sul modello dell’Urss». Di tali parole non è tanto rimarchevole l’incultura storico-giuridica quanto commovente è il pathos, sia pure mal riposto.
Dà fastidio il nesso che la Costituzione, in ogni sua parte, stabilisce tra libertà e giustizia. Dà fastidio – e lo lamentano a voce spiegata i cosiddetti «liberali puri» convinti che finalmente sia giunta la volta buona per il taglio col passato – che la nostra Costituzione sancisca oltre ai diritti politici i diritti sociali. Vorrebbero che questi ultimi venissero confinati nella legislazione ordinaria, onde potersene all’occorrenza sbarazzare a proprio piacimento, come è accaduto dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori.
La coniugazione di libertà e giustizia era già nei principi generali della Costituzione della prima Repubblica francese (1793): «La libertà ha la sua regola nella giustizia». Ed è stata poi presente nelle costituzioni – italiana, francese della IV Repubblica, tedesca – sorte dopo la fine del predominio fascista sull’Europa: fine sanguinosa, cui i movimenti di resistenza diedero un contributo che non solo giovò all’azione degli eserciti (alleati e sovietico) ma che connotò politicamente quella vittoria. Nel caso del nostro paese, è ben noto che l’azione politico-militare della Resistenza fu decisiva per impedire che – secondo l’auspicio ad esempio di Churchill – il dopofascismo si risolvesse nel mero ripristino dell’Italia prefascista magari serbando l’istituto monarchico.
La grande sfida fu, allora, di attuare un ordinamento, e preparare una prassi, che andassero oltre il fascismo: che cioè tenessero nel debito conto le istanze sociali che il fascismo, pur recependole, aveva però ingabbiato, d’intesa coi ceti proprietari, nel controllo autoritario dello Stato di polizia, e sterilizzato con l’addomesticamento dei sindacati. La sfida che ebbe il fulcro politico-militare nell’insurrezione dell’aprile ’45 e trovò forma sapiente e durevole nella Costituzione consisteva dunque – andando oltre il fascismo – nel coniugare rivoluzione sociale e democrazia politica. Perciò Calamandrei parlò, plaudendo, di «Costituzione eversiva» (1955), e perciò la vita contrastata di essa fu regolata dai variabili rapporti di forza della lunga «guerra fredda» oltre che dalle capacità soggettive dei protagonisti. C’è un abisso tra Palmiro Togliatti e il clan di Banca Etruria. Va da sé che l’estinguersi dei «socialismi» con la conseguente deriva in senso irrazionalistico-religioso delle periferie interne ed esterne all’Occidente illusoriamente vittorioso hanno travolto il quadro che s’è qui voluto sommariamente delineare. La carenza di statisti capaci e la autoflagellazione della fu sinistra non costituiscono certo il terreno più favorevole alla pur doverosa prosecuzione della lotta.
Luciano Canfora
articolo pubblicato sul quotidiano “il manifesto” e consultabile al link http://ilmanifesto.info/attacco-alla-costituzione-una-lunga-storia/
Serve una cultura di pace, oggi è minoritaria, di G. Viale
La guerra non è fatta solo di armi, eserciti, fronti, distruzione e morte. Comporta anche militarizzazione della società, sospensione dello stato di diritto, cambio radicale di abitudini, milioni di profughi, comparsa di “quinte colonne” e, viva iddio, migliaia di disertori e disfattisti, amici della pace. Quanto basta per capire che siamo già in mezzo a una guerra mondiale, anche se, come dice il papa, “a pezzi”.
Questa guerra, o quel suo “pezzo che si svolge intorno al Mediterraneo, è difficile da riconoscere per l’indeterminatezza dei fronti, in continuo movimento, ma soprattutto degli schieramenti. Se il nemico è il terrorismo islamista e soprattutto l’Isis, che ne è il coagulo, chi combatte l’Isis e chi lo sostiene? A combatterlo sono Iran, Russia e Assad, tutti ancora sotto sanzione o embargo da parte di USA e UE; poi i peshmerga curdi, che sono truppe irregolari, ma soprattutto le milizie del Rojava e il Pkk, che la Turchia di Erdogan vuole distruggere, e Hezbollah, messa al bando da USA e UE, insieme al Pkk, come organizzazioni terroristiche. A sostenere e armare l’Isis, anche ora che fingono di combatterlo (ma non lo fanno), ci sono Arabia Saudita, il maggiore alleato degli Usa in Medioriente, e Turchia, membro strategico della Nato. D’altronde, ad armare l’Isis al suo esordio sono stati proprio gli Stati uniti, come avevano fatto con i talebani in Afghanistan. E se la Libia sta per diventare una propaggine dello stato islamico, lo dobbiamo a Usa, Francia, Italia e altri, che l’hanno fatta a pezzi senza pensare al dopo. Così l’Europa si ritrova in mezzo a una guerra senza fronti definiti e comincia a pagarne conseguenze mai messe in conto.
La posta maggiore di questa guerra sono i profughi: quelli che hanno varcato i confini dell’Unione europea, ma soprattutto i dieci milioni che stazionano ai suoi bordi: in Turchia, Siria, Iran, Libano, Egitto, Libia e Tunisia; in parte in fuga dalla guerra in Siria, in parte cacciati dalle dittature e dal degrado ambientale che l’Occidente sta imponendo nei loro paesi di origine. Respingerli significa restituirli a coloro che li hanno fatti fuggire, rimetterli in loro balìa; costringerli ad accettare il fatto che non hanno altro posto al mondo in cui stare; usare i naufragi come mezzi di dissuasione.
Oppure, come si è cercato di fare al vertice euro-africano di Malta, allestire e finanziare campi di detenzione nei paesi di transito, in quel deserto senza legge che ne ha già inghiottiti più del Mediterraneo; insomma dimostrare che l’Europa è peggio di loro. Ma respingerli vuol dire soprattutto farne il principale punto di forza di un fronte che non comprende solo l’Isis, le sue “province” vassalle ormai presenti in larga parte dell’Africa e i suoi sostenitori più o meno occulti; include anche una moltitudine di cittadini europei o di migranti già residenti in Europa che condividono con quei profughi cultura, nazione, comunità e spesso lingua, tribù e famiglia di origine; e che di fronte al cinismo e alla ferocia dei governi europei vengono sospinti verso una radicalizzazione che, in mancanza di prospettive politiche, si manifesta in una “islamizzazione” feroce e fasulla.
Un processo che non si arresta certo respingendo alle frontiere i profughi, che per le vicende che li hanno segnati sono per forza di cose messaggeri di pace.
Troppa poca attenzione è stata dedicata invece alle tante stragi, spesso altrettanto gravi di quella di Parigi, che costellano quasi ogni giorno i teatri di guerra di Siria, Iraq, Afghanistan, Libia, Nigeria, Yemen, ma anche Libano o Turchia. Non solo a quelle causate da bombardamenti scellerati delle potenze occidentali, ma anche quelle perpetrate dall’Isis e dai suoi sostenitori, di Stato e non, le cui vittime non sono solo yazidi e cristiani, ma soprattutto musulmani. “Si ammazzano tra di loro” viene da pensare a molti, come spesso si fa anche con i delitti di mafia. Ma questo pensiero, come quella disattenzione, sono segni inequivocabili del disprezzo in cui, senza neanche accorgercene, teniamo un’intera componente dell’umanità.
E’ di fronte a quel disprezzo che si formano le “quinte colonne” di giovani, in gran parte nati, cresciuti e “convertiti” in Europa, che poi seminano il terrore nella metropoli a costo e in sprezzo delle proprie come delle altrui vite; e che lo faranno in futuro sempre di più, perché i flussi di profughi e le cause che li determinano (guerre, dittature, miseria e degrado ambientale) non sono destinati a fermarsi, quali che siano le misure adottate per trasformare l’Europa in una fortezza (e quelle adottate o prospettate sono grottesche, se non fossero soprattutto tragiche e criminali).
Coloro che invocano un’altra guerra dell’Europa in Siria, in Libia, e fin nel profondo dell’Africa, resuscitando le invettive di Oriana Fallaci, che speravamo sepolte, contro l’ignavia europea, non si rendono conto dei danni inflitti a quei paesi e a quelle moltitudini costrette a cercare una via di scampo tra noi; né dell’effetto moltiplicatore di una nuova guerra. Ma in realtà vogliono che a quella ferocia verso l’esterno ne corrisponda un’altra, di genere solo per ora differente, verso l’interno: militarizzazione e disciplinamento della vita quotidiana, legittimazione e istituzionalizzazione del razzismo, della discriminazione e dell’arbitrio, rafforzamento delle gerarchie sociali, dissoluzione di ogni forma di solidarietà tra gli oppressi. Non hanno imparato nulla da ciò che la storia tragica dell’Europa avrebbe dovuto insegnarci.
Una politica di accoglienza e di inclusione dei milioni di profughi diretti verso la “fortezza Europa”, dunque, non è solo questione di umanità, condizione comunque irrinunciabile per la comune sopravvivenza. E’ anche la via per ricostruire una vera cultura di pace, oggi resa minoritaria dal frastuono delle incitazioni alla guerra. Perché solo così si può promuovere diserzione e ripensamento anche tra le truppe di coloro che attentano alle nostre vite; e soprattutto ribellione tra la componente femminile delle loro compagini, che è la vera posta in gioco della loro guerra. Nei prossimi decenni i profughi saranno al centro sia del conflitto sociale e politico all’interno degli Stati membri dell’UE, sia del destino stesso dell’Unione, oggi divisa, come mai in passato, dato che ogni governo cerca di scaricare sugli altri il “peso” dell’accoglienza.
Eppure, fino alla crisi del 2008 l’UE assorbiva circa un milione di migranti ogni anno (e ne occorrerebbero ben 3 milioni all’anno per compensare il calo demografico). Ma perché, allora, l’arrivo di un milione di profughi è diventato improvvisamente una sciagura insostenibile? Perché da allora l’Europa ha messo in atto una politica di austerity, a lungo covata negli anni precedenti, finalizzata a smantellare tutti i presidi del lavoro e del sostegno sociale e a privatizzare a man bassa tutti i beni comuni e i servizi pubblici da cui il capitale si ripromette quei profitti che non riesce più a ricavare dalla produzione industriale. Ma quelle politiche, che non danno più né lavoro né redditi decenti a molti, né futuro a milioni di giovani, non possono certo concedere quelle stesse cose a profughi e migranti. Devono solo costringerli alla clandestinità, per pagarli pochissimo, ridurli in condizione servile, usarli come arma di ricatto verso i lavoratori europei per eroderne le conquiste.
Per combattere questa deriva occorrono non solo misure di accoglienza (canali umanitari per sottrarre i profughi ai rischi e allo sfruttamento degli “scafisti” di terra e di mare, e permessi di soggiorno incondizionati, che permettano di muoversi e lavorare in tutti i paesi dell’Unione); ma anche politiche di inclusione: insediamenti distribuiti per facilitare il contatto con le comunità locali, reti sociali di inserimento, accesso all’istruzione e ai sevizi, possibilità di organizzarsi per avere voce quando si decide il futuro dei loro paesi di origine. Ma soprattutto, lavoro: una cosa che un grande piano europeo di conversione ecologica diffusa, indispensabile per fare fronte ai cambiamenti climatici in corso e alternativo alle politiche di austerity, renderebbe comunque necessaria.
Ma per parlare di pace occorre che venga bloccata la vendita di armi di ogni tipo agli Stati da cui si riforniscono l’Isis e i suoi vassalli, che non le producono certo in proprio.
Guido Viale
Pubblicato su “Il manifesto” il 18/11/2015
http://ilmanifesto.info/serve-una-cultura-di-pace-oggi-e-minoritaria/