coscienza di classe
Il socialismo di Max Weber, di A. Angeli
La rivoluzione Tedesca del 1918/1919, maturata a seguito della drammatica conclusione della prima guerra mondiale, costituisce la svolta che segna il cambiamento e la trasformazione dello Stato Tedesco da una monarchia costituzionale in una repubblica democratica e parlamentare. Si tratta di uno degli eventi più significativi dell’inizio del XX secolo, che prende corpo nello Stato in cui si è formato il più grande e rappresentativo movimento del socialismo Europeo, patria del grande teorico socialista Karl Marx e riconosciuto come il Paese più avanzato sul piano della industrializzazione. L’eredità della guerra, simboleggiata dalla miseria e dalla disperazione diffuse tra la popolazione, e la notizia della rivoluzione in Russia, che ha determinato la caduta della Zar, sono colte dai socialisti come una premessa per la rivoluzione, favorita da un clima di forte tensione tra le masse che facilita la presa del potere da parte del Partito socialista Tedesco e porta all’abdicazione dell’Imperatore.
E’ sulla importanza di questa rivoluzione, che si afferma come una realtà universale per il legame ideale e politico con quella che aveva travolto e cambiato la Russia agraria, e che viene a costituire il cuore pulsante del movimento operaio della Germania industriale e capitalista, nel 1918, che si rivolge l’attenzione di Max Weber, il quale ne segue con scrupolosa attenzione di studioso la sua evoluzione in cui forti si manifestano le tendenze verso un processo di burocratizzazione dell’economia e un allontanamento da quella che poteva definirsi, agli inizi della rivoluzione, una via teorica progressista verso il comunismo. Weber seppe leggere la forza degli argomenti e la serietà del metodo di lotta adottate dalla classe operaia come una disciplina sulla base della quale organizzare la gestione diretta delle fabbriche, da lui intesa come nucleo fondante dell’ideale socialista. Weber si accinge quindi a una rielaborazione dei principi teorici su cui si è modellato questo tentativo di riorganizzare il capitalismo su basi politiche e sociali completamente alternativi al sistema, e cogliere la novità che questo avvenimento storico viene a rappresentare, dal momento che il potere nelle fabbriche è passato sotto il dominio della classe lavoratrice e il controllo sul sistema della borghesia e dell’aristocrazia sotto quello dei dirigenti riformisti della socialdemocrazia Tedesca.
Il 1918 è quindi il periodo storico della rivoluzione in Germania e l’affermazione di una nuova realtà rappresentata dalla classe lavoratrice organizzata e dal partito socialdemocratico, un fatto storico che impone una revisione della storia e del pensiero Weberiano, elaborato nell’ambito della cultura di classe appartenente alla società borghese che assume come principio attivo la neutralità della scienza sociale e dequalifica la lotta in corso tra capitalismo e socialismo a una semplice forma di contrapposizione ideologica, che a ben considerare ricalca, articolandola per diverse forme di pensiero, la contraddizione tra scienza e logica che distingue il processo antagonistico delle forze produttive del capitale nella sua fase più matura. C’è un salto ideologico tra il 1914 quando Weber, dopo aver sottoscritto le famose “tesi” del 1914, in cui l’Accademia Germanica sposava le idee espansionistiche della nuova Germania imperiale e federale, ossia il manifesto con cui giustificare l’intervento nella Grande Guerra, e l’estate del 1918, quando Weber accetta di tenere un corso sulla cattedra di Economia politica all’Università di Vienna. E’ proprio in quel periodo, e nella capitale austriaca, che tiene una conferenza, su invito dello Stato Maggiore dell’imperial-regio esercito austro-ungarico, sul tema del socialismo e della Rivoluzione d’Ottobre, mediante un’originale interpretazione della rivoluzione Russa. In quella circostanza, smentendo il luogo comune che lo voleva come il “Marx della borghesia”, Weber si rivela invece un pensatore politico liberal-conservatore, di una specie ben diversa da quella di stampo anglosassone. E’ in quella lezione, tenuta non a studiosi, ma come un orientamento teorico sul socialismo rivolto agli ufficiali di un esercito, che Weber illustra in modo originale le vicende russe ponendole a confronto con i testi marxiani e le aspettative del movimento socialdemocratico in Occidente, in specie di quello Tedesco.
Nel 1914 si susseguono fatti rilevanti, da cui poi prendono forma quei processi che condurranno alla rivoluzione del proletariato nel corso del 1918 per concludersi nel il 1919: la scissione del vecchio partito socialdemocratico (SDP), determinata dal voto che l’ala destra del partito espresse al Reichstag a favore dei crediti militari per la guerra imperialistica, a cui seguì la costituzione del nuovo partito socialdemocratico (USPD); il sorgere del movimento spartachista, con Rosa Luxemburg e Karl Liebchneckt, mentre nel resto dell’Europa si formavano nuove esperienze politiche, come in Olanda, il movimento consiliare, che in parte confluisce poi nel partito comunista Tedesco (KPD). Ancora: segue la nascita del revisionismo teorizzato da Bernstein e sostenuto da Kautsky, Adler, l’EPD e l’USPD. Un periodo che segna cambiamenti storici rilevanti, anche per il realizzarsi della rivoluzione d’Ottobre e la nascita della Terza internazionale, dai quali prende forma un contesto politico interessante e sul quale Weber esplicita una sua interpretazione del contesto storico/politico in cui legge il formarsi di una separazione tra quelle forze politiche che si rivolgono al socialismo evoluzionista, dalla originalità del pensiero Marxiano che si incarna in Bernstein e in altri teorici del tempo a quelle rappresentanze politiche che si muovono in un area anarco-sindcalista, ovvero quella consiliare, i bolscevichi, gli spartachisti ed altri gruppi minori che si raccolgono attorno all’idea di un rivoluzione seguendo i canoni del Manifesto di Marx ed Engels.
Nell’illustrazione che Weber svolge nell’assemblea degli Ufficiali dell’esercito austriaco il significato della parola socialista viene espressa ricorrendo al vocabolario della cultura ufficiale dell’epoca e propria dell’ideologia democratico borghese, che assimila socialismo e democrazia: tutti i partiti che hanno un puro carattere socialista sono oggi partiti democratici, sussumendo con tale rilievo che non esista nessuna ineguaglianza formale dei diritti politici tra le diverse classi della popolazione”. Questo rende subito chiaro come tale concetto alteri la funzione sociale del lavoratore, anche se accoglie il principio di un ruolo del lavoratore nei processi della fabbrica, poiché mentre valorizza il carattere ideologico, etico e politico del lavoro, “abolizione del potere dell’uomo sull’uomo “, in effetti restano immutate le forme di condizionamento o le tecniche di disciplina vigenti nella fabbrica, quali l’organizzazione dei tempi di lavoro e l’esercizio di comando da parte dell’impresa. Qui, allora, si affaccia l’idea che il socialismo costituisca solo una reazione morale, sebbene spontanea e necessaria, da parte della classe operaia alle terribili condizioni della fabbrica, sottoposta alla razionalità capitalistica dell’industria che si pone l’obiettivo di intensificare la produzione industriale e quindi lo sfruttamento del lavoro. Sono i processi del lavoro, afferma Weber “con la creazione della produzione meccanica nella fabbrica, cioè con la concentrazione e localizzazione di forza-lavoro in uno stesso spazio, col legame alle macchine e alla comune disciplina del lavoro nella sala macchine o nella miniera”, e non lo specifico rapporto sociale di produzione – cioè il rapporto capitalistico – che produce, precisa Weber, la specificità del “socialismo moderno”. Per questo, è la “disciplina di fabbrica” che lega l’operaio alla macchina, costringendo la forza-lavoro negli spazi e nei tempi della “produzione meccanica”, “che dà ora alla forma della divisone dell’operaio dagli strumenti di lavoro il suo carattere specifico”.
E’ da queste condizioni del lavoro di fabbrica, del regime di controllo dei tempi e dei processi produttivi, è nato il socialismo. La sottomissione alle condizioni dei tempi di produzione è sicuramente e incredibilmente sentita dal lavoratore, per il fatto che, diversamente da altre forme di lavoro, nei cicli produttivi dell’impresa industriale tutto il processo di produzione poggia su metodologie di selezione eccezionalmente rilevanti, e stringenti diventano i tempi organizzativi del processo produttivo in cui la tecnologia prende il sopravvento sul lavoratore e la sua autonomia decisionale. Il socialismo diventa allora l’alternativa a questa condizione di vita nella fabbrica e di sfruttamento del lavoro da parte della “grande industria meccanizzata”, afferma Weber. Un rilievo, quello di Weber in merito alla tecnica considerata come un fattore ineludibile della produzione, e tuttavia un ambito in cui si realizza incondizionatamente il dominio dell’uomo sull’uomo, che dà evidenza a quella forma di sfruttamento capitalistico dell’operaio la quale, nelle forme organizzate mediante la tecnologia, si trasforma in alienazione. Tale processo produttivo richiede disciplina e selezione, che il capitalista impone come condizione preliminare al processo produttivo per conseguire razionalmente la valorizzazione del capitale. Qui la teoria del valore lavoro è identificata da Weber nell’idea marginalistica dell’ utilità, rispetto invece alla legge del profitto, poiché per Weber tutto si riconduce al meccanismo del mercato e dei prezzi a cui abbina il rischio e il calcolo dell’interesse imprenditoriale.
Il pensiero di Weber sul socialismo, che seppure in qualche modo risente dell’ influenza della cultura sociale borghese della sua epoca, è il riflesso di complessi processi storici, sociali, politici in atto in quella particolare situazione storica, in cui prevaleva il capitale monopolistico e incontrollabili risultavano i suoi meccanismi di riproduzione ed accumulazione, per la formazione di quella che Marx indica come la formazione del plusvalore relativo. Per tale motivo non è fuori luogo individuare in Weber il teorico più illuminato a favore di un capitalismo più liberale e razionale, e ciò lo sosteneva in un epoca in cui la crisi del liberismo moderno non facilitava il sostegno di una teoria in cui forte era avvertita l’esigenza di un rinnovamento teorico del capitale monopolistico. E tuttavia, Weber, penetrando nel profondo processo rivoluzionario in corso in quell’epoca, si colloca dalla parte del mondo del lavoro e del movimento operaio cogliendo nell’idea dogmatica dell’evoluzione di Karl Marx un percorso politico utile a conseguire quel cambiamento che la rivoluzione si propone di realizzare sotto la guida e il governo del socialismo. A tale proposito egli scrive: “Non esiste nessun mezzo per far scomparire dal mondo l’ideologia socialista e la speranza nel socialismo. La classe operaia sarà sempre di nuovo in qualche modo socialista”.
Alberto Angeli
“CATEGORIE” e “CLASSI”- Necessità di una critica radicale al modello neo /ordo-liberista. di P. P. Caserta

È ovvio che nelle proteste di questi giorni ci siano anche infiltrati, facinorosi di varia collocazione e post-sempre-fascisti che cercano di toccare palla. Non mi pare, però, si possa dubitare che la larga parte sia costituita da uomini e donne messi a dura prova dalla crisi. Non può trovare uno spazio di realtà il moralismo di chi liquida le proteste in blocco per via di alcuni facinorosi. Ma il culmine del moralismo sta forse nel pensare che chi ha fame conservi un contegno e modi gentili. Non è così e non è mai stato così. <Un governo né carne né pesce fa un mini-lockdown per non doversi far carico fino in fondo della sofferenza sociale generata da una crisi che morde sempre di più. Piuttosto, lockdown come si deve ma allora reddito di quarantena per tutti fino alla fine dell’emergenza pandemica!> L’alternativa, se si vuole, è la Svezia, ma l’italica paternalistica viuzza di mezzo che questo governicchio esprime sta facendo montare la rabbia sociale, questo è il punto, a mio avviso. In situazioni di grave emergenza devi più che mai scegliere una linea, se cammini in mezzo resti schiacciato, come dice il saggio. Se dico questo, per inciso, non è perché io minimizzi il Covid, ma proprio per il motivo opposto. Non minimizzo né il Covid, né l’acuta crisi che il Covid ha enfatizzato.
Appurato che una larga parte della protesta non è fascista né camorrista (senza escludere la presenza anche di questi e di altri elementi), per chi volesse prendersene la briga rimane il compito di leggere la protesta e trasformarla in una chiaro progetto politico di critica radicale al modello egemone neo /ordo-liberista, che ha prodotto i gravi squilibri esaltati dalla crisi.
Il lessico che ricorre in questi giorni racconta una storia eloquente, si parla di “categorie”, mentre il concetto di “classe” è ovviamente lontano, da tempo spazzato via dall’individualismo post-borghese (e iper-borghese al tempo stesso). Le “categorie”, ciascuna con le proprie istanze particolare e circoscritte, intendiamoci tutte legittime, ma inevitabilmente limitate nello scopo, sono l’evidente prodotto della da tempo avvenuta decomposizione del concetto di classe, frammentato in una serie di segmenti spesso incomunicanti con interessi particolari. (Molto ha contribuito anche la deleteria retorica della “società civile”). Eppure è lo stesso il modello che ha tagliato la spesa pubblica, i salari e le pensioni, la sanità, la scuola pubblica. Credo, inoltre, che questa necessaria critica radicale al modello neo /ordo-liberista debba passare anche, per la nostra parte, per l’obiettivo di una rappresentanza globale del mondo del lavoro, che richiede anzitutto, come la situazione appunto conferma ampiamente, schemi interpretativi empirici e non preconfenzionati.
Pier Paolo Caserta
Se essere mamma fa a pugni col lavoro. di S. Bagnasco
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L’Ispettorato del lavoro ci informa che nel 2019 le donne che hanno lasciato volontariamente il lavoro sono state 37.611; nel 2011 erano state 17.175 e anno dopo anno aumentano incessantemente.
Il 65% delle donne lasciano per le difficoltà di conciliare il lavoro con la cura dei figli.
La fascia di età è concentrata tra 29 e 44 anni, nel pieno quindi della vita professionale.
La vita familiare si conferma poco paritaria e il gap tra i generi ancora enorme.
C’è poco da farfugliare di natalità, se non si affronta la questione del diritto per una donna di essere lavoratrice e madre e la questione della disoccupazione giovanile. Perché mi pare ovvio che i giovani sono disoccupati in modo impressionante non perché si fanno pochi figli ma perché questo Paese non offre opportunità ai giovani dopo aver chiesto alle donne di rinunciare al lavoro o a essere madre.
Le ragioni di questi insuccessi, che con costanza raccogliamo anno dopo anno, sono sempre gli stessi: carenza dei servizi per la prima infanzia, costi troppo alti per l’assistenza attraverso nidi o baby sitter, mancanza di posti al nido, mancanza di parenti a supporto delle giovani famiglie, questione sempre più stringente considerato che sempre più spesso le giovani coppie si formano lontane dai luoghi di origine perché lontano dalle rispettive famiglie hanno trovato lavoro.
La realtà è quindi ancora quella di decenni fa, nonostante i fiumi di parole su occupazione femminile, parità di genere e natalità: la donna troppo spesso è ancora posta di fronte alla scelta tra diventare mamma o lavorare.
Non ci siamo!
Adesso si profila il Family Act, vedremo come si concretizzerà; certamente un passo avanti, ma al momento mi sembra inidoneo a risolvere i problemi reali perché al primo posto non c’è il nido accessibile a tutti e la scuola a tempo pieno.
L’assegno universale e i congedi parentali non compensano la mancanza di adeguati servizi per l’infanzia.
Sergio Bagnasco
Non possiamo essere complici dello sterminio. di C. Baldini
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Quattordici ministri degli esteri europei hanno finalmente trovato la forza, dopo l’appello di Papa Francesco, di chiedere la fine del massacro di Idlib.
Sono i capi delle diplomazia di Italia, Francia, Germania, Paesi Bassi, Spagna, Portogallo, Belgio, Estonia, Polonia, Lituania, Svezia, Danimarca, Finlandia e Irlanda.
Arriva dopo che un numero incredibile di scuole è stato colpito dai raid aerei dei russi e dei siriani e dopo le operazioni militari dei turchi.
Un milione di civili rischiano ormai di morire di stenti e privazioni, di freddo, di fame. La maggioranza di loro sono bambini. Gli assiderati dei giorni scorsi fecero scalpore, poi basta. Ma l’emergenza è assoluta, questione di ore. Quel milione di individui è ancora lì, rischiano tutti un destino atroce. E domani si aggiungeranno o si potrebbero aggiungere altri due milioni di essere umani, gli altri disperati civili che vivono a Idlib.
E il mondo dell’associazionismo c’è? La nostra società civile non ha nulla da dire? Nulla da obiettare? La nostra coscienza tace?
Ho letto le denunce di Amnesty, altre voci importanti, certamente. Ma dove siamo, noi? Impauriti dal Coronavirus non sappiamo più distinguere il reale dall’ipotetico? O siamo stati assorbiti, inghiottiti da una liquefazione della coscienza individuale e collettiva?
Questo mondo è il nostro mondo. Quello che accade è opera nostra. Dei nostri silenzi, della nostra acquiescenza, disattenzione.
Chi ha parlato di “male minore” avrà per sempre su di sé il peso, per me, di un errore enorme.
Scuole bombardate, bambini in fuga verso il nulla. Il muro turco impedisce alla popolazione di fuggire, il fuoco di Assad li incalza senza via di fuga.
Erdogan, dopo aver armato l’altra canaglia, i jihadisti, che ha tormentato questa popolazione, pensa solo ai suoi confini e al suo espansionismo.
Ma ai civili di Idlib non pensa proprio nessuno?
Io credo che sia arrivata l’ora di una grande mobilitazione nazionale per la coscienza umana di ciascuno di noi. Sottrarsi vorrebbe dire essere complici.
Fuggono verso la Grecia che li respinge con lacrimogeni. Muoiono di freddo e di polmoniti.
Scendiamo tutti in piazza per Umanità. Non importa chi ci organizzerà. Bisogna farlo.
Claudia Baldini
La Sinistra rimetta al centro il conflitto, il lavoro, la questione sociale. di P. P. Caserta
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Quanti hanno a cuore oggi la ricostruzione di una sinistra che sia terza e autonoma dovrebbero stare attenti a non finire nel tritacarne neoliberale del movimentismo post-ideologico.
È un rischio sempre incombente, lo abbiamo visto con il M5S, lo stiamo vedendo con le sardine (anche se tra i due movimenti ci sono sia assonanze che differenze) e lo vedremo, credo, ancora in forme nuove. Non si tratta di disprezzare nessuno, ma solo di capire che non si può pensare di affidare ai movimenti post-ideologici il lavoro che è nostro. Non solo questo, in realtà. Tra le braccia di questi movimenti sono finite e finiscono molte delle speranze dei delusi della sinistra. Bisogna, allora, trovare il modo di rendere chiaro che un vasto coinvolgimento di massa non rende un movimento popolare nello scopo. I movimenti post-ideologici, figli della ritirata e della disintermediazione della politica, sono elitisti nell’essenza. Non c’è bisogno di alcuna dietrologia per affermare questo, è più che sufficiente leggerne le premesse reali. Sono movimenti organici alla polarizzazione del dibattito ideologico da tempo in essere, che riduce l”alternativa” alla falsa scelta tra un blocco nazional-populista e uno elitista, in un gioco di specchi, di legittimazione reciproca, che deve escludere una politica popolare.
Si risponde decostruendo i movimenti ma si risponde, soprattutto, essendo sinistra oltre i nominalismi, tornando nei luoghi del conflitto, mettendo al centro il Lavoro e la questione sociale, lavorando, in connessione con le migliori realtà nella scena internazionale, alla costruzione di una sinistra né populista né elitista, ma popolare ed eco-socialista.
Il fatto che la sinistra debba tornare nei luoghi del conflitto non significa che debba tornare semplicemente nei vecchi luoghi. Occorre, invece, leggere i nuovi luoghi e le nuove forme del conflitto, che è sempre in primo luogo il conflitto tra Capitale e lavoro e le cui forme mutano nel tempo. In effetti, a me pare che l’errore qui sia stato duplice: a volte la sinistra ha abbandonato i luoghi del conflitto, persino il tema del conflitto. In altri casi è tornata nei vecchi luoghi del conflitto, ma non vi ha trovato quasi più nessuno, mentre altrove, nei luoghi nuovi, la sofferenza e il risentimento crescevano, e altri avanzavano per intercettarli, rappresentarli e canalizzarli.
Questi due errori corrispondono approssimativamente alla pseudo-sinistra neoliberista e alla sinistra vetero-comunista nelle sue forme più sclerotizzate. Anche per questo c’è bisogno del Socialismo, che ha la cultura di non irrigidirsi in formule interpretative definitive e chiuse della realtà sociale.
Il conflitto si è spostato. Le nuove forme del conflitto non sostituiscono le vecchie, vi si aggiungono. Da questo non si può prescindere e occorre riprendere il filo.
Pier Paolo Caserta
La logica della guerra. Il grande nulla nella guerra per la guerra. di G. Marigo
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La logica della guerra si nutre di dicotomie, contraddizioni ed assoluti categorici se così non fosse non potrebbe funzionare. Essa esige adepti e seguaci che non si pongano domande sulle altrui ragioni e che credano ciecamente di essere nel giusto (l’unico giusto possibile) e che sia loro dovere difendere le ragioni dell’una o dell’altra parte.
Scegliere fra Trump e Soleimani e fra il mondo che il Cow -boy incappucciato di bianco vede e quello che il generale islamico difendeva è sinceramente difficile ed anche per nulla interessante per me.
Entrambi sono colorati di colori cupi, grevi … a loro modo orrendi. Il Mondo migliore possibile che speriamo e nel quale crediamo è lontanissimo e diverso da tutti loro.
Eppure potremmo finire persino con il dover combattere per difendere l’uno dall’altro ed a dover credere che esista una vera una ragione per farlo. Salvo poi, quando la storia descriverà questo periodo, scoprire d’essere stati manipolati ed usati a pretesto per il Grande Nulla della guerra per la guerra, come è sempre stato prima dell’ultima … Usati per un risiko mortale ed inutile, per un aggiustamento di posizione al tavolo del potere assoluto. Per il petrolio o il coltan, oppure il rame e le terre rare, per l’uranio o l’acqua; oppure qualsiasi altra cosa stupida e materiale che sia servita a reale pretesto … ed anche questo sarà una scusa per mascherare le ragioni d’una follia assoluta fatta di competizione e di pura rivalsa di deformato senso del possesso, dell’assurda convinzioni d’essere padroni di qualsiasi cosa. Un orrendo risvolto della natura umana?
Prendere una parte significa accettare la logica folle e demenziale che le vede contrappost, che arricchisce solamente chi dallo scontro e dalla competizione riceve linfa e vigore, chi gestisce il potere reale di questo mondo. Chi mai rischierà di morire in questo teatro degli orrori.
Aprire gli occhi sulla realtà ci porterebbe a scoprire come, stranamente, i veri burattinai della competizione pranzino assieme, frequentino gli stessi luoghi, abbiano i medesimi status simbol, abbiano i medesimi interessi e prevedano di rifugiarsi nel medesimo bunker in caso di disastro epocale.
Scopriremmo come gli interessi che muovono questa commedia tragica siano del medesimo tipo da una parte e dall’altra, anzi come essi non abbiano parte alcuna.
Le guerre alla fine son tutte uguali non le vince davvero nessuno e non risolvono nulla, eppure ogni volta ci caschiamo quando una testa di legno, un uomo di cartone, un servo burattino del potere vero si prende la briga di giocare questo gioco stupido e criminale.
Stranamente è sempre il medesimo tipo d’uomo che interpreta la parte del macellaio si chiami Giulio Cesare, Napoleone, Mussolini, Hitler, Truman Churchill, Roosevelt, Khomeini, Khamenei, Netanyahu, Soulimani o Trump,con i loro servitori sciocchi e d estimatori e le loro nefande tifoserie schierate (I Salvini e le Meloni di casa nostra, ma non solo), mentre i mercanti di armi, i generali … i venditori di anime e gli inventori di crociate traggono tutti i vantaggi possibili dal momento, finalmente a loro favorevole … ammesso che ve ne sia uno che non lo sia.
E così ci stanno trascinando in una nuova follia, con la prospettiva che la prossima guerra si combatta nuovamente con clave e sassi, ammesso di sopravvivere a quella che si sta prospettando sempre più chiaramente e che forse non ha mai finito di covare sottotraccia sin dalla fine del secondo conflitto mondiale.
La scusa per accenderla ormai è innescata, da tempo. Così come da tempo è iniziato il giochino del “dar ragione” a Putin piuttosto che a Trump o Obama A Netanyahu piuttosto che a Khamenei o a Kim Jong-Un. Figli di differenti, ma uguali oligarchie … uomini di potere e tigri di carta dalle quali dovremmo piuttosto liberarci, ma che finiamo per incensare. Chi scrive non sta con nessuno di loro e crede solamente nella Pace … ma forse saremo davvero troppo pochi ad essere convinti di questo e quel che vogliono succeda, succederà comunque.
Giandiego Marigo
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