coscienza di classe

Ha un futuro la destra italiana? di M. Zanier

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Quando si guarda al Governo Meloni, spesso si è preoccupati del rischio di una lunga sterzata a destra della politica italiana e più di un osservatore ha gridato all’inizio di un nuovo Ventennio. Se è comprensibile la preoccupazione di molti per le politiche sociali e culturali di destra che possano ledere diritti fondamentali e non ascoltare le richieste provenienti dagli strati sociali più bassi, sulla longevità di questa maggioranza o sulla riproducibilità in futuro di questa coalizione di centro-destra nutro molte perplessità.

La coalizione che il 25 settembre 2022 ha vinto le elezioni politiche ottenendo il 44% dei voti con un’astensione che ha superato il 63% dei votanti, era costituita del 26% di Fratelli d’Italia, la Lega ferma al 9%, Forza Italia all’8% e Noi Moderati che non raggiungeva l’1%.

Se questo raggruppamento si chiama di Centro-Destra è per la presenza di Forza Italia e, in misura minore dei centristi di destra di Maurizio Lupi (che ha raccolto anche i voti democristiani dell’Udc di Lorenzo Cesa), che bilanciano in senso moderato i due partiti più schiettamente di Destra che sono Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni e la Lega di Matteo Salvini, che sono la maggioranza relativa e orientano questa coalizione in modo nuovo rispetto al passato. Ma queste sono cose note.

Quello su cui si riflette molto poco, secondo me, è che l’anello debole di questa maggioranza di governo è costituita dai moderati, ossia da Forza Italia soprattutto che è modellata da sempre sulla persona del suo leader, Silvio Berlusconi, che è nato nel 1936 e non può essere immortale e che non presuppone un vero ricambio generazionale al suo interno, nonostante si diano molto da fare Maurizio Gasparri, Antonio Tajani e il giovane Alessandro Cattaneo. Nessuno in quel partito, questa è una certezza, può prendere il posto per quell’elettorato di Berlusconi, che è il carismatico padrone del suo partito e che continua ad orientare molte testate giornalistiche oltreché il suo apparato di emittenti televisive. Quando lui non ci sarà più un giorno (gli auguro lontano), il suo partito sarà destinato a sciogliersi come neve al sole o a ridimensionarsi fortemente anche e soprattutto come immaginario popolare per quell’elettorato ed i suoi deputati, senatori e amministratori locali non potranno essere automaticamente “saltare il fosso” come hanno fatto alcuni di loro oggi entrando in Fratelli d’Italia, perché non è automatico che chi ha votato un partito moderato e padronale voti un partito postfascista come quello guidato da Giorgia Meloni. Non è così che funziona.

Senza l’8% di Forza Italia, i democristiani di destra che rendono presentabile questa coalizione di nostalgici, non si aggregheranno, credo, automaticamente al carrozzone di Giorgia Meloni e Salvini (anche lui mi pare insidiato all’interno della Lega da una nuova generazione di amministratori locali ambiziosi) e lei non potrà andare lontano, non avendo matematicamente i numeri per governare ancora. Quindi mettiamo da parte la paura di una lunga e salda coalizione di Destra-Centro. Questa perciò rischia di essere per la Meloni la prima e l’unica occasione di stare al governo del Paese.

Anche perché i moltissimi che l’hanno votata nel 2022, giocandosi così l’ultima carta, sperando cioè che l’unica persona che non era mai stata alle leve del comando, potesse dare loro delle risposte e delle soluzioni definitive, si renderanno presto conto che non potrà essere così. Perché è contro l’aumento dei salari più bassi, perché dovrà ancora proseguire le politiche sull’immigrazione impostate negli anni passati dato che lo chiedono gli industriali che hanno bisogno di manodopera strutturale, perché i suoi esponenti di spicco parlano con disprezzo dei giovani che percepiscono il reddito di cittadinanza mandandoli a zappare nei campi, senza tanti giri di parole e attaccano i diritti delle coppie omosessuali che in una certa misura hanno votato (incautamente direi) per il centro-destra.

Ovviamente lo sgretolamento a fine legislatura della coalizione guidata dalla Meloni non risolve al mio avviso il problema di una rappresentanza politica degna e responsabile.

Il fronte progressista che ha fatto un salto di qualità prima con la conferma di Giuseppe Conte a capo di un Movimento 5 Stelle ancorato ad una proposta progressista, poi con l’elezione di Elly Schlein al vertice del Partito Democratico che si pone in grande discontinuità col moderatismo di Enrico Letta e si collega alle richieste della CGIL da un lato, del popolo arcobaleno dall’altro e fa cartello sul salario minimo con le altre opposizioni. Ma non basta. Bisogna ripartire, secondo me, dai territori, dalla Scuola e dalla Salute pubblica, dalla difesa dell’ambiente, dai luoghi di lavoro, prendendo una posizione ferma nei confronti delle aziende che delocalizzano e licenziano operai ed impiegati da un giorno all’altro, in contesti spesso meno combattivi della realtà operaia della GKN che da qualche anno sta facendo scuola. C’è bisogno a sinistra di una visione del futuro, di un’idea di trasformazione graduale e profonda della società che a me piace chiamare ancora Socialismo.

Marco Zanier.

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“Ha da passa’ ‘a nuttata”. di R. Papa

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Chiedere a Meloni di essere antifascista un giorno e poi dimenticarsene negli altri 364.

E’ facile nel giorno delle Fosse Ardeatine rimproverare a Meloni di aver usato “italiani”, che tali erano

ma non tutti e poi mai dimenticarlo, erano italiani anche i fascisti che aiutarono i nazisti ad uccidere, e a non aver detto “antifascisti” che tali non erano tutti, perché in mezzo ai 335 ci finirono pure dei disgraziati che in carcere ci stavano per altri motivi.

E che forse morire per un ideale, per quanto giusto, non ne avevano proprio voglia.

Ma il problema per me non è questo.

Per me il problema di fondo è che la destra fascista o meno ha vinto le elezioni e che Meloni sta portando questo paese nel consesso di paesi conservatori e reazionari, sta mettendo in atto politiche antiumane dai migranti a Cospito, e ora togliere il reato di tortura , ci sta allontanando dai paesi europei per consegnarci al potere Nato e quindi americano, ma nello stesso tempo strizzare l’occhio alla Russia…non si sa mai!

Quelli erano tempi in cui una guerra civile spezzo’ l’Italia in due, ma anche un paese dove milioni di italiani cercavano solo di portare a casa la pagnotta. Non tutti furono eroi! Ci furono anche quelli che si misero alla finestra e per parafrase Eduardo:

“Come ci risaneremo? Come potremo ritornare quelli di una volta? Quando?’. Gennaro intuisce e risponde con il suo tono di pronta saggezza: ‘S’ha da aspettà, Ama’. Ha da passà ‘a nuttata’”.

Da allora sono passati settantotto anni e forse sarebbe il caso di consegnare quella storia agli storici e magari su quei libri far studiare i nostri giovani e non solo, che di fascismo e antifascismo o o o niente sanno ma spesso nemmeno vogliono sapere e impegnare le nostre passioni e quelle dei nostri giovani a problemi che riguardano il futuro non certo il passato. Due giorni fa ci eravamo tutti preoccupati della crisi idrica, su cui si combatteranno le prossime guerre…abbiamo una guerra nel giardino di caso e oggi gli americani hanno affermato che ci stiamo avviando verso la “guerra mondiale” e noi impegnano la nostra intelligenza politica su “questioni” di settantotto anni fa che stanno bene, per ricordarcene, nei libri di storia.

E’ proprio vero “ha da passa’ ‘a nuttata”.

Roberto Papa

La Comune di Parigi: una democrazia operaia. di A. Angeli

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Un dovere celebrare il 152° anniversario della Comune di Parigi, quando nacque il primo governo operaio che influenzò le idee di Karl Marx.

La Comune di Parigi rappresenta storicamente la prima esperienza rivoluzionaria che vide i lavoratori assumere brevemente il potere e dare corpo al primo governo operaio. La rivoluzione operaia nacque 152 anni fa nel mese di marzo, precisamente il 18-03-1871. Il movimento operaio governò la città per 72 giorni tra marzo e maggio 1871, con al centro la libertà e la democrazia. Karl Marx descrisse la Comune di Parigi come: “La prima rivoluzione in cui la classe operaia è stata apertamente riconosciuta come l’unica classe capace di iniziativa sociale, anche dalla gran parte della classe media parigina – negozianti, commercianti, mercanti – il ricco capitalista è il solo escluso”. Frederick Engels in seguito scrisse: “La Comune di Parigi è stata la dittatura del proletariato. La prima esperienza di liberazione dalla schiavitù della borghesia e del patriziato”.

La Comune nasce a seguito di una sconfitta militare francese. Tutto inizia nel 1870, quando scoppiò la guerra tra Francia e Prussia. Le forze francesi furono rapidamente distrutte all’inizio di ottobre 1870 e Parigi fu posta sotto assedio totale. I governanti francesi firmarono un armistizio con la Prussia alla fine del 1870. Il popolo considerò quell’accordo un tradimento, a cui si associarono quanti avevano cercato di difendere Parigi. In particolare l’affare fece infuriare la Guardia Nazionale, una forza che costituita prevalentemente dalle fasce più povere della popolazione.

I testi ci ricordano che il comitato centrale della Guardia Nazionale aveva collocato e approntato 400 cannoni in varie parti della città pronti per l’attacco. Al fine di coordinare e organizzarne il controllo, il capo del nuovo governo provvisorio, uscito dall’armistizio, Adolphe Thiers, ordinò il 18 marzo il sequestro dei cannoni. Questo scatenò una reazione da cui prese corpo la resistenza, che si preparò a fronteggiare l’esercito francese, che nel frattempo era riuscito a mettere al sicuro i cannoni, subito però fronteggiato e ostacolato da miglia di lavoratori che si convogliarono nei punti nevralgici per impedirne l’occultamento. Le donne, nella circostanza, svolsero un ruolo fondamentale nell’intimidire i soldati e alimentare le aspettative della resistenza. A Louise Michel, membro della Guardia Nazionale, fu affidato il ruolo di difendere le armi.

Subito si mosse dirigendosi verso la chiesa e suonò le campane per chiamare a raccolta la popolazione. Richiamò attorno a se oltre 200 donne, per affrontare il forte esercito formato da oltre 3.000 soldati. Questo segnò l’inizio della rivolta. Al proposito, Michel scrisse: “Siamo corsi al doppio suono delle campane, sapendo che c’era pronto ad attaccarci un esercito in formazione di battaglia. Ci aspettavamo di morire per la libertà. Tutto il genere femminile era al nostro fianco, non so come ma abbiamo vinto il primo scontro.»

Nel frattempo Thiers ordinò ai soldati di sparare contro la mobilitazione e disarmare gli operai. Ma i soldati rifiutarono, portando sezioni dell’esercito a unirsi ai parigini contro i generali. Due di questi furono assassinati dai loro soldati. Allora Thiers ordinò l’evacuazione di Parigi. Le donne durante la rivolta si comportarono come gli uomini e parteciparono attivamente alla costruzione delle barricate, brandirono le armi e si unirono a comitati. Molte di loro pretesero e ottennero un comando e si dimostrarono all’altezza del compito e spesso più coraggiose degli uomini. Con il loro esempio anticiparono quello che divenne poi il pensiero di Karl Marx. Infatti, Marx, sapeva che per raggiungere la liberazione le donne dovevano lottare per sé stesse. “È vero, forse, che alle donne piacciono le ribellioni contro il potere. Non siamo migliori noi uomini quanto al potere, ma il potere non ci ha ancora corrotti e noi guardiamo con interesse al ruolo delle donne ”.

Il 26 marzo i lavoratori si riunirono e deliberarono di eleggere un proprio consiglio che lavorasse nel proprio interesse per la sicurezza e la liberazione. Marx scrisse: “Il vecchio mondo si contorceva in convulsioni di rabbia alla vista della bandiera rossa”. Engels da parte sua aggiunse: «la Comune si servì di due espedienti infallibili. In primo luogo la creazione dei responsabili di tutti i posti di comando mediante le elezione. In secondo luogo, tutti i funzionari, indipendentemente dal grado, furono retribuiti come gli altri lavoratori, una parità di trattamento introdotta per prevenire il carrierismo”. A differenza dei parlamenti borghesi, infatti, tutti i membri degli organismi dirigenti furono eletti democraticamente con il voto dei lavoratori in rivolta. La Comune fece della Guardia Nazionale il principale corpo armato. Allo scopo fu introdotto un tetto salariale, fu deliberato di chiudere i banchi dei pegni e sospeso il debito dello Stato e sancita la separazione tra chiesa e stato, stabilendo la libertà delle religioni allora presenti nella Comune e la laicità dello stato. Fu abolito il lavoro minorile, concesse pensioni alle vedove/vedovi della guardia uccisa e fu stabilito il diritto dei dipendenti a rilevare un’attività.

l’internazionalismo venne assunto come visione del nuovo rapporto con gli altri popoli per la conquista della pace perpetua, impegnando la Comune a difendere l’autodeterminazione dei popoli, quale punto di riferimento della nuova politica verso gli altri Stati. Forte fu la spinta, da parte dei lavoratori, a combattere ogni proposito nazionalista rivendicato dagli ex leader della borghesia aristocratica e dalla nobiltà, poiché in contrasto con l’ideale della fratellanza universale che deve unire tutti i popoli e le razze, senza diversità alcuna sia culturale che di colore. “La bandiera della Comune è la bandiera della repubblica mondiale”, venne sancito dalla rivoluzione.

Tuttavia, una parte della classe aristocratico/borghese sopravvissuta alla rivoluzione, che manteneva ancora un controllo sulle grandi proprietà terriere, le attività commerciali e il controllo dei porti e delle dogane, manifestò la sua insoddisfazione e si dichiarò contraria alla leadership della Guardia Nazionale. Ma, il suo vero obiettivo era di impedire ai lavoratori la gestione amministrativa e politica della nuova realtà, conquistata con la rivoluzione. Infatti, superate le divergenze tra aristocrazia e borghesia, accantonate le differenze politiche nazionaliste preesistenti con i generali Prussiani, si unirono per mettere in atto la distruzione delle organizzazioni armate dei lavoratori parigini. Una reazione che Marx aveva purtroppo previsto. La Comune non poté raggiungere il suo obbiettivo del pieno potere statale poiché le forze che si organizzarono contro di essa si rivelarono troppo grandi e meglio organizzate. La prima reazione prese corpo il 21 maggio, allorché le forze statali fecero irruzione in città e massacrato le truppe rivoluzionarie e i civili della Guardia Nazionale. Dopo sette giorni di terribili scontri il 28 maggio la Comune fu soppressa dall’esercito, cui seguì una dura repressione, con oltre 30.000 morti durante i combattimenti o giustiziate direttamente una volta capitolare. I processi militari, che ne breve tempo vennero organizzati, coinvolsero ulteriori 40.000 ex combattenti o organizzatori della Comune, con conseguenti esecuzioni, lavori forzati o incarcerati con pene che prevedevano l’isolamento totale fino alla morte. Furono ripristinati i benefici a favore della borghesia, dei nobili e del clero reinsediando i privilegi del patriziato.

La Comune era stata schiacciata, sconfitta, cancellata. E tuttavia la breve esperienza della rivoluzione Comunarda offriva alla storia un esempio concreto di un nuovo modello di società democratica, egualitaria, rispettosa dei diritti e delle differenze di genere e per il superamento delle divisioni di classe sociale. La Comune è stata cruciale nel pensiero di Karl Marx, sia sull’importanza del concetto di classe che sul ruolo dello stato. La riflessione su quella rivoluzione gli ha permesso di approfondire e ampliare le sue idee. E quell’esperienza e le riflessioni elaborate da Marx sono ancora oggi una lezione storica, la quale, seguendo le sue parole, “sarà celebrata per sempre come il glorioso precursore di una nuova società e i suoi martiri saranno custoditi nel grande cuore della classe operaia”

Alberto Angeli

Il pesce senza testa. di R. Achilli

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Questo Paese non è riuscito, pur avendo avuto fasi molto promettenti, a consolidare una classe dirigente degna di questo nome.

Possiamo tirare in ballo fattori strutturali: l’assenza di una borghesia sufficientemente capitalizzata da potersi costituire come gruppo dirigente con afflato nazionale, rimanendo sostanzialmente una appendice semi parassitaria delle relazioni con la politica; il controllo criminale di rilevanti regioni del Sud, che ha finito per estendere i suoi tentacoli fino ai centri del potere politico ed economico, creando una selezione avversa ai vertici decisionali; una connaturata attitudine al clientelismo che fa parte del nostro bagaglio.

Essenzialmente non c’è più nemmeno quel simulacro di classe dirigente che pur nella bistrattata Prima Repubblica si era creata, perché il Paese è allo sfascio culturale e morale. Fedez e la Ferragni sono ormai gli intellettuali collettivi.

Ma anche perché non ce n’è bisogno. Frantz Fanon, quando analizzava i processi di decolonizzazione, puntava il dito sulla misera qualità dei gruppi dirigenti indigeni: essenzialmente valletti di poteri esterni, cooptati per fedeltà al padrone, dotati di una mentalità più commerciale che amministrativa, fondamentalmente dei trafficanti con una sovrastruttura retorica di esaltazione del comando esterno.

L’Italia di oggi è più o meno in questa situazione semi-coloniale. Nella sua scellerata esistenza, una sola cosa Draghi ha detto di condivisibile: un Paese con il 140% di debito pubblico e con una modesta capacità di crescita potenziale non ha nessuna sovranità. Le decisioni sono prese dai creditori o da coloro che temono l’esplosione di una bolla debitoria, che avrebbe ripercussioni globali, stanti le dimensioni assolute del nostro debito.

È chiaro quindi che non c’è classe dirigente perché le decisioni strategiche sono prese altrove. Non nei palazzi romani o nelle ormai fatiscenti palazzine del logoro potere sindacale o associativo. Ai nostri gruppi dirigenti vengono lasciate solo le decisioni di sotto-politica, un po’ come al cane viene lasciato l’osso, mentre il padrone si mangia la ciccia: le cadreghe, la piccola intermediazione localistica, l’affarismo e la corruttela di piccolo cabotaggio.

Nel migliore dei casi il dirittocivilismo innocuo, perché sganciato dai diritti sociali. Così come l’ambientalismo senza lotta di classe è giardinaggio, i diritti delle donne o del mondo Lgbt, senza aggancio dentro un movimento politico più ampio di rivendicazione di un maggior potere dentro i rapporti produttivi, si traducono in un miserrimo riconoscimento formale di diritti che la componente più benestante e che vive in un contesto di relazioni globalizzate ha già, e di cui la donna in povertà, o il gay in miseria, non sanno cosa farsene. È bello, per parafrasare Pino Daniele, “ascire pe le strade e gridare “so’ normale!”, ma se la pancia è vuota è una soddisfazione piuttosto sterile.

E così la classe dirigente viene sostituita da amministratori coloniali che vivono dentro circuiti corruttivi e nepotistici, oppure da squallidi pagliacci che prendono in giro, a turno, l’elettore medio, fintanto che il loro gioco viene scoperto e sono prontamente sostituiti da nuovi underdog più giovani, più trendy, con giacche più colorate, con promesse più abbaglianti.

Non c’è granché da dire, e nemmeno da scandalizzarsi. Questo Paese ha ciò che si è meritato.

Riccardo Achilli

Per un programma del Partito Unitario dei Lavoratori. di D. Lamacchia

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No, non esiste un Partito Unitario dei Lavoratori. Non ancora. Spero che al più presto possa avviarsi un processo che porti alla sua formazione o ad una forza simile. Un partito che abbia l’ambizione di unificare tutte le forze intellettuali ed organizzative che fanno riferimento al mondo del lavoro per dargli la prospettiva di una emancipazione, condizione unica per una emancipazione di tutta la società verso un modello di tipo socialista, democratico ed egualitario.

Dopo gli anni dallo scioglimento del PCI e delle vicende che hanno attraversato le realtà seguite a tale evento, PD, RC, SI, LEU, Art. Uno, ecc. e la catastrofe delle ultime elezioni è inevitabile pensare che se si vuole dare concretezza ad una prospettiva di crescita di una forza di sinistra in Italia si debba partire dal riconoscere che le divisioni sono la causa principale della sconfitta elettorale e della perdita di consenso tra i lavoratori e l’elettorato più in generale.

La necessità di un nuovo partito nasce dal riconoscere vero che nessuna delle realtà attualmente esistenti possa unificare tutte le opzioni in campo. Non serve a nulla fare delle sommatorie ma è necessaria una nuova sintesi.

Non credo che un ruolo unificante possa svolgerlo il PD. Non sono chiari in quel partito le caratterizzazioni identitarie. Fatto che ha portato alle diverse scissioni. Il cambio dei vertici a partire dal Segretario non è sufficiente a colmare il vuoto e le contraddizioni della proposta. Troppo sono sedimentate le abitudini, i caratteri, le culture, i contrasti anche personali.

Da dove partire? Innanzitutto da una condivisione della lettura della situazione internazionale. Grazie agli eventi seguiti allo sfaldamento del blocco sovietico e anche allo sviluppo della tecnologia digitale (il villaggio globale) una situazione nuova si è venuta a determinare nell’equilibrio tra le potenze. È saltato l’equilibrio nato a Yalta subito dopo il II conflitto mondiale. Soprattutto vanno evidenziate la crescita di Cina e India e dei paesi che per un periodo furono chiamati “non allineati”, oggi identificati come BRICS. Alcuni parlano dell’avvento del “secolo cinese”. Difatti va riconosciuta una perdita di egemonia dei paesi occidentali e degli USA in particolare. Fatto che induce a riconoscere la necessità di un mondo pluricentrico capace di coscientizzare che le problematiche vissute dal mondo non sono risolvibili con azioni unilaterali. Valgano ad esempio i problemi del cambiamento climatico, della transizione energetica ad esso connessa, dello sforzo necessario per risolvere problemi endemici come la fame e le malattie, specie quelle infettive, le migrazioni causate dagli squilibri. Un nuovo ordine mondiale necessita e non può venire se non attraverso un passo avanti in direzione di un superamento delle diseguaglianze. Un Europa più unita, coesa, autonoma ne è condizione necessaria. L’attuale conflitto Russia-Ucraina può essere letto come una conseguenza dell’avvenuto disequilibrio tra le potenze. Fermo restando la condanna all’invasione dell’Ucraina da parte russa, va ricercata la via per un cessate il fuoco e l’avvio di trattative tese alla pace.

È da considerare inammissibile che forze di sinistra votino in parlamento come le destre sui provvedimenti tesi all’aiuto all’ucraina, innanzitutto per la fornitura di armi.

Una forza di sinistra non può non considerare la NATO come strumento obsoleto ai fini di un equilibrio tra le potenze. Un ruolo di autonomia necessita da parte europea con la strutturazione di un esercito autonomo capace di imporre un suo punto di vista senza accondiscendenze passive agli USA o ad altre potenze.

Per quanto attiene alle politiche sociali una forza di sinistra non può che avere come riferimento le classi lavoratrici, i sui bisogni, rivendicazioni, volontà di riscatto, aspirazioni, speranze. I cambiamenti nella struttura del mondo economico, nei modi di produzione dovuto all’avvento del digitale ha sicuramente chiuso l’epoca dell’“operaismo” ma non quella dei conflitti sociali e del contrasto “capitale-lavoro”. Lo dicono il diffuso precariato anche di fasce sociali un tempo protette, l’alta disoccupazione giovanile, la perdita di potere salariale, la interruzione della mobilità sociale, il contrasto tra periferie e centri urbani, la solitudine degli anziani per citare solo alcuni delle contraddizioni in atto, più in generale l’acuirsi della forbice tra garantiti e non garantiti.

Una forza di sinistra non può che promuovere ogni azione tesa ad un allargamento e diffusione delle garanzie sociali, di maggiore e più diffuso benessere.

Prioritario deve essere considerata la protezione del potere di acquisto salariale. Ciò può avvenire per mezzo di automatismi come lo fu la scala mobile.

La proposta di stabilire un salario minimo per legge deve essere considerato un obbiettivo perseguibile insieme al rafforzamento della contrattazione nazionale.

L’ipotesi di una riduzione dell’orario di lavoro secondo la logica “lavorare meno, lavorare tutti” deve essere un obiettivo strategico prioritario. Così per l’abolizione del Jobs Act e delle forme di precariato.

La lotta alla disoccupazione soprattutto giovanile deve essere perseguita attraverso politiche di investimenti poderosi da parte pubblica in direzione dei settori cardini dell’economia: trasporti, scuola, formazione e ricerca, sanità, infrastrutture, abitazione, ecc.

Ciò può avvenire attraverso un riequilibrio della spesa privilegiando quella “fruttuosa” verso quella “infruttuosa” riducendo sprechi e investimenti in settori come gli armamenti, un maggiore controllo sugli esiti delle cantierizzazioni, unificazione dei centri di spesa.

Cardine di una politica di sinistra è la riforma del fisco, confermando e migliorando l’impianto progressivo, per mezzo di un taglio del cuneo fiscale soprattutto per la parte gravante sui lavoratori.

La crescita delle entrate deve fondarsi sull’aumento della base contributiva generata dagli investimenti e una efficace lotta alla evasione.

Prioritarie devono essere considerate “riforme di struttura” che mirino ad un rafforzamento del dominio pubblico su quello privato, specie nei settori strategici e sensibili: energia, comunicazione, infrastrutture, sanità, formazione e ricerca, trasporti, con la eliminazione del criterio dannoso che scarica le spese sul pubblico e i profitti sul privato. Si vedano a tale proposito la condizione di alcune realtà come l’Alitalia, la sanità in alcune regioni, il settore siderurgico, il settore delle telecomunicazioni, le autostrade.

Il miglioramento della efficienza dei servizi deve essere realizzato per mezzo di tecniche di controllo della qualità che coinvolgono sia gli operatori che l’utenza, non solo la dirigenza, con incentivazioni salariali degli operatori sulla base di criteri di soddisfazione dell’utenza e il raggiungimento di obiettivi definiti di eccellenza.

Sono questi solo alcune delle tematiche da affrontare. Non meno importanti sono i temi delle forme di partecipazione. Quale partito, con quale struttura organizzativa, nazionale e territoriale, come selezionare i gruppi dirigenti per impedire ingressi miranti al carrierismo o alla rappresentanza di interessi lobbistici o di categoria, all’autoreferenzialità?

Buona riflessione!

Donato Lamacchia

L’opposizione governativa. di M. Zanier

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Il governo Meloni è il primo di centro-destra della storia repubblicana trainato da una donna certo, ma soprattutto da un partito di destra con ancora la fiamma tricolore nel simbolo. C’è stato, è vero, il governo Tambroni nel 1960 durato pochi mesi a maggioranza Dc con l’appoggio esterno del Msi e ci sono stati negli anni Novanta e Duemila i governi Berlusconi con nella maggioranza Alleanza Nazionale, in cui però Fini aveva fatto un percorso diverso dall’attuale premier, ed erano trainati da Forza Italia, che è un partito sostanzialmente padronale e dalla Lega, oltreché da spezzoni dell’ex Dc.

La maggioranza uscita dalle urne il 26 settembre scorso, che hanno visto la vittoria del centro destra e al suo interno l’affermazione di Fratelli d’Italia, il partito della destra guidato da Giorgia Meloni, in posizione nettamente preminente, è stato confermato dalle ultime elezioni regionali, in cui l’astensione è stata un dato drammatico.

Da cittadino italiano che si riconosce nei valori della Costituzione nata dalla Resistenza, sono naturalmente preoccupato della piega che ha preso la nostra democrazia rappresentativa e della mancanza di un’opposizione unita, realmente propositiva ed efficace. Questo però non mi impedisce di tenere gli occhi aperti ed osservare con interesse e una certa speranza l’incertezza dei primi passi del governo in carica.

Andiamo per gradi. Come sicuramente molti di noi ricordano, fin dall’inizio Silvio Berlusconi si è mostrato contrariato a dover affidare ad un’altra persona che non fosse lui la guida del governo di centro-destra e, aggiungo io, sicuramente lo disturbava il dover prendere ordini da una formazione di destra nata dopo Forza Italia e dopo i suoi governi di centro-destra, ma molto probabilmente anche dal fatto di essere comandato da una giovane donna. Come dimenticare gli appunti velenosi che rabbiosamente scriveva il fondatore del centro-destra a favore di telecamera in Parlamento mentre si stava formando la coalizione attuale?

Questo scoglio, che un politico più accorto avrebbe potuto superare con una certa diplomazia, ossia mettendoci per un momento nei panni della Meloni, mantenendo il punto politico del governo guidato da lei ma riconoscendo all’anziano Berlusconi ancora un ruolo di facciata nel nuovo governo, magari firmando l’accordo di coalizione ad Arcore e chiamandolo al telefono ogni tanto (come pare talvolta suggerire il suo fedelissimo Gasparri) si è dimostrato un ostacolo insuperabile che affiora spesso tra le onde in tempesta in cui naviga il governo.

Ma la saggezza non è la migliore alleata di Giorgia Meloni che nei confronti di Berlusconi ha preferito mostrare il pugno duro, umiliandolo prima nella firma dell’accordo di coalizione in via della Scrofa dove ha sede il suo partito, Fratelli d’Italia, facendo capire chi comanda ora nel centro-destra, ribadendo il concetto con l’affermazione a favore di telecamere : Non sono ricattabile! e sottolineando periodicamente che la sua coalizione è coesa e che vota compatta, indipendenteme3nte da ciò che afferma il presidente di Forza Italia, evidentemente a titolo personale.

E’ per questo, credo, che Berlusconi ha fatto ad urne regionali ancora aperte quella famosa dichiarazione contro Zelensky e l’intervento militare italiano al fianco dell’Ucraina, preparando l’amaro boccone che la Meloni ha dovuto mandare giù a Kiev, col presidente ucraino che dava di fatto dell’inaffidabile a lei ed alla sua maggioranza e metteva per la seconda volta in discussione il ruolo in Europa dell’attuale governo italiano ( la prima volta era stato dopo l’altolà di Sanremo provocato soprattutto dall’alleato Matteo Salvini) che è già in difficoltà di suo agli occhi del mondo per non essere più guidato da una personalità internazionalmente riconosciuta come Mario Draghi.

Insomma: la situazione è grave ma non è seria, come direbbe Ennio Flaiano, se guardiamo bene la maggioranza governativa. Questo fa ben sperare chi, come me, si auspica la fine in tempi ragionevoli di questo strano esperimento governativo che di fatto non ha un orizzonte naturale molto lontano nel tempo, dato che non sembra voler seguire la linea degli interessi personali e aziendali di quello che è ancora il padrone del Centro Destra, ossia Silvio Berlusconi, il quale non ci sta evidentemente a ricoprire un ruolo defilato nella coalizione e che è a capo di un partito personale ed aziendale che molto probabilmente non sopravviverà alla sua dipartita.

Nella Lega, d’altronde, la leadership di Matteo Salvini, il terzo incomodo della coalizione di governo, è molto più debole di un tempo e quel partito è destinato, secondo me, dopo di lui a diventare più moderato o a tornare ad una dimensione locale.

Sulle altre componenti non mi soffermo perché il loro peso nella coalizione è poco determinante.

Il lavoro politico di un’opposizione degna di questo nome, dunque, sarebbe facilitato in partenza. Il problema è che un fronte compatto e propositivo alternativo a questo strano governo, ancora non c’è. Perché da solo il Movimento 5 Stelle non può fare molto ed è difficile ancora capire come potrà agire il Partito Democratico che sta per concludere a giorni il suo lungo ed estenuante percorso alla ricerca di un o una nuovo o nuova Segretario. Sinistra Italiana e i Verdi sono cresciuti un po’ ma non rappresentano ancora una fetta importante dell’elettorato. Manca inoltre una vera forza di sinistra, che io amerei avesse in sé i germi del migliore pensiero socialista, in grado di contribuire alla definizione di un fronte compatto e nulla purtroppo me la fa intravedere in modo significativo.

Al momento non resta quindi che osservare, non senza una qualche soddisfazione, gli elementi che nel governo in carica remano contro Giorgia Meloni, perché se non esiste ancora un’opposizione efficace, esiste per fortuna un’opposizione governativa.

Marco Zanier

A Salvini il premio Attila dei diritti sociali. di M. Pasquini

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Ieri la question time del ministro Salvini, alla Camera, ha reso evidente anche ai ciechi quanto il governo stia preparando e attuando una strategia di affossamento del diritto alla casa relegandolo.a single, forze dell’ordine, padri separati.e studenti (ovviamente ricchi e meritevoli).

Mai Salvini, in diretta tv, ha citato gli sfrattati (40.000 sentenze l’anno), mai ha citato le famiglie nelle graduatorie (oltre 600.000) mai ha citato le 889.000 famiglie in povertà assoluta in affitto.

Salvini ieri ha detto che NON intende rifinanziare il fondo contributo.affitto e morosità incolpevole destinando le 350.000 famiglie richiedenti al baratro dello sfratto.

Ha parlato, ieri, il Salvini di un piano casa di legislatura ma che è un imbroglio, non saranno case popolari e di fatto tra le righe si legge che regaleremo immobili ai privati per fare molto housing e poco social. Insomma ieri si è acclarato come il governo non percepisca o non intenda percepire la vera condizione abitativa in Italia.

Ma ieri Salvini ha anche detto che chiama il Parlamento a collaborare ebbene io credo che il Parlamento dovrebbe accettare la sfida avviando una indagine conoscitiva sulla condizione abitativa in italia, per poi con mozioni programnatiche indicare al governo che piano casa serve al Paese.

Che sia il parlamento a dare le indicazioni al governo su come realizzare un vero piano casa basato sul fabbisogno reale in tutte le sue articolazioni e non sul fabbisogno di costruttori e lobby economiche del mattone.

Segnalo come ieri si sia reso evidente l’assordante silenzio di Comuni e Regioni che non si rendono conto come il colpevole abbandono di politiche abitative pubbliche, che ha portato ad avere meno case popolari e oggi il venire meno di contributi affitto li metta nell’occhio del ciclone sociale che sta per abbattersi su di loro.

Infine, davvero, non è il momento delle autosufficienze, dei distinguo.

O siamo in grado di far si che un vasto fronte dai sindacati ai sindacati inquilini, dal terzo settore all’associazionismo cattolico, dalle università agli urbanisti, coglie la gravità della situazione sociale oppure mettiamoci da parte e assistiamo alla tabula rasa che il governo vuole fare dei poveri

Massimo Pasquini

Onore a Giorgio Ruffolo. di G. Giudice

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Ho appena appreso della scomparsa del carissimo compagno Giorgio Ruffolo.

Storico rappresentante della cultura politica socialista. So che era malato da tempo. Era nato nel 1926.

In Lucania abbiamo avuto l’onore di avere Giorgio come deputato. Ci fermavamo a parlare spesso: Lui ci rammentava della sua forte amicizia con Federico Caffè, che considerava il suo vero maestro. E spesso lo accompagnava a Cambridge, patria degli economisti post-keynesiani come la Robinson e Piero Sraffa. E del suo forte legame con il nostro Paolo Sylos Labini. Giorgio, in giovantù era stato Trotzkista, come Rino Formica. Iscritto al PSI fin dal 1944, come tutti i giovani di ispirazione trotzkista , aderì al PSLI di Saragat, tranne uscirne nel 1950. E rientando nel PSI nel 1958 , dopo la svolta autonomista. Superò il trotzkismo e si avvicinò ad Antonio Giolitti. Grande sostenitore della politica di programmazione economica, fu economista all’OCSE, coordinatore del Centro Studi dell’ENI di Mattei. Poi , per lunghi anni Segretario della Programmazione Economica. Un economista non accademico, che però valeva molto di più di molti economisti accademici.

Il suo approccio all’economia era di carattere sistemico. Intendeva l’economia non come un sistema chiuso, ma aperto ad altre discipline , come la sociologia, l’antropologia, l’ecologia. Aveva una cultura enciclopedica. Profondo conoscitore di Marx , come di Keynes e di Schumpeter. Ammiratore di Karl Polanyi. Fu un critico radicale del neoliberismo. Nel suo gran bel libro “La Qualità sociale” fa conoscere a fondo le teorie neoliberiste e monetariste di Milton Fridman e della Scuola di Chicago. Come quella dei teorici del privatismo economico e delle “politiche dell’offerta” . A cui mosse un attacco formidabile proprie sulle loro radici epistemologiche.

Si definiva un “socialista liberale”, ma, precisava , non nel senso di Tony Blair, ma in quello autentico di Carlo Rosseli. Coordinatore del “Progetto Socialista ” del 1977 (opera ben più consistente e corposa del “Vangelo Socialista di Pellicani (verso il quale non mancò di profondere critiche) …..fu un critico di Craxi, non un suo antagonista. Diceva che bisogna sempre distinguere tra Craxi ed il craxismo. Nondimeno , pur essendo un profondo sostenitore dell’autonomia socialista, rifiutò il “bonapartismo” di Craxi e la sua gestione del partito.

Severo critico del togliattismo non fu però mai anticomunista. Ebbe ottimi rapporti con uomini del calibro di Gerardo Chiaromonte. Insieme a Luciano Gallino (anch’egli socialista) fu il primo a mettere in evidenza la forte tendenza alla finanziarizzazione dell’economia capitalista nella globalizzazione neoliberista. Fu un europeista convinto, ma anche un profondo critico della deriva che la UE stava prendendo, fino a sostenere l’idea della doppia circolazione monetaria (comE Gallino) nel suo ultimo libro “Il film della crisi” scritto con il caro amico e compagno Stefano Sylos Labini, figlio di Paolo. Ci sarebbe tanto altro da dire su Giorgio.

Condivisi con lui l’esperienza della Fed Laburista, e la entrata nei DS che per me fu un fallimento.

Caro Giorgio, con te se ne va un pezzo importante della mia formazione politica. Ma anche tu sei stato cancellato dalla “damnatio memoriae” della cultura socialista. Riposa in pace carissimo compagno socialista.

Giuseppe Giudice

Pierre-Joseph Proudhon. di A. Angeli

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Il 19 gennaio 1865 muore Pierre-Joseph Proudhon , ( era nato il 15 gennaio 1809, Besançon, Francia), libertario francese, socialista e giornalista. Il suo pensiero si spinse oltre il socialismo fino a elaborare dottrine radicali improntate ad una visione anarchica . Nacque in povertà, come figlio di un incapace bottaio e taverniere, e all’età di nove anni lavorò come pastore nelle montagne del Giura . L’infanzia trascorsa in campagna e l’ascendenza contadina di Proudhon influenzarono le sue idee fino alla fine della sua vita, e la sua visione della società ideale rimase quasi fino alla fine quella di un mondo in cui i contadini e i piccoli artigiani, come suo padre, potessero vivere in libertà e una povertà dignitosa, perché il lusso gli ripugnava, e non lo cercava mai per sé o per gli altri.

Proudhon in tenera età mostrò i segni della brillantezza intellettuale e vinse una borsa di studio per il college di Besançon. Nonostante l’umiliazione di essere un bambino in sabot (scarpe di legno) tra i figli di mercanti, sviluppò il gusto per l’apprendimento e lo mantenne anche quando i disastri finanziari della sua famiglia lo costrinsero a diventare un apprendista tipografo e poi un compositore. Mentre imparava il mestiere, imparava da solo il latino, il greco e l’ebraico, e in tipografia non solo conversava con vari liberali e socialisti locali, ma incontrava e subiva l’influenza di un concittadino di Besançon, l’utopista socialista Charles Fourier .

Con altri giovani stampatori, Proudhon tentò in seguito di fondare la propria stampa, ma una cattiva gestione distrusse l’impresa. Questa esperienza alimentò in lui un crescente interesse per la scrittura, che lo portò a sviluppare una prosa francese difficile da tradurre ma ammirata da scrittori vari come Flaubert, Sainte-Beuve e Baudelaire. Alla fine, nel 1838, una borsa di studio assegnata dall’Accademia di Besançon gli permise di studiare a Parigi . Ora, con il tempo libero per formulare le sue idee, scrisse il suo primo libro significativo, Qu’est-ce que la propriété? (1840;Cos’è la proprietà? , 1876). Ciò creò scalpore, poiché Proudhon non solo dichiarò: “Sono un anarchico”; ma affermò: “La proprietà è un furto!”

Questo slogan, che acquistò molta notorietà, fu un esempio dell’inclinazione di Proudhon ad attirare l’attenzione ea mascherare la vera natura del suo pensiero inventando frasi sorprendenti. Non ha attaccato la proprietà nel senso generalmente accettato, ma solo il tipo di proprietà con cui un uomo sfrutta il lavoro di un altro. La caratteristica della proprietà che lui distingueva da quella sfruttatrice si identificava nel diritto dell’agricoltore di possedere la terra che lavora e dell’artigiano la sua officina e i suoi strumenti – che considerava essenziale per la conservazione della libertà. La sua principale critica al comunismo, sia di tipo utopico che marxista , era che distruggeva la libertà togliendo all’individuo il controllo sui suoi mezzi di produzione. Nell’atmosfera un po’ reazionaria della monarchia di luglio negli anni Quaranta dell’Ottocento, Proudhon venne accusato per le sue dichiarazioni in Cos’è la proprietà? ; fu portato in tribunale quando, nel 1842, pubblicò un sequel più provocatorio, Avertissement aux propriétaires ( avviso ia proprietari, 1876). In questo primo dei suoi processi, Proudhon sfuggì alla condanna perché la giuria ritenne coscienziosamente di non poter comprendere chiaramente le sue argomentazioni e quindi di non poterle condannare.

Nel 1843 si recò a Lione per lavorare come impiegato amministrativo in una ditta di trasporti d’acqua. Lì incontrò una società segreta di tessitori , la Mutualisti, che avevano sviluppato una dottrina protoanarchica che insegnava che le fabbriche della nascente era industriale potevano essere gestite da associazioni di lavoratori e che questi lavoratori, con l’azione economica piuttosto che con la rivoluzione violenta, potevano trasformare la società. Tali punti di vista erano in disaccordo con la tradizione rivoluzionaria giacobina in Francia e il suo centralismo politico. Tuttavia, Proudhon accettò le loro opinioni e in seguito rese omaggio ai suoi mentori e rappresentanti della classe operaia lionese adottando il nome di Mutualismo per la sua forma di anarchismo .

Oltre a incontrare gli oscuri teorici della classe operaia di Lione, Proudhon conobbe anche la femminista socialista Flora Tristan e, nelle sue visite a Parigi, fece la conoscenza di Carlo Marx ,Mikhail Bakunin e il socialista e scrittore russo Aleksandr Herzen. Nel 1846 contestò contro Marx l’organizzazione del movimento socialista, opponendosi alle idee autoritarie e centraliste. Poco dopo, quando Proudhon pubblicò il suo Système des contradditions économiques, ou Philosophie de la misère (1846 Contraddizioni del sistema economico e Filosofia della povertà del 1888), Marx lo attaccò aspramente in un libro polemico “La misère de la philosophie” ( La povertà della filosofia ). Fu l’inizio di una frattura storica tra socialisti libertari e autoritari e tra anarchici e marxisti che, che dopo la morte di Proudhon, avrebbe lacerato il socialismo, aprendo un duri contrasto filosofico e poltico tra Marx e il discepolo di Proudhon Bakunin, contrasto filosofico che sopravvive ancora oggi.

All’inizio del 1848 Proudhon abbandonò il suo incarico a Lione e andò a Parigi, dove in febbraio fondò il giornale Le Représentant du peuple. ( La Rappresentanza del popolo ). Durante l’anno rivoluzionario del 1848, e nei primi mesi del 1849, curò un totale di quattro giornali; i primi erano periodici anarchici più o meno regolari e tutti furono a loro volta distrutti dalla censura del governo. In seguito svolse una parte minore nella Rivoluzione del 1848 , che considerava priva di qualsiasi solida base teorica. Anche se fu eletto all’Assemblea Costituente della Seconda Repubblica nel giugno 1848, si limitò principalmente a criticare le tendenze autoritarie che stavano emergendo nella rivoluzione e che portarono alla dittatura di Napoleone III . Proudhon ha anche tentato senza successo di istituire una banca popolare basata sul credito reciproco e sugli assegni di lavoro, che pagava il lavoratore in base al tempo impiegato per il suo prodotto. Alla fine fu imprigionato nel 1849 per aver criticato Louis-Napoleon, che era diventato presidente della repubblica prima di dichiararsi imperatore Napoleone III; Proudhon rimase in prigione fino al 1852.

Le sue condizioni durante la prigionia erano, per gli standard del XX secolo, leggere. I suoi amici potevano fargli visita e gli era permesso di uscire occasionalmente e girare per Parigi. Si sposò e generò il suo primo figlio mentre era in prigione. Dalla sua cella curò anche gli ultimi numeri del suo ultimo giornale (con l’assistenza finanziaria di Herzen) e scrisse due dei suoi libri più importanti, i mai tradotti Confessions d’un révolutionnaire (1849) e Idée générale de la révolution au XIX del secolo (1851;L’idea generale della rivoluzione nell’Ottocento pubblicato nel 1923). Quest’ultimo – nel suo ritratto di una società mondiale federale con frontiere abolite, stati nazionali eliminati e autorità decentralizzata tra comuni o associazioni di località, e con contratti liberi che sostituiscono le leggi – presenta forse più completamente di qualsiasi altra opera di Proudhon la visione del suo ideale di società. Dopo la scarcerazione, avvenuta nel nel 1852, fu costantemente vessato dalla polizia imperiale; trovò impossibile pubblicare i suoi scritti e si mantenne preparando guide anonime per investitori e altri simili lavori di hacking. Quando, nel 1858, convinse un editore a pubblicare il suo capolavoro in tre volumi “De la Justice dans la Révolution et dans l’église”, in cui opponeva una teoria umanistica della giustizia ai presupposti trascendentali della chiesa, il suo libro fu sequestrato. Fuggito in Belgio, fu condannato in contumacia a un’ulteriore reclusione. Rimase in esilio fino al 1862, sviluppando le sue critiche al nazionalismo e le sue idee di federazione mondiale (incarnate in Du Principe fédératif, 1863).

Al suo ritorno a Parigi, Proudhon cominciò a guadagnare influenza tra gli operai. Gli artigiani parigini che avevano adottato le sue idee mutualiste furono tra i fondatori della Prima Internazionale poco prima della sua morte nel 1865. La sua ultima opera, completata sul letto di morte, De la capacité politique des classs ouvrières (1865), sviluppò la teoria secondo cui la liberazione dei lavoratori deve essere il loro compito più impegnativo, da attuare attraverso l’azione economica.

In sintesi: Proudhon non fu il primo ad enunciare la dottrina che oggi si chiama anarchismo; prima che lo rivendicasse, era già stato abbozzato, tra gli altri, dal filosofo inglese William Godwin e reso in prosa e dal suo seguace Percy Bysshe Shelley in versi. Proudhon era un pensatore solitario che rifiutava di ammettere di aver creato un sistema e detestava l’idea di fondare un partito. C’era quindi qualcosa di ironico nell’ampiezza dell’influenza che le sue idee svilupparono in seguito. Erano importanti nella Prima Internazionale e in seguito divennero la base della teoria anarchica sviluppata da Bakunin (che una volta osservò che “Proudhon era il maestro di tutti noi”) e dallo scrittore anarchico Peter Kropotkin. I suoi concetti furono influenti tra gruppi così vari come i populisti russi , i nazionalisti radicali italiani degli anni Sessanta dell’Ottocento, i federalisti spagnoli degli anni Settanta dell’Ottocento e il movimento sindacalista che si sviluppò in Francia e divenne poi potente in Italia e in Spagna. Fino all’inizio degli anni ’20, Proudhon rimase l’influenza più importante e riferimento del radicalismo della classe operaia francese, mentre in maniera più diffusa le sue idee di decentramento in altri Paesi e le sue critiche al governo trovarono la loro rinascita nel tardo XX secolo, anche se a volte la loro origine non è stata ricondotta al filosofo Proudhon.

Alberto Angeli

Gli ebrei nel movimento operaio e socialista. di G. Giudice

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Le radici ebraiche di Marx sono universalmente conosciute. Di origini ebraiche erano molti dirigenti e personalità della prima socialdemocrazia tedesca. Da Rosa Luxemburg a Bernstein, Hilferding, Eisner, Paul Levi. I capi dei menscevichi venivano in gran parte da famiglie ebraiche, ad iniziare dal suo massimo esponente Julji Martov. E tra gli stessi bolscevichi ebrei erano Trotzky, Zinoniev e Kamenez. Come tra i socialisti austriaci erano di radici ebraiche Bauer, Max Adler e Fritz Adler.

Perchè questa puntualizzazione? Perchè settori dell’ebraismo israeliano accusano il socialismo marxista (nelle sue varie forme) di essere antisemita. Una accusa totalmente assurda e priva di fondamento. Giustamente un politologo serio come Michele Prospero ha duramente stigmatizzato tali affermazioni. L’equivoco nasce dal confondere antisemitismo ed antisionismo (o comunque un atteggiamento critico verso di esso. Ma di questo abbiamo parlato tante volte. Del resto anche nel sionismo c’è stata una sinistra socialista di orientamento marxista, vedi il Mapam. E vi sono state molte grandi personalità ebraiche (come Albert Einstein) che hanno avuto un atteggiamento critico verso il sionismo.

Il tema è complesso. Certo gli ebrei sono stati vittime del più grande genocidio del 900. Non a caso il nazismo, ideologia neopagana e criminale, è stato considerato il male assoluto. Certamente la shoah ha contribuito a far spostare molti ebrei in Palestina ed a creare lo Stato D’Israele. Ma al prezzo di espellere una parte consistente della popolazione araba palestinese. Non si può rispondere ad una ingiustizia con una altra ingiustizia. E certo non si può non condannare con durezza ed intransigenza la politica razzista e colonialista dei vari governi israeliani verso i territori occupati, moltiplicando gli insediamenti israeliani in Cisgiordania ed a Gerusalemme est, cacciando i palestinesi. I quali in Cisgiordania sono costretti a vivere in una sorta di lager a cielo aperto. Ma sostenere con forza il diritto dei palestinesi ad avere l’autoderminazione, una patria indipendente, non comporta affatto condividere la idea folle ed assurda di cacciare gli ebrei dalla Palestina. Del resto , nella stessa società israeliana stanno emergendo posizioni pacifiste e di sostegno alla causa palestinese. Per ora sono limitati a ambienti ristretti ed intellettuali. Ma esistono.

Concludo ricordando la frase del grande socialista tedesco (per lungo tempo presidente della SPD) August Bebel, nei primi anni del 900. “l’antisemitismo è il socialismo degli imbecilli”.

Giuaeppe Giudice