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Il modello cinese. di S. Bagnasco
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Oggi, in tanti considerano il “modello cinese” come vincente per affrontare l’emergenza sanitaria.
Fino a poche settimane fa, la Cina era un lontano paese asiatico saldamente ancorato agli stereotipi di noi europei che non sappiamo guardare alle trasformazioni della Cina avvenute in soli sette decenni.
Poche settimane fa consideravamo il COVID19, come adesso lo chiamiamo perché “coronavirus” sa poco di scientifico, un problema cinese e del lontano mondo asiatico dove si mangiano topi vivi e vi invito a non considerarla una battuta da uno Zaia qualsiasi, perché riflette un diffuso atteggiamento mentale.
Sia come sia, la Cina è passata in sette decenni dalla fame e da un’aspettativa di vita intorno ai 40 anni ai 76 attuali; oggi la Cina è il secondo Paese per PIL al mondo e sta combattendo una battaglia formidabile per salire la classifica del PIL pro capite, dove occupa tuttora l’85° posto.
Ma cos’è il modello cinese?
E’ la capacità di costruire in pochi giorni un ospedale? E’ la capacità di prendere decisioni rigorose in poco tempo? NO! Tutto ciò è il prodotto del modello cinese, non è il modello cinese. Il modello cinese si basa su un’economia pianificata, su un forte controllo sociale, su una formidabile attualizzazione dell’antico mercantilismo cinese che porta la Cina a essere protagonista di un sistema di “cooperazione” in Africa (di cui il mondo si disinteressa, nonostante gli evidenti aspetti negativi di questa moderna colonizzazione), a modellare una nuova geopolitica mondiale con la Via della Seta, a essere protagonista nelle politiche spaziali internazionali sbarcando non sulla luna ma sulla “faccia nascosta” della luna, quella che non vediamo mai.
E’ da qui che deve partire il confronto tra modelli.
La Cina, a differenza dell’Occidente, vale a dire di USA, Canada, UK e UE, può prendere decisioni importanti e drastiche senza scatenare il panico nei mercati e senza scatenare la guerra tra fazioni politiche sull’entità degli interventi economici, sugli scenari recessivi, sulle responsabilità dell’UE, su aperte e violente critiche nei confronti di Lagarde, Macron, Boris Johnson, Trump …
Inutile guardare al “modello cinese” se ci tappiamo gli occhi per non vedere le differenze tra Europa e Cina. Differenze che mai ci consentiranno di adottare il modello cinese.
Allora? Allora serve intelligenza e orgoglio per la nostra storia e le nostre specificità.
Il nostro modello dovrebbe farci comprendere che quando siamo sereni e ci dedichiamo agli apericena … dovremmo approntare protocolli e piani minuziosi per affrontare le emergenze sanitarie … che non esistono giacché sappiamo che arriveranno, mentre ignoriamo quando arriveranno e che sembianze avranno, ma possiamo intuire le criticità che possono determinare agli organi vitali. Se avessimo questi piani e la popolazione fosse educata a queste emergenze, come dovrebbe avvenire per gli incendi, le catastrofi naturali, gli incidenti nucleari, i disastri chimici … allora ci sottrarremmo alle polemiche politiche, agli indugi per paura di perdere il consenso, alla stupida mediazione tra posizioni politiche … come se l’emergenza sanitaria fosse una causa civile.
Noi abbiamo strumenti e mezzi di gran lunga superiori a quelli cinesi, ma non ne siamo consapevoli perché disprezziamo la grandezza delle nostre malconce democrazie, che affossiamo invece di solidificarle.
Il modello italiano e europeo ha potenzialità formidabili: spetta a noi decidere di attuarle … e per farlo dobbiamo pensarci in tempi di bonaccia.
In Europa abbiamo una diffusa cultura solidaristica, estranea alla cultura americana, questo ci offre condizioni di partenza ottimali per attrezzarci per tempo a fronteggiare le emergenze sanitarie.
Saremo capaci di comprenderlo? Impareremo qualcosa da questa situazione che viviamo con apprensione o ci limiteremo a un brindisi e a una collettivo “l’abbiamo sfangata anche questa volta”?
La decisione spetta a noi.
Sergio Bagnasco
L’Attualità di Walter Benjamin “ Il Capitalismo come religione “. di A. Angeli
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“Il capitalismo come religione” è un breve saggio di Walter Benjamin, invero si tratta di appunti anche se ben strutturati, scritto nel 1921, forse propedeutico a un progetto più ampio di politica, che non porterà a termine a seguito della tragica morte, avvenuta nel 1940 sulla soglia dei cinquanta anni, al confine Franco-Spagnolo ( si suicida nella notte del 25 settembre, presagendo la cattura da parte della polizia di frontiera spagnola per essere espulso dalla Spagna verso la Francia saldamente nelle mani del nazifascismo. Era in attesa del visto per gli USA che, gioco della sorte, giunse il giorno successivo). Sono anni tragici e ferocemente violenti (materia, la violenza, alla quale Benjiamin dedica molto del suo impegno con l’intento di farne un’opera mai nata) quelli ereditati dalla prima guerra mondiale, un conflitto crudele che ha travolto il significato della convivenza ed il senso dell’Europa, terminata da pochi anni, e tuttavia anni di una durezza insopportabile per chi viveva in Germania. Soprattutto tra il 1918-1919, anni funestati da una continua guerra civile a bassa intensità, che sboccò nella soluzione conosciuta come la rivoluzione di novembre, tra i vari movimenti che si contendevano il potere: le destre, che poi assumeranno il potere trasformandosi in nazisti, e le sinistre, a loro volta divise in fazioni, ispirandosi alla rivoluzione Russa; e, ancora, le forze che si riuniranno nella provvisoria Repubblica di Weimar.
Nel breve saggio Benjamin non si limita a compiere una lettura e un’analisi della cultura di quel momento storico, ma compie una dilatazione del suo pensiero, dedicando il suo interesse allo studio di testi e nell’approfondimento degli avvenimenti del periodo, mettendo a fuoco le controversie che animano lo scontro politico e culturale in atto tra le varie forze che occupano la scena di quel periodo. Due testi, di rilevante importanza teorica, sono oggetto delle sue letture e approfondimenti: “ Il capitalismo moderno”, di Werner Sombart, scritto e pubblicato nel 1902, e “L’etica protestante e lo spirito del capitalismo”, di Max Weber, scritto nel 1904; due testi che emblematicamente riproducono il percorso seguito dal pensiero della scuola Tedesca, che Benjamin studia e cita con sorprendente padronanza nel suo breve scritto, soprattutto con riferimento a Weber, rilevando ed evidenziando la tesi di dipendenza del capitalismo dallo spirito protestante.
A sostegno della centralità del capitalismo come artefice dei fenomeni sociali e politici, nel suo lavoro di studio e riflessione Benjamin si spinge a compiere una ricognizione concettuale della fenomenologia di Husserl, dalla quale estrae e sintetizza quanto rappresentato nelle riflessioni del filosofo Austriaco, quella dell’illimitatezza del desiderio che costituisce la forma di vita che il capitalismo diffonde nel mondo, un richiamo sul quale può quindi aprire la sua riflessione su quanto, nello stesso periodo, Sombart elabora in materia di capitalismo moderno, pervenendo a distinguere tra “mentalità economica precapitalistica”, invero, “ equilibrio tra quel che si spende e quel che si ottiene nella produzione di beni necessari all’uomo”, e “ capitalismo”, intesa tale forma come una organizzazione economica di scambio, caratterizzata da una nuova collaborazione dominata dal principio del profitto e dal razionalismo economico. Più precisamente, per Sombart, ciò che si deve considerare immanente all’idea di organizzazione capitalistica “è il semplice aumento della quantità di denaro, quale scopo unico e oggettivo del capitalismo”.
D’altro canto anche per Karl Marx, ( del quale Sombart conosce le teorie economiche, studiate con attenzione essendo allora un socialista impegnato ), il modo di produzione capitalista si contraddistingue per l’accumulazione di lavoro inerte, vale a dire di “denaro”, prescindendo dai mezzi allo scopo impiegati per conseguire, mediante lo sfruttamento del lavoro, tale risultato. Allora, per Sombart, la formula del plusvalore si rovescia, si trasforma, per cui il fine dell’economia non ha più il significato di vivere bene, ma creare valore, in linea di principio indefinito e illimitato. Il valore, nella concezione capitalistica, diviene direttamente una forma sociale, un sistema mediante cui creare unità nel processo produttivo, da cui il valore prende forma e dissolve ogni differenza di ruoli per assumere una propria visibilità nella matrice del denaro. Per questo la finalità alla quale tendere è rivolta a creare la massima quantità possibile di valore, cioè di denaro, che costituisce il simbolo del potere.
Seguendo questa interpretazione ne scaturisce l’immagine dell’uomo incapace di una propria auto determinazione, perché intrappolato in un ruolo di consumatore e dominato dall’idea “che il tenore di vita debba essere conforme al proprio ceto sociale”, e quindi adeguato allo status di classe sociale alla quale sente di appartenere. Qui Sombart evidenzia la natura delle forme sociali alle quali l’uomo piega i propri desideri: il lusso e il nutrimento. Per Sombart, rileva Benjamin, l’uomo non si è proposto di lavorare per trarne un profitto, nè per diventare ricco, questo perché il lusso, l’agiatezza, sono generi che appartengono a speciali categorie sociali in quanto richiedono una responsabilità verso Dio e gli uomini. Ciò indurrà Benjamin ad affermare, verso la fine della sua analisi, che il capitalismo non ha vie d’uscita, nessuna via comunitaria, nel senso di un collettivismo, un Noi, ma si afferma come individuale-materiale. D’altro canto, ci ricorda Benjamin, riportando e interpretando il pensiero della tradizione culturale da lui presa in considerazione, il concetto di economia è radicalmente diverso da quello di denaro, possedendo il quale si accede a quella parte sociale che gode del benessere e del lusso e questo avviene nonostante che l’uomo non sia separabile dalle proprie azioni, come non lo è dalle sue cose e dal lavoro, un concetto eminentemente capitalista. Insomma, secondo la tradizione cristiano-economica l’uomo non lavora solo per il denaro poiché ciò che può essere donato, tempo e vita del lavoratore, richiede reciprocità, lealtà, il senso del dovere e responsabilità. A sostegno di quanto affermato ci soccorre quanto scritto nel saggio “La grande trasformazione “ ( di Karl Polanyi edito da Einaudi ), precisamente il riferimento alla rivoluzione industriale: “separare il lavoro dalle altre attività della vita ed assoggettarlo alle leggi del mercato significa annullare tutte le forme organiche”, a voler significare un riduzione delle relazioni sociali rispetto alle strutture totali, a segnare quindi un limite alla libertà dell’individuo nel suo rapporto con le istituzioni sociali e politiche in cui egli si muove e agisce ( al proposito si veda anche Axel Honneth “ Il diritto della libertà” edito Mondadori ).
Weber su quanto fino ad ora richiamato si esprime con minore nettezza, poiché per lui l’attività costituisce un insieme di tecniche e orientamenti, quando non un calcolo assiduo, che definisce “un agire sobrio, riflessivo, costante, ma anche audace” ( vedi “Etica protestante…….. ), non quindi uno spontaneismo selvaggio, o l’irrazionalità, per cui, pur mettendo in luce l’ambivalenza, ne evidenzia una relazione tra insorgere del capitalismo e spirito protestante, luterano e calvinista. E tuttavia, l’irrazionalità possiede dei sentimenti, un legame eterico con certe rappresentazioni religiose che, secondo Weber, spinge gli uomini a fare denaro come espressione dell’essere, attenti alle proprie faccende. Si tratta insomma di idee, di un’etica tesa a valorizzare la professione, a dare senso e significato al dovere, quindi non una sovrastruttura di condizioni economiche, afferma Weber in polemica con Marx. Weber si muove quindi nell’ambito di una fiducia nella potenza spirituale della modernità, nella quale non manca di cogliere i segnali di tendenze autodistruttive, e quindi una presagita perdita del senso religioso e la derubricazione degli enunciati morali dal contesto in cui egli colloca la sua opera. Ecco allora che alla razionalità procedurale si deve pervenire solo se si è propensi a conservare comunque la coscienza normativa, quale struttura dello spirito, per non perdere il senso religioso. Si tratta quindi di una base, quella della razionalizzazione, sulla quale salire esorcizzando ogni incantesimo originato dalle tendenze distruttive (delle quali scrive Habermas ) e rendere riconoscibile il senso religioso di questa razionalizzazione decodificando i segnali della modernità.
Nel saggio di Benjamin, che raccoglie gli scritti politici (1919-1940), è posta la domanda se nel capitalismo è possibile ravvisarvi una religione, poiché, secondo la lettura del lavoro di Weber, scrive Benjamin, il capitalismo è una conformazione determinata dalla religione, ovvero un fenomeno fondamentalmente religioso, in quanto “il capitalismo serve essenzialmente alla soddisfazione delle medesime ansie, sofferenze, inquietudini, cui un tempo davano risposta le cosiddette religioni”. Per Benjamin si tratta di una religione culturale, forse radicalizzata, un genuino riferimento al culto o a un rito ( come lo definisce Habermas ) poiché carico di gesti, di forme, di pratiche, insomma non proprio una vera teologia, in quanto il capitalismo non ubbidisce a nessuna “dottrina evangelica” essendo geneticamente disponibile a vestire qualsiasi abito fornito dalla stoffa del profitto, che Benjamin assimila all’”utilitarismo”, da noi oggi identificato con il liberismo. Un culto, quindi, che si svolge senza pietà, ininterrottamente, e che tuttavia genera un’ambiguità demoniaca, cioè anche debito. Al proposito Bemjamin scrive “il capitalismo è verosimilmente il primo caso di culto che non purifica ma colpevolizza [ed indebita]. Così facendo, tale sistema religioso precipita in un moto immane”, immane coscienza della colpa, questo perché dal debito non ci si redime (purifica) , cioè nell’ “immane coscienza della colpa [del debito] che non sa purificarsi [da cui non ci si redime], fa ricorso al culto non per espiazione in esso di questa colpa, ma per renderla universale, per martellarla nella coscienza e infine e soprattutto per coinvolgere Dio stesso in questa colpa e interessarlo infine all’espiazione”. Ma questa espiazione è impossibile, poiché “sta nell’essenza di questo movimento religioso che è il capitalismo, resistere sino alla fine, fino alla definitiva, completa, colpevolizzazione di dio, fino al raggiungimento dello stato di disperazione del mondo”. Noi diremmo: autodistruzione, quale scatenamento del capitale nella forma della finanziarizzazione globalizzata.
In sostanza, per Benjamin “l’elemento storicamente inaudito del capitalismo, la religione, non è più riforma dell’essere, ma la sua riduzione in frantumi”, più chiaramente “l’estensione della disperazione a stato religioso del mondo, da cui attendere la salvezza”. L’uomo si ritrova nella completa solitudine, in uno stato psicologico di colpa, che trascende ogni implicazione di Dio nel destino dell’uomo. La relazione tra denaro e colpa all’interno delle religioni pagane contiene già la “demoniaca ambiguità” di una colpa che è in sé già sempre debito. Al proposito soccorre il richiamo di Benjamin a Nietzsche, Marx e Freud, che gli consente di giocare la carta della colpa, poiché già Nietzsche afferma che il “basilare concetto morale di ‘colpa ha preso origine dal concetto molto materiale di ‘debito’ e riconduce genealogicamente l’origine dei concetti morali di colpa, coscienza e dovere alla sfera del diritto delle obbligazioni”. Parimenti in Marx “il capitalismo, che non inverte la rotta, diviene, con interessi ed interessi composti che sono funzioni della colpa, socialismo”.
Insomma, seguendo questa logica (sic) anche il socialismo [“nella sua versione industrialista e progressista, ipostatizzante la tecnica e lo sviluppo materiale delle forze produttive”] “appartiene al dominio sacerdotale di questo culto”. Partecipa al culto. Per rafforzare questo assunto Benjamin scrive: “il capitalismo è una religione di mero culto, senza dogma”. Si tratta di un rilievo che del resto si ritrova in Marx, precisamente nel terzo volume de “Il Capitale”, al termine del cap. 35° sul tema dei metalli preziosi e il corso dei cambi, in cui è leggibile quanto segue: “il sistema monetario è essenzialmente cattolico, il sistema creditizio è essenzialmente protestante. Come carta l’esistenza monetaria delle merci ha soltanto un’esistenza sociale. E’ la fede che rende beati [ forse si riferisce alla dottrina di Lutero]. La fede nel valore monetario come spirito immanente delle merci, la fede nel modo di produzione e nel suo ordine prestabilito, la fede nei singoli agenti della produzione come semplici personificazioni del capitale autovalorizzantesi. Ma come il protestantesimo non riesce ad emanciparsi dai principi del cattolicesimo, così il sistema creditizio non si emancipa dalla base del sistema monetario” (Editori Riuniti, p.690). Qui si coglie una certa vicinanza a Weber, una vicinanza ma solo come eco, poiché il capitalismo si sviluppa in occidente senza una vera concorrenza, ma anzi prevalendo sul cristianesimo, così che al completamento del percorso della storia possiamo affermare che il cristianesimo si è trasformato in capitalismo. Ovviamente manca qualcosa per raggiungere l’illimitatezza, e con essa superare l’angoscia che ce la rende necessaria, anche con un impegno sistematico, che poi è la “mancanza di una via di uscita comunitaria, non individuale-materiale”.
Il saggio di Benjamin è stato negligentemente trascurato benché costituisca un’analisi insuperata riguardo al rapporto dell’economia capitalista e la religione. Ancora, dunque, non è stata data risposta alla ricerca condotta da Benjamin su questo tema, per cui non possiamo chiamarci fuori, senza trascendere il contenuto della sua analisi sul capitalismo nel rapporto con la religione. Certamente, l’attuale fase del capitalismo non va confusa con le precedenti, “ ancora orientate all’interno di un’economia della scarsità, dove al culto del mercato bastavano le merci. Ora, le merci non bastano più”. Ora le merci non sono più sufficienti per sostenere il nuovo Dio, il consumismo globalizzato. Il nuovo demone a cui l’uomo non ha ancora trovato una risposta per esorcizzarlo.
Alberto Angeli
Il diritto allo Studio, lo Stato sociale e la Costituzione, di M. Foroni
Se un cittadino ricco e uno povero si presentano, per una emergenza, al pronto soccorso perché bisognosi di cure, non pagano nulla e vengono assistiti allo stesso modo. Tutela della salute, fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività (art. 32 della Costituzione). Come si finanzia la sanità pubblica? Attraverso la fiscalità generale, dove in base al sistema fiscale progressivo chi più ha, più contribuisce. Lo dice, sempre, la Costituzione.
Ciò vale anche per la scuola e l’Università pubblica, ovvero per quell’insieme di prestazioni e servizi pubblici che, insieme ad altre, caratterizzano e definiscono i diritti di cittadinanza. Si chiama Welfare state, ovvero Stato sociale di diritto. Richiamato da numerosi articoli della nostra Costituzione. Lo Stato sociale di diritto si fonda, oltre che sul diritto al lavoro, su tre pilastri fondamentali: il diritto alla salute, il diritto allo studio, il sistema previdenziale/assistenziale.
Il diritto allo studio è uno dei diritti fondamentali ed inalienabili della persona, come enunciato dalla Dichiarazione Universale dei diritti umani dell’ONU (art. 26).
Nell’ordinamento italiano il diritto allo studio è un diritto soggettivo che trova il suo fondamento nell’art. 34, comma 3 e 4, della Costituzione: “I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi. La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso.”
Il diritto allo studio si differenzia dal diritto all’istruzione che è il diritto, sancito dai primi due commi dell’art. 34 per i quali “La scuola è aperta a tutti. L’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita.”
Il diritto allo studio riguarda dunque il percorso scolastico successivo all’obbligo e quello universitario, canali di formazione non obbligatori che il cittadino ha libertà di intraprendere e di concludere e che lo Stato deve garantire attraverso l’erogazione di borse di studio a coloro che si dimostrano capaci e meritevoli ma privi di mezzi economici.
La Costituzione della Repubblica anticipa e amplia tale diritto rispetto alla Dichiarazione universale dei diritti umani, per quanto riguarda l’istruzione nell’articolo 33 e soprattutto nell’articolo 34, che parla di scuola aperta a tutti e di istruzione inferiore gratuita da impartirsi per almeno otto anni; l’obbligo di frequenza e la gratuità non riguardano, al contrario, l’istruzione superiore e quella di livello universitario.
Appare evidente la concezione dell’istruzione e della cultura come un servizio pubblico necessario ad assicurare il pieno sviluppo della persona umana, rispetto alla condizione di partenza sfavorevole di qualcuno. Ciò secondo il principio democratico della pari opportunità per ogni individuo. Quindi, l’impegno dell’autorità pubblica, come richiesto dall’art. 3, secondo comma della Costituzione, consiste nella rimozione di quegli ostacoli di ordine economico-sociale che caratterizzano il cammino di individui capaci e predisposti allo studio avanzato.
L’art. 33 della Costituzione afferma che la Repubblica detta le norme generali sull’istruzione ed istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi. Secondo precedenti sentenze della Corte Costituzionale il diritto di accedere e di usufruire delle prestazioni, che l’organizzazione scolastica è chiamata a fornire, parte dagli asili nido e si estende sino alle università.
Per quanto riguarda gli studi universitari, il dpr 24 luglio 1977, trasferì le funzioni delle opere universitarie alle Regioni. La normativa che regola i principi del settore è Decreto Legislativo 29 marzo 2012, n. 68 che all’art.1 afferma: “Il presente decreto, in attuazione degli articoli 3 e 34 della Costituzione, detta norme finalizzate a rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitano l’uguaglianza dei cittadini nell’accesso all’istruzione superiore e, in particolare, a consentire ai capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, di raggiungere i gradi più alti degli studi. A tale fine, la Repubblica promuove un sistema integrato di strumenti e servizi per favorire la più’ ampia partecipazione agli studi universitari sul territorio nazionale”.
La promozione di un “sistema integrato di strumenti e servizi” si può effettuare anche attraverso la progressiva riduzione e gratuità delle tasse di accesso, che saranno a carico della fiscalità generale. Per la quale la Costituzione ci dice, art. 53, che tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva, e che il sistema tributario è informato a criteri di progressività: ovvero le tasse si pagano in base al reddito e ai patrimoni e chi più ha, più contribuisce. Regola fondativa, secondo il pensiero dei costituenti, del nostro stare insieme collettivo.
Marco Foroni
Riflessione sulla sinistra, di M. Pasquini
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Certo e’ che in questo periodo nella variegata sinistra c’e’ fermento, da qualunque angolature la si veda e’ in atto un ricco e anche variegato dibattito. Vorrei dire la mia. Dall’angolatura di uno di sinistra, dirigente di un sindacato, senza tessera di partito da dieci anni.
Vorrei inizialmente sgomberare il campo da una cazzata che sento spesso ripetere ma tale e’ anche se ripetuta. Mi riferisco alla questione autonomia del sociale e autonomia della politica. Questa e’ una stupidaggine. Non esistono lotte e conflitti senza produrre rappresentanza e sintesi , non esiste rappresentanza, per la sinistra, senza lotte e conflitti. Chi continua a perseverare su questo dualismo e’ ipocrita. Non a caso la Coalizione sociale che aveva proposto Landini e’ per esempio fallita. Fallita nel momento in cui Landini ha negato di rapportare questa anche ad una rappresentanza e sintesi politica.
Io che agisco nel sociale e le mie compagne e i miei compagni dell’Unione Inquilini le nostre cose le facciamo in piena autonomia e senza dipendere da nessuno , ma sentiamo anche la mancanza di una rappresentanza politica che sappia fare sintesi delle nostre lotte e produca innalzamento dei diritti sociali e sappia garantire la possibilita’ di produrre alternativa allo stato di cose presenti.
Da questo punto di vista io non ho bisogno di una sinistra che al massimo produce o propone una rappresentanza di tipo identitaria, come se la partecipazione alle elezioni rappresentasse solo l’occasione di affermare una mera diversità.
Ne’ tanto meno, ho bisogno di una sinistra che si presenti con un orizzonte di una parola che nel cittadini tutti e’ assai squalificata: centro sinistra. Questa parola per i piu’ rappresenta e sintetizza i guasti sociali prodotti negli ultimi 20 anni. Ed in ultimo ancora nessuno riesce a spiegarmi nel centrosinistra chi sarebbe il.centro e chi la sinistra, questo come elementare elemento di chiarezza.
Insomma ho cercato di rappresentare dubbi e impressioni che mi attraversano e con i quali quotidianamente mi rapporto. Per esempio ogni volta che si rinvia uno sfratto esultiamo giustamente ma poi ? La prospettiva deve essere solo il prossimo picchetto? E il prossimo rinvio fino a quando non verra’ eseguito? Ci piace questa forma di conflitto ma senza che questo produca la politica , politica abitativa che garantisce il passaggio da casa a Casa e cosi’ siamo spuntati e a volte involontariamente riversiamo su quella famiglia la nostra voglia di conflitto. Ma quella famiglia desidera conquistare il passaggio da casa a Casa e noi su questa cosa ci sbattimento la testa e diventiamo impotenti perché a volte oltre il conflitto solidale non andiamo.
Massimo Pasquini
Segretario generale dell’Unione Inquilini