capitalismo ottocentesco

La Comune di Parigi: una democrazia operaia. di A. Angeli

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Un dovere celebrare il 152° anniversario della Comune di Parigi, quando nacque il primo governo operaio che influenzò le idee di Karl Marx.

La Comune di Parigi rappresenta storicamente la prima esperienza rivoluzionaria che vide i lavoratori assumere brevemente il potere e dare corpo al primo governo operaio. La rivoluzione operaia nacque 152 anni fa nel mese di marzo, precisamente il 18-03-1871. Il movimento operaio governò la città per 72 giorni tra marzo e maggio 1871, con al centro la libertà e la democrazia. Karl Marx descrisse la Comune di Parigi come: “La prima rivoluzione in cui la classe operaia è stata apertamente riconosciuta come l’unica classe capace di iniziativa sociale, anche dalla gran parte della classe media parigina – negozianti, commercianti, mercanti – il ricco capitalista è il solo escluso”. Frederick Engels in seguito scrisse: “La Comune di Parigi è stata la dittatura del proletariato. La prima esperienza di liberazione dalla schiavitù della borghesia e del patriziato”.

La Comune nasce a seguito di una sconfitta militare francese. Tutto inizia nel 1870, quando scoppiò la guerra tra Francia e Prussia. Le forze francesi furono rapidamente distrutte all’inizio di ottobre 1870 e Parigi fu posta sotto assedio totale. I governanti francesi firmarono un armistizio con la Prussia alla fine del 1870. Il popolo considerò quell’accordo un tradimento, a cui si associarono quanti avevano cercato di difendere Parigi. In particolare l’affare fece infuriare la Guardia Nazionale, una forza che costituita prevalentemente dalle fasce più povere della popolazione.

I testi ci ricordano che il comitato centrale della Guardia Nazionale aveva collocato e approntato 400 cannoni in varie parti della città pronti per l’attacco. Al fine di coordinare e organizzarne il controllo, il capo del nuovo governo provvisorio, uscito dall’armistizio, Adolphe Thiers, ordinò il 18 marzo il sequestro dei cannoni. Questo scatenò una reazione da cui prese corpo la resistenza, che si preparò a fronteggiare l’esercito francese, che nel frattempo era riuscito a mettere al sicuro i cannoni, subito però fronteggiato e ostacolato da miglia di lavoratori che si convogliarono nei punti nevralgici per impedirne l’occultamento. Le donne, nella circostanza, svolsero un ruolo fondamentale nell’intimidire i soldati e alimentare le aspettative della resistenza. A Louise Michel, membro della Guardia Nazionale, fu affidato il ruolo di difendere le armi.

Subito si mosse dirigendosi verso la chiesa e suonò le campane per chiamare a raccolta la popolazione. Richiamò attorno a se oltre 200 donne, per affrontare il forte esercito formato da oltre 3.000 soldati. Questo segnò l’inizio della rivolta. Al proposito, Michel scrisse: “Siamo corsi al doppio suono delle campane, sapendo che c’era pronto ad attaccarci un esercito in formazione di battaglia. Ci aspettavamo di morire per la libertà. Tutto il genere femminile era al nostro fianco, non so come ma abbiamo vinto il primo scontro.»

Nel frattempo Thiers ordinò ai soldati di sparare contro la mobilitazione e disarmare gli operai. Ma i soldati rifiutarono, portando sezioni dell’esercito a unirsi ai parigini contro i generali. Due di questi furono assassinati dai loro soldati. Allora Thiers ordinò l’evacuazione di Parigi. Le donne durante la rivolta si comportarono come gli uomini e parteciparono attivamente alla costruzione delle barricate, brandirono le armi e si unirono a comitati. Molte di loro pretesero e ottennero un comando e si dimostrarono all’altezza del compito e spesso più coraggiose degli uomini. Con il loro esempio anticiparono quello che divenne poi il pensiero di Karl Marx. Infatti, Marx, sapeva che per raggiungere la liberazione le donne dovevano lottare per sé stesse. “È vero, forse, che alle donne piacciono le ribellioni contro il potere. Non siamo migliori noi uomini quanto al potere, ma il potere non ci ha ancora corrotti e noi guardiamo con interesse al ruolo delle donne ”.

Il 26 marzo i lavoratori si riunirono e deliberarono di eleggere un proprio consiglio che lavorasse nel proprio interesse per la sicurezza e la liberazione. Marx scrisse: “Il vecchio mondo si contorceva in convulsioni di rabbia alla vista della bandiera rossa”. Engels da parte sua aggiunse: «la Comune si servì di due espedienti infallibili. In primo luogo la creazione dei responsabili di tutti i posti di comando mediante le elezione. In secondo luogo, tutti i funzionari, indipendentemente dal grado, furono retribuiti come gli altri lavoratori, una parità di trattamento introdotta per prevenire il carrierismo”. A differenza dei parlamenti borghesi, infatti, tutti i membri degli organismi dirigenti furono eletti democraticamente con il voto dei lavoratori in rivolta. La Comune fece della Guardia Nazionale il principale corpo armato. Allo scopo fu introdotto un tetto salariale, fu deliberato di chiudere i banchi dei pegni e sospeso il debito dello Stato e sancita la separazione tra chiesa e stato, stabilendo la libertà delle religioni allora presenti nella Comune e la laicità dello stato. Fu abolito il lavoro minorile, concesse pensioni alle vedove/vedovi della guardia uccisa e fu stabilito il diritto dei dipendenti a rilevare un’attività.

l’internazionalismo venne assunto come visione del nuovo rapporto con gli altri popoli per la conquista della pace perpetua, impegnando la Comune a difendere l’autodeterminazione dei popoli, quale punto di riferimento della nuova politica verso gli altri Stati. Forte fu la spinta, da parte dei lavoratori, a combattere ogni proposito nazionalista rivendicato dagli ex leader della borghesia aristocratica e dalla nobiltà, poiché in contrasto con l’ideale della fratellanza universale che deve unire tutti i popoli e le razze, senza diversità alcuna sia culturale che di colore. “La bandiera della Comune è la bandiera della repubblica mondiale”, venne sancito dalla rivoluzione.

Tuttavia, una parte della classe aristocratico/borghese sopravvissuta alla rivoluzione, che manteneva ancora un controllo sulle grandi proprietà terriere, le attività commerciali e il controllo dei porti e delle dogane, manifestò la sua insoddisfazione e si dichiarò contraria alla leadership della Guardia Nazionale. Ma, il suo vero obiettivo era di impedire ai lavoratori la gestione amministrativa e politica della nuova realtà, conquistata con la rivoluzione. Infatti, superate le divergenze tra aristocrazia e borghesia, accantonate le differenze politiche nazionaliste preesistenti con i generali Prussiani, si unirono per mettere in atto la distruzione delle organizzazioni armate dei lavoratori parigini. Una reazione che Marx aveva purtroppo previsto. La Comune non poté raggiungere il suo obbiettivo del pieno potere statale poiché le forze che si organizzarono contro di essa si rivelarono troppo grandi e meglio organizzate. La prima reazione prese corpo il 21 maggio, allorché le forze statali fecero irruzione in città e massacrato le truppe rivoluzionarie e i civili della Guardia Nazionale. Dopo sette giorni di terribili scontri il 28 maggio la Comune fu soppressa dall’esercito, cui seguì una dura repressione, con oltre 30.000 morti durante i combattimenti o giustiziate direttamente una volta capitolare. I processi militari, che ne breve tempo vennero organizzati, coinvolsero ulteriori 40.000 ex combattenti o organizzatori della Comune, con conseguenti esecuzioni, lavori forzati o incarcerati con pene che prevedevano l’isolamento totale fino alla morte. Furono ripristinati i benefici a favore della borghesia, dei nobili e del clero reinsediando i privilegi del patriziato.

La Comune era stata schiacciata, sconfitta, cancellata. E tuttavia la breve esperienza della rivoluzione Comunarda offriva alla storia un esempio concreto di un nuovo modello di società democratica, egualitaria, rispettosa dei diritti e delle differenze di genere e per il superamento delle divisioni di classe sociale. La Comune è stata cruciale nel pensiero di Karl Marx, sia sull’importanza del concetto di classe che sul ruolo dello stato. La riflessione su quella rivoluzione gli ha permesso di approfondire e ampliare le sue idee. E quell’esperienza e le riflessioni elaborate da Marx sono ancora oggi una lezione storica, la quale, seguendo le sue parole, “sarà celebrata per sempre come il glorioso precursore di una nuova società e i suoi martiri saranno custoditi nel grande cuore della classe operaia”

Alberto Angeli

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Pierre-Joseph Proudhon. di A. Angeli

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Il 19 gennaio 1865 muore Pierre-Joseph Proudhon , ( era nato il 15 gennaio 1809, Besançon, Francia), libertario francese, socialista e giornalista. Il suo pensiero si spinse oltre il socialismo fino a elaborare dottrine radicali improntate ad una visione anarchica . Nacque in povertà, come figlio di un incapace bottaio e taverniere, e all’età di nove anni lavorò come pastore nelle montagne del Giura . L’infanzia trascorsa in campagna e l’ascendenza contadina di Proudhon influenzarono le sue idee fino alla fine della sua vita, e la sua visione della società ideale rimase quasi fino alla fine quella di un mondo in cui i contadini e i piccoli artigiani, come suo padre, potessero vivere in libertà e una povertà dignitosa, perché il lusso gli ripugnava, e non lo cercava mai per sé o per gli altri.

Proudhon in tenera età mostrò i segni della brillantezza intellettuale e vinse una borsa di studio per il college di Besançon. Nonostante l’umiliazione di essere un bambino in sabot (scarpe di legno) tra i figli di mercanti, sviluppò il gusto per l’apprendimento e lo mantenne anche quando i disastri finanziari della sua famiglia lo costrinsero a diventare un apprendista tipografo e poi un compositore. Mentre imparava il mestiere, imparava da solo il latino, il greco e l’ebraico, e in tipografia non solo conversava con vari liberali e socialisti locali, ma incontrava e subiva l’influenza di un concittadino di Besançon, l’utopista socialista Charles Fourier .

Con altri giovani stampatori, Proudhon tentò in seguito di fondare la propria stampa, ma una cattiva gestione distrusse l’impresa. Questa esperienza alimentò in lui un crescente interesse per la scrittura, che lo portò a sviluppare una prosa francese difficile da tradurre ma ammirata da scrittori vari come Flaubert, Sainte-Beuve e Baudelaire. Alla fine, nel 1838, una borsa di studio assegnata dall’Accademia di Besançon gli permise di studiare a Parigi . Ora, con il tempo libero per formulare le sue idee, scrisse il suo primo libro significativo, Qu’est-ce que la propriété? (1840;Cos’è la proprietà? , 1876). Ciò creò scalpore, poiché Proudhon non solo dichiarò: “Sono un anarchico”; ma affermò: “La proprietà è un furto!”

Questo slogan, che acquistò molta notorietà, fu un esempio dell’inclinazione di Proudhon ad attirare l’attenzione ea mascherare la vera natura del suo pensiero inventando frasi sorprendenti. Non ha attaccato la proprietà nel senso generalmente accettato, ma solo il tipo di proprietà con cui un uomo sfrutta il lavoro di un altro. La caratteristica della proprietà che lui distingueva da quella sfruttatrice si identificava nel diritto dell’agricoltore di possedere la terra che lavora e dell’artigiano la sua officina e i suoi strumenti – che considerava essenziale per la conservazione della libertà. La sua principale critica al comunismo, sia di tipo utopico che marxista , era che distruggeva la libertà togliendo all’individuo il controllo sui suoi mezzi di produzione. Nell’atmosfera un po’ reazionaria della monarchia di luglio negli anni Quaranta dell’Ottocento, Proudhon venne accusato per le sue dichiarazioni in Cos’è la proprietà? ; fu portato in tribunale quando, nel 1842, pubblicò un sequel più provocatorio, Avertissement aux propriétaires ( avviso ia proprietari, 1876). In questo primo dei suoi processi, Proudhon sfuggì alla condanna perché la giuria ritenne coscienziosamente di non poter comprendere chiaramente le sue argomentazioni e quindi di non poterle condannare.

Nel 1843 si recò a Lione per lavorare come impiegato amministrativo in una ditta di trasporti d’acqua. Lì incontrò una società segreta di tessitori , la Mutualisti, che avevano sviluppato una dottrina protoanarchica che insegnava che le fabbriche della nascente era industriale potevano essere gestite da associazioni di lavoratori e che questi lavoratori, con l’azione economica piuttosto che con la rivoluzione violenta, potevano trasformare la società. Tali punti di vista erano in disaccordo con la tradizione rivoluzionaria giacobina in Francia e il suo centralismo politico. Tuttavia, Proudhon accettò le loro opinioni e in seguito rese omaggio ai suoi mentori e rappresentanti della classe operaia lionese adottando il nome di Mutualismo per la sua forma di anarchismo .

Oltre a incontrare gli oscuri teorici della classe operaia di Lione, Proudhon conobbe anche la femminista socialista Flora Tristan e, nelle sue visite a Parigi, fece la conoscenza di Carlo Marx ,Mikhail Bakunin e il socialista e scrittore russo Aleksandr Herzen. Nel 1846 contestò contro Marx l’organizzazione del movimento socialista, opponendosi alle idee autoritarie e centraliste. Poco dopo, quando Proudhon pubblicò il suo Système des contradditions économiques, ou Philosophie de la misère (1846 Contraddizioni del sistema economico e Filosofia della povertà del 1888), Marx lo attaccò aspramente in un libro polemico “La misère de la philosophie” ( La povertà della filosofia ). Fu l’inizio di una frattura storica tra socialisti libertari e autoritari e tra anarchici e marxisti che, che dopo la morte di Proudhon, avrebbe lacerato il socialismo, aprendo un duri contrasto filosofico e poltico tra Marx e il discepolo di Proudhon Bakunin, contrasto filosofico che sopravvive ancora oggi.

All’inizio del 1848 Proudhon abbandonò il suo incarico a Lione e andò a Parigi, dove in febbraio fondò il giornale Le Représentant du peuple. ( La Rappresentanza del popolo ). Durante l’anno rivoluzionario del 1848, e nei primi mesi del 1849, curò un totale di quattro giornali; i primi erano periodici anarchici più o meno regolari e tutti furono a loro volta distrutti dalla censura del governo. In seguito svolse una parte minore nella Rivoluzione del 1848 , che considerava priva di qualsiasi solida base teorica. Anche se fu eletto all’Assemblea Costituente della Seconda Repubblica nel giugno 1848, si limitò principalmente a criticare le tendenze autoritarie che stavano emergendo nella rivoluzione e che portarono alla dittatura di Napoleone III . Proudhon ha anche tentato senza successo di istituire una banca popolare basata sul credito reciproco e sugli assegni di lavoro, che pagava il lavoratore in base al tempo impiegato per il suo prodotto. Alla fine fu imprigionato nel 1849 per aver criticato Louis-Napoleon, che era diventato presidente della repubblica prima di dichiararsi imperatore Napoleone III; Proudhon rimase in prigione fino al 1852.

Le sue condizioni durante la prigionia erano, per gli standard del XX secolo, leggere. I suoi amici potevano fargli visita e gli era permesso di uscire occasionalmente e girare per Parigi. Si sposò e generò il suo primo figlio mentre era in prigione. Dalla sua cella curò anche gli ultimi numeri del suo ultimo giornale (con l’assistenza finanziaria di Herzen) e scrisse due dei suoi libri più importanti, i mai tradotti Confessions d’un révolutionnaire (1849) e Idée générale de la révolution au XIX del secolo (1851;L’idea generale della rivoluzione nell’Ottocento pubblicato nel 1923). Quest’ultimo – nel suo ritratto di una società mondiale federale con frontiere abolite, stati nazionali eliminati e autorità decentralizzata tra comuni o associazioni di località, e con contratti liberi che sostituiscono le leggi – presenta forse più completamente di qualsiasi altra opera di Proudhon la visione del suo ideale di società. Dopo la scarcerazione, avvenuta nel nel 1852, fu costantemente vessato dalla polizia imperiale; trovò impossibile pubblicare i suoi scritti e si mantenne preparando guide anonime per investitori e altri simili lavori di hacking. Quando, nel 1858, convinse un editore a pubblicare il suo capolavoro in tre volumi “De la Justice dans la Révolution et dans l’église”, in cui opponeva una teoria umanistica della giustizia ai presupposti trascendentali della chiesa, il suo libro fu sequestrato. Fuggito in Belgio, fu condannato in contumacia a un’ulteriore reclusione. Rimase in esilio fino al 1862, sviluppando le sue critiche al nazionalismo e le sue idee di federazione mondiale (incarnate in Du Principe fédératif, 1863).

Al suo ritorno a Parigi, Proudhon cominciò a guadagnare influenza tra gli operai. Gli artigiani parigini che avevano adottato le sue idee mutualiste furono tra i fondatori della Prima Internazionale poco prima della sua morte nel 1865. La sua ultima opera, completata sul letto di morte, De la capacité politique des classs ouvrières (1865), sviluppò la teoria secondo cui la liberazione dei lavoratori deve essere il loro compito più impegnativo, da attuare attraverso l’azione economica.

In sintesi: Proudhon non fu il primo ad enunciare la dottrina che oggi si chiama anarchismo; prima che lo rivendicasse, era già stato abbozzato, tra gli altri, dal filosofo inglese William Godwin e reso in prosa e dal suo seguace Percy Bysshe Shelley in versi. Proudhon era un pensatore solitario che rifiutava di ammettere di aver creato un sistema e detestava l’idea di fondare un partito. C’era quindi qualcosa di ironico nell’ampiezza dell’influenza che le sue idee svilupparono in seguito. Erano importanti nella Prima Internazionale e in seguito divennero la base della teoria anarchica sviluppata da Bakunin (che una volta osservò che “Proudhon era il maestro di tutti noi”) e dallo scrittore anarchico Peter Kropotkin. I suoi concetti furono influenti tra gruppi così vari come i populisti russi , i nazionalisti radicali italiani degli anni Sessanta dell’Ottocento, i federalisti spagnoli degli anni Settanta dell’Ottocento e il movimento sindacalista che si sviluppò in Francia e divenne poi potente in Italia e in Spagna. Fino all’inizio degli anni ’20, Proudhon rimase l’influenza più importante e riferimento del radicalismo della classe operaia francese, mentre in maniera più diffusa le sue idee di decentramento in altri Paesi e le sue critiche al governo trovarono la loro rinascita nel tardo XX secolo, anche se a volte la loro origine non è stata ricondotta al filosofo Proudhon.

Alberto Angeli

Idealismo e materialismo. di R. C. Gatti

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Renato Gatti

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Se io, dalle mele, pere, fragole, mandorle – reali – mi formo la rappresentazione generale “frutto”, se vado oltre e immagino che il “frutto” – la mia rappresentazione astratta, ricavata dalle frutta reali – sia un’essenza esistente fuori di me, sia anzi l’essenza vera della pera, della mela, ecc., io dichiaro – con espressione speculativa – che “il frutto” è la “sostanza” della pera, della mela, della mandorla ecc. Io dico quindi che per la pera non è essenziale essere pera, che per la mela non è essenziale essere mela. L’essenziale, in queste cose, non sarebbe la loro esistenza reale, sensibilmente intuibile, ma l’essenza che io ho astratto da esse e ad esse ho attribuito.

Karl Marx (La sacra famiglia)

Leggendo l’interessantissimo articolo di Paolo Borioni su Pandora ho avvertito un disagio, che ho fatto fatica a inquadrare, ma che covando nel profondo ha messo in moto un processo di ricerca e riflessioni che spero di tradurvi nel seguito di questo intervento. Vediamo quel che dice il Borioni.

Escludere lo sfruttamento

Il titolo, il messaggio dell’articolo è l’esclusione dello sfruttamento indicato come l’obiettivo comune della “parabola storica del liberalismo e del possibile incontro con il pensiero socialista”. Il riferimento storico si rifà al New Deal e alla socialdemocrazia, periodi in cui “ le società occidentali riuscirono a creare le condizioni affinché il capitalismo non dominasse indisturbato impedendo che esso dispiegasse i suoi effetti più negativi”. E si rifà pure agli anni tra il 1930 e il 1980 anni in cui “un movimento operaio organizzato ha spinto ad attuare politiche di riforme per costringere gradualmente il capitalismo a non usare lo sfruttamento come leva competitiva. Si tratta di politiche di welfare, della domanda, politiche attive del lavoro, di investimento pubblico, che sono state sviluppate e coordinate per dimostrare che l’innovazione avviene meglio e più sistematicamente qualora vengano esclusi gli incentivi a competere mediante lo sfruttamento”. ”Il recupero del consenso popolare, la ricostruzione di una democrazia partecipata, il rifiuto del neolibelarismo globale e dell’ordolibelarismo europeo passano per il confronto con il capitalismo in merito all’ammissibilità dello sfruttamento”.

Definire lo sfruttamento

Quando andiamo a definire lo sfruttamento abbiamo due contributi:

quello di Roosvelt che “permette di identificare il punto fondamentale di una possibile congiunzione fra liberalismo e socialismo democratico: Nessuna impresa che dipenda, per il suo successo, dal pagare i suoi lavoratori meno di quanto serva loro per vivere ha diritto di sopravvivere in questo Paese” (Discorso sul National Recovery 1933);

quello del primo ministro danese Krag che “scriveva nel 1944 I socialisti lottano per una distribuzione del reddito molto più egualitaria dell’attuale (…) più è ineguale la distribuzione del reddito, maggiore è il risparmio (…) maggiore è il pericolo che esso sia così grande che non ne seguano investimenti e allora abbiamo la crisi” (In Anderson Socialistiske okonomer og Keynes)

Ovviamente la definizione di Roosvelt è molto limitante essendo addirittura più limitata della concezione che il capitalismo ha del salario, esso infatti deve bastare non solo alla sopravvivenza dei suoi lavoratori ma anche alla loro riproduzione finalizzata a sostituire la mano d’opera che viene a mancare e ad alimentare un esercito di riserva.

Viene allora introdotto il concetto di welfare che “non va considerato come un mero diritto di cittadinanza liberale, ma anche come un sistema che influisce sul mercato del lavoro, determinando il grado di maggiore o minore mercificazione dei lavoratori, di coloro che in altri contesti siano indicati come persone o cittadini”. “Il mercato del lavoro appare dunque un ambito decisivo, in quanto è la dignità del lavoro, più di altre sfere, a determinare la qualità dell’essere persona o cittadino. In un contesto capitalistico attenuare le protezioni (o le politiche per la piena occupazione) implica per i lavoratori l’essere sfruttati in condizioni di crescente minorità”.

Quali programmi allora

Si può dunque comprendere su quale tipo di keynesismo socialisti e liberal possono trovare un punto di convergenza” “parità capitale-lavoro che si congiunga a un insieme di politiche che prevedano la protezione dei salari, la produzione delle competenze – ovvero le politiche attive del lavoro – e del concorso pubblico (in aggiunta a quello privato) come garanzia della domanda reale delle competenze prodotte”. “Dunque sulla strada verso un’innovazione democratica, un’economia senza sfruttamento, occorre potenziare e coordinare investimento progettuale, politiche attive, ricerca e welfare concependo quest’ultimo come pavimento che escluda l’economia informale e precaria. Chi lavora deve poter contare su un’assicurazione ampiamente finanziata dallo Stato, la quale in caso di mobilità, garantisca un tasso di sostituzione prossimo all’ultima retribuzione percepita, con una distanza minore per i salari più bassi. A coloro invece che perdono o non possano disporre di queste prestazioni è necessario garantire un reddito meno elevato ma significativo, vicino all’attuale reddito di cittadinanza. Entrambi questi strumenti dovrebbero essere connessi, nel modo più sistematico possibile a politiche attive che siano a loro volta legate all’investimento di lungo periodo”.

Mie considerazioni

Il modello socialdemocratico nordeuropeo che l’autore ci indica, ci rimanda ad un’altra domanda ovvero se quel modello sia ancora il modello adeguato alla storia attuale. Non sottovaluto le conquiste di quel modello, anzi ci sarebbe da dire magari lo avessimo anche noi, tuttavia non possiamo nasconderci che forse la situazione in cui viviamo ci chiede qualche ripensamento. Il modello che ci viene proposto è il classico modello alla Olof Palme con la sua metafora del pelo da radere senza ledere la pecora. Ecco che allora dobbiamo rivolgere il ragionamento sullo stato di salute della pecora e se, stante quello stato di salute, dobbiamo pensare ad un riformismo con quella pecora, all’interno cioè di quella struttura od invece non sia tempo di pensare a riforme di struttura (riprendo le parole di Riccardo Lombardi), che mettano cioè in discussione l’attuale struttura proponendo e perseguendo un nuovo modello di sviluppo.

La vera differenza che esiste all’interno del pensiero socialista sta, a mio parere, proprio in questa alternativa tra un riformismo dell’esistente modello di sviluppo e un atteggiamento riformatore di superamento dell’attuale modello di sviluppo. Mi pare che questo argomento dialettico sia sempre stato presente e che oggi, o forse da sempre, sia giunto ad un livello finale.

Eppure, in un suo passaggio, Paolo Borioni centra, a mio modo di vedere, il punto filosofico essenziale del pensiero socialista; egli scrive “La prima deriva da quanto appena affermato: anche se in un orizzonte riformista e democratico il socialismo deve, con i suoi alleati, contendere al capitalismo la nozione di razionalità economica”.

Ma questa razionalità economica non nasce nel regno dell’idealismo disgiunto dalla storia e dall’evidenza delle cose, essa deve nascere dall’osservazione e dalla critica del reale. (Mi riviene alla mente la Filosofia della miseria di Proudhom cui Marx rispose con la Miseria della filosofia). Quando Roosvelt, come ci ricorda l’autore, tenta di creare “le condizioni affinchè il capitalismo non dominasse indisturbato, impedendo che esso dispiegasse i suoi effetti più negativi” non giunge a questa conclusione da riflessioni speculative, ma sull’onda della crisi del ‘29. Crisi alla quale ne sono seguite innumerevoli altre, fino a quella del 2007 i cui effetti sono ancora pesantemente lì a condizionare la vita dei paesi. E tali crisi sono destinate a ripetersi probabilmente sempre più di frequente e sempre più gravi.

C’è da chiedersi quindi se si può pensare ad un riformismo all’interno di questo modello di sviluppo o se invece la “razionalità economica” del socialismo non debba rivendicare il suo primato e indicare un nuovo modello di sviluppo.

Certo la dignità del lavoratore, la protezione dei salari, la lotta alle disuguaglianze, la protezione assicurativa, il welfare etc. sono tutte cose auspicabili ma esse non colgono il vero punto della situazione attuale. Ci sono obiettivi che questo tipo di approccio lascia negletti: cosa produrre, come produrre, quali investimenti strategici privilegiare, quale domani preparare per le nuove generazioni etc. Ma sarà o no una cosa importante se partecipare o meno alla costruzione del sincrotrone del CERN, se investire nella ricerca, nella sanità, nella scienza. Basta la democrazia formale senza una reale eguaglianza tra capitale e lavoro?

Il monopolio del capitale nelle scelte politiche è il vero ente programmatore del nostro futuro, ed oggi il capitale proprio a causa dell’inadeguatezza del sistema produttivo capitalistico ad affrontare le crisi che esso stesso produce, di fronte alle difficoltà del produrre un saggio di profitto soddisfacente al capitale stesso, alle difficoltà di mantenere l’egemonia imperialistica, non può che tentare di trovare nuove fonti di profitto dalla emarginazione del mondo del lavoro utilizzando il miglior prodotto del lavoro stesso, ovvero la tecnologia, e d’altro canto ricercare nella finanziarizzazione una fonte di profitto più elevato di quel che la crisi produttiva possa oggi produrre.

Questi due elementi, ovvero:

l’appropriazione da parte del capitale del bene comune rappresentato dalla tecnologia, frutto tipico del mondo del lavoro, utilizzato come mezzo di contrasto alla caduta del saggio tendenziale del profitto;

la fuga del capitale dal mondo produttivo verso la finanza che, per sua natura, non crea ricchezza ma la sposta dagli outsiders verso gli insiders nella più classica espressione dell’income by appropriation;

sono le basi materialistiche di interpretazione della realtà, cui andrebbero a mio parere dedicati i nostri sforzi. Gli sforzi per scavare diritti, protezioni, dignità, welfare all’interno di una struttura in crisi di sopravvivenza, sono sforzi, a mio modo di vedere senza speranza, e meglio andrebbero impegnati per affermare la razionalità economica del socialismo.

Renato Costanzo Gatti

La Sinistra rimetta al centro il conflitto, il lavoro, la questione sociale. di P. P. Caserta

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Quanti hanno a cuore oggi la ricostruzione di una sinistra che sia terza e autonoma dovrebbero stare attenti a non finire nel tritacarne neoliberale del movimentismo post-ideologico.

È un rischio sempre incombente, lo abbiamo visto con il M5S, lo stiamo vedendo con le sardine (anche se tra i due movimenti ci sono sia assonanze che differenze) e lo vedremo, credo, ancora in forme nuove. Non si tratta di disprezzare nessuno, ma solo di capire che non si può pensare di affidare ai movimenti post-ideologici il lavoro che è nostro. Non solo questo, in realtà. Tra le braccia di questi movimenti sono finite e finiscono molte delle speranze dei delusi della sinistra. Bisogna, allora, trovare il modo di rendere chiaro che un vasto coinvolgimento di massa non rende un movimento popolare nello scopo. I movimenti post-ideologici, figli della ritirata e della disintermediazione della politica, sono elitisti nell’essenza. Non c’è bisogno di alcuna dietrologia per affermare questo, è più che sufficiente leggerne le premesse reali. Sono movimenti organici alla polarizzazione del dibattito ideologico da tempo in essere, che riduce l”alternativa” alla falsa scelta tra un blocco nazional-populista e uno elitista, in un gioco di specchi, di legittimazione reciproca, che deve escludere una politica popolare.

Si risponde decostruendo i movimenti ma si risponde, soprattutto, essendo sinistra oltre i nominalismi, tornando nei luoghi del conflitto, mettendo al centro il Lavoro e la questione sociale, lavorando, in connessione con le migliori realtà nella scena internazionale, alla costruzione di una sinistra né populista né elitista, ma popolare ed eco-socialista.

Il fatto che la sinistra debba tornare nei luoghi del conflitto non significa che debba tornare semplicemente nei vecchi luoghi. Occorre, invece, leggere i nuovi luoghi e le nuove forme del conflitto, che è sempre in primo luogo il conflitto tra Capitale e lavoro e le cui forme mutano nel tempo. In effetti, a me pare che l’errore qui sia stato duplice: a volte la sinistra ha abbandonato i luoghi del conflitto, persino il tema del conflitto. In altri casi è tornata nei vecchi luoghi del conflitto, ma non vi ha trovato quasi più nessuno, mentre altrove, nei luoghi nuovi, la sofferenza e il risentimento crescevano, e altri avanzavano per intercettarli, rappresentarli e canalizzarli.

Questi due errori corrispondono approssimativamente alla pseudo-sinistra neoliberista e alla sinistra vetero-comunista nelle sue forme più sclerotizzate. Anche per questo c’è bisogno del Socialismo, che ha la cultura di non irrigidirsi in formule interpretative definitive e chiuse della realtà sociale. 

Il conflitto si è spostato. Le nuove forme del conflitto non sostituiscono le vecchie, vi si aggiungono. Da questo non si può prescindere e occorre riprendere il filo.

Pier Paolo Caserta

Un colloquio improbabile con Karl Marx. di A. Angeli

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Alberto Angeli 2

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L’emozione non seguiva lo scandire del tempo. Non ricordavo da quanto stessi aspettando, seduto al tavolo all’interno del bellissimo Pub Museum Tavern, n.49 D. Great Russell, street Bloomsbury  di Londra, di fronte al magnifico Brithish Museum. Davanti, sul tavolo, stavano in bella mostra due bicchieri contenenti dell’ottimo whisky Scozzese. Pensai che il mio ospite avrebbe gradito, poiché mi ero bene informato sulle sue abitudini e le preferenze in materia di drink. Finalmente! L’uomo che espettavo aveva fatto il suo ingresso nel Pub e l’Host, da me precedentemente informato, con un cenno elegante e carico di rispetto lo aveva invitato a seguirlo conducendolo al mio tavolo. Impacciato mi alzai e porsi la mano presentandomi, ma l’ospite, senza proferire una parola, si sedette. “Sono Karl Marx”. La presentazione, così diretta e quasi brusca, mi lasciò per un attimo interdetto. “Ehm, ehm, sono piacevolmente sorpreso, non credevo che avrebbe accettato la mia richiesta d’incontrarla, distogliendola dal suo impegno di ricerca che sta conducendo presso  il Brithish Museum”, risposi, riprendendo la mia padronanza. “Nessuna intervista, sia chiaro. Solo una chiacchierata, è questo il nostro accordo”, precisò Marx, con tono perentorio, mentre sorseggiava con voluttà e senza imbarazzo l’whisky. “ Si, certo, mi atterrò a quanto concordato: niente domande. Lascio a lei la parola e la scelta del tema, magari iniziando con una delle sue dotte frasi  riguardanti l’aura della sua opera economica e filosofica”.

La mia preferita resta: “y a ce qu’il de certain c’est que moi, je ne suis pas marxiste”. [ciò che è certo è che non sono un Marxista ] della quale mi sono servito in molte circostanze imbarazzanti. Si tratta della risposta che ho dato a tutte le insistenti richieste a lasciarmi intervistare. Landor, corrispondente del World, è l’unico a cui concessi di intervistarmi, a Londra il 3 luglio 1871. Ricordo la data perchè un paio di mesi prima, la Comune di Parigi, a cui avevo partecipato, era stata soffocata nel sangue. Ma torniamo al presente. Per recuperare il tempo durante il quale sono stato assente dalla scena politica mondiale, negli ulti anni mi sono dovuto documentare e ho scoperto con piacevole sorpresa che la mia faccia è assunta a simbolo di una speranza di cambiamento. Mi viene spontaneo ricordare la frase: uno spettro si aggira per il mondo e ha la fisionomia ed il nome di Karl Marx. Ciò a dispetto dei miei critici o ex Marxisti, che hanno deliberato la mia damnatio memoriae. Insomma, per un lungo periodo sono stato ostracizzato, ignorato e i mie libri bruciati. Ma anche per questo  ho  una massima ‘de omnibus dubitandum est’ (“bisogna dubitare di tutte le cose”) cioè dubito dell’intelligenza di chi ha pensato, e tuttora pensa, che ignorando il mio pensiero e quello di Engels, il mondo si sia rivelato migliore, e a conferma le informazioni e le notizie su questo inizio del 2020 non mi paiono le più rassicuranti”.

Ma sono ancora tanti i seguaci che si dichiarano Marxisti, studiosi che interpretano e diffondono il suo pensiero”. Intervenni, interrompendo l’eloquio di Marx, con tono rispettoso, ma interrogativo.

 Marx, scuotendo il capo si affrettò ad affermare quasi a scolpire le parole: “le mie teorie non sono mai state dominanti. Ho avuto dei seguaci che non mi sono scelto o cercato, e per i quali ho meno responsabilità di quante ne abbiano Gesù per Torquemada o Maometto per Osama bin Laden. I seguaci che si nominano da soli sono il prezzo del successo”. Fece una breve pausa, per riprendere subito il filo del discorso. “ Parlano tutti di classi, strutture, determinismo economico, rapporti di potere, oppressi e oppressori. E fanno tutti finta di avermi letto. Dovrei pensare che questo costituisca un chiaro segno di successo. Altri mettono in dubbio la mia opera filosofica e mi accusano di eccessivo economicismo. Eppure, se guardiano all’evolversi della storia, quanto avevo ragione ad essere ossessionato dall’economia! Siete tutti ossessionati dall’economia e, nel prevedibile futuro, lo rimarrete. Non ho bisogno di spiegarlo ai lettori del Financial Time, del Wall Street Journal e dell’Economist. Né ai politici che promettono il paradiso in terra e poi dicono che ‘non si può evitare il mercato’, e che la globalizzazione e la finanziarizzazione dell’economia [l’attuale parola usata per sostituire l’espressione capitalismo mondiale] è inarrestabile. Alcuni insistono nell’affermare che la borghesia sia stata una mia invenzione, e se anche fosse mai esistita come struttura politica sociale ed economica, interessata a sostenere l’efficienza del capitalismo, nel corso della storia è stata sostituita dal ceto medio, oggi in crisi in quasi tutti i paesi occidentali. Ciò che io ho scritto al proposito ha un riscontro storico nei fatti e questi confermano che quando la borghesia è minacciata, dà il potere a chiunque è in grado di toglierla dai guai. A chi importa dei diritti civili, delle elezioni, della libertà di stampa e della pace quando il dominio del capitale è in pericolo? L’aristocrazia e la borghesia, con il sostegno del capitalismo, sono stati gli azionisti delle due grandi guerre del XX secolo, al termine delle quali la contabilità delle vittime è di oltre 85 milioni tra civili e militari, ma non furono gli aristocratici e i borghesi a morire al fronte a soffrire la fame e a morire per le malattie, ma i proletari, i poveri delle periferie delle grandi città, i braccianti , i piccoli affittuari e i mezzadri, cioè la classe proletaria delle campagne. A questi dati si devono aggiungere le numerose guerre che hanno caratterizzato questo secolo definito breve dallo storico Britannico Eric Hobsbawm, quasi tutte di natura civile o territoriale: crisi economiche; speculazione finanziaria; cicli depressivi; disoccupazione diffusa; crisi del mondo socialista. Un’altra prova della resistenza del capitalismo a ogni mutamento sociale e politico, si riscontra anche nel fatto che la fine del colonialismo non abbia effettivamente determinato la liberazione dei paesi e dei popoli interessati, poiché sono rimasti prigionieri delle logiche imperialistiche, le quali usano ogni mezzo  per mettere in atto politiche predatorie delle risorse e ricchezze naturali di questi popoli, sono fatti sui quali non è possibile equivocare e contraddirmi”.

Già, ma è anche il secolo in cui è caduto il muro e i paesi dell’ex blocco Sovietico hanno scelto di aderire al sistema del mercato occidentale, adottando forme di governo democratiche e parlamentari, consegnando al popolo la libertà di scegliere, con il voto, i propri governanti,  l’unica strada per garantire i diritti, la libertà, sicure prospettive di pace e di progresso economico”. Aggiunsi in fretta.

Senza tradire segni di sorpresa per quanto da me rilevato, Marx riprese il suo discorso: “ Ho parlato di fatti, sui quali non si può indulgere. Allora a questi fatti si deve aggiungere sicuramente la fine del potere del cosiddetto socialismo Sovietico e la “liberazione” dei paesi satelliti, il cui simbolo è la caduta del muro. Ma si può affermare che il mondo è oggi migliore solo perché non c’è più il blocco Sovietico? Quanto sta accadendo in questo inizio del XXI secolo, siamo nel 2020, non può essere giustificato urlando: “ ma è colpa dei comunisti!”. Trump, Putin, Erdogan,  Kim Jong-un,  Xi Jinping, sono identificabili come autoritari i primi e dittatori i secondi; ma devo anche stabilire una verità:  Corea del Nord e Cina non sono la misura di tutte le cose, per citare Protagora, non sono comunisti, non sono socialisti, ma una degenerazione del capitalismo finanziario consumistico. E il mondo non è più pacifico, e le guerre non sono terminate in questo primo ventennio del XXI secolo.  Lo sfruttamento dei paesi ex coloniali prosegue, con l’aggravante dei colpi di stato, le guerre civili, i genocidi, la distruzione dell’ambiente e la violenza al clima, sono fatti che bruciano ogni speranza di milioni di esseri umani, che fuggono da questi disastri e si trasformano in migranti alla ricerca di un posto sicuro, la salvezza, anche mettendo a rischio la propria vita e quella dei propri figli. Sono i nuovi proletari del capitalismo del XXI secolo, isolati da tanti altri muri costruiti lungo i confini dell’America  fino all’Europa dei Paesi di Visegrad. ‘Proletari di tutti i paesi unitevi’ è il proclama con il quale io ed Engels, nel lontano 1848, scrivemmo il Manifesto del Partito comunista. L’Unione Sovietica lo adottò come motto a rappresentare l’internazionalismo operaio. Uno dei concetti fondamentali che compongono la lunga analisi del Manifesto è che la produzione economica, e la struttura della società che da essa necessariamente ne consegue, forma, in ogni epoca della storia, il fondamento della storia politica e intellettuale di tale epoca; che però tale lotta ha raggiunto ora uno stadio nel quale la classe sfruttata e oppressa (il proletariato) non si può più emancipare dalla classe che la sfrutta e l’opprime (la borghesia), se non liberando allo stesso tempo per sempre tutta la società dallo sfruttamento, dalla oppressione e dalle lotte fra le classi. E’ un concetto superato, anacronistico? Panta Rei, tutto scorre, ci ricorda Eraclito. L’èra dell’intelligenza artificiale, dei Big Data, dell’uomo alla conquista dell’universo, della criogenesi  umana, che ci fa pensare all’eternità, sono i dati del cambiamento epocale.  Eppure, nonostante ci si trovi nel passaggio storico della post modernità, che ci dona il  turbocapitalismo e l’iperfinanza, che si sintetizza nell’1% dei possessori  delle ricchezza prodotta rispetto al 99% che deve lottare con le miserie del mondo ( intramontabili vizzi dello sfruttamento, delle diseguaglianze sociali, politiche, economiche) , questo nuovo status sociale non cancella o nientifica la necessità di liberare l’uomo dal bisogno e dallo sfruttamento, al quale, più che mai, è richiesto di essere sempre disponibile a lottare per l’uguaglianza delle libertà e dei diritti per tutti. Allora, è ancora valido il motto: Proletari di tutto il mondo unitevi!”. Marx sospese la sua esposizione e per un attimo restammo in silenzio. Fui io a riprendere la parola.

 “E’ vero, miliardi di persone sono interconnesse, ipercollegate, messaggiano senza incontrarsi, dialogare, scambiarsi impressioni e opinioni su quanto li circonda, socialmente e politicamente: vivono nell’individualità. E’ l’individualismo di Max Stirner, che si spinge fino all’egoismo, da interpretare appunto come  l’unico, l’IO vero, il quale connota efficacemente l’ individuo odierno che non cerca un partito, non rivolge alcun interesse  alla politica, sente lo Stato lontano, assenti le istituzioni, anche perchè i partiti tradizionali sono sostituiti dai movimenti populisti, nazionalisti quando non sovranisti. Siamo cioè in piena metamorfosi, l’uomo ha perso il connotato della propria dimensione, per cui l’opposizione a questo sistema non è da attendersi solo da parte dei lavoratori salariati, ma dagli esclusi da questa società opulenta, come i gruppi del dissenso dei Paesi avanzati e i dannati del terzo mondo e dai giovani. E questo mi induce a credere che, di fronte a queste trasformazioni, non sia sufficiente rispondere: lottiamo per una società socialista!”. Conclusi sorpreso di me stesso.

Mio caro amico,” riprese Marx, “ io non sono un profeta, ma uno studioso e il mio lavoro è il contenuto di molte pubblicazioni scientifiche, dalle quali si apprende che la divisione della società in classi  non è un prodotto della natura, come indicano il Leviatano di Hobbes e il Trattato di John Locke, e il socialismo non è un frutto che si può raccogliere dall’albero della conoscenza del bene e del male. Il socialismo del XXI secolo non potrà mai avere le caratteristiche concettuali e scientifiche del socialismo del XIX i cui strumenti si fondano sul materialismo storico e l’applicazione del materialismo dialettico alla storia della società, questo perché il socialismo scientifico era ed è in ogni caso basato su uno studio analitico delle leggi della storia e della società. Ma non è in questa breve conversazione che possiamo affrontare un compito così complesso. Predire il futuro non è una  mia pertinenza, e tuttavia seguo con attenzione e cerco di capire i temi sollevati da milioni di giovani, come Greta Thunberg e il movimento School Strike for Climate, i giovani di Hong Kong contro la prepotenza cinese, le Sardine in Italia per una nuova politica,  e nelle piazze di tanti altri Pesi di tutti i continenti, per un cambio del modello di società e  per una politica che offra un futuro di pace e di sviluppo sostenibile ed equilibrato alle nuove generazioni. A loro, quindi, spetta il gravoso compito di studiare le leggi della storia e della società, ed elaborare una proposta per realizzare una società socialista adatta a quel momento storico in cui il principio di ‘condivisione’ sia adottato per il superamento dell’individualismo, della divisione in classi sociali, per una giustizia in cui ‘ciascuno dia secondo la propria capacità e ciascuno riceva secondo i propri bisogni’.

Alberto Angeli

“ Etica e economia” J. M. Keynes -L’attualità del suo messaggio, di A. Angeli

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Il 21 aprile 1946 muore J-M-Keynes. Egli era fortemente legato a Piero Sraffa, di cui è stato il “protettore” nel periodo durante il quale  insegnò in Inghilterra 1926, ( con Keynes ha condiviso nel 1961 la medaglia Södeström dell’Accademia svedese delle scienze che costituisce l’antecedente dei premi Nobel di economia), Saffra, legato ad Antonio Grmasci, annoverava tra le sue amicizie anche quella di Bertrand Rassel  e di Wittngestein. Muore a Cambridge il 3 settembre 1983. Con questo breve saggio cerco di recuperare il valore di un famoso scritto di Keynes, in cui mi sono imposto di sintetizzarne il pensiero, che ritengo ancora attuale, cosciente che ciò possa esporsi ad una critica di banalizzazione di un pensiero di alto contenuto culturale e teorico.  “Etica ed economia” è la sintesi del pensiero di John Maynard Keynes, che affronto nel presente scritto, forse illudendomi di dare un contributo e un segnale alternativo alla indifferenza del momento politico che stiamo vivendo. Il richiamo a Sraffa è sintomatico di una continuità intellettuale che legava i due teorici dell’economia e che ha segnato il XX secolo. Lo scritto vorrebbe offrire uno stimolo alla riflessione sui fenomeni economici e sulla politica economica, sulle trasformazioni del sistema finanziario globalizzato e sul ruolo delle monete e, per l’attualità, dell’Euro. Nel breve scritto che segue, l’impostazione analitica dei temi indicati è appena accennata, mai sospinta fuori del tema, e tuttavia si presta ad una comprensione coerente del pensiero Keynesiano.

John Maynard Keynes, “ Etica e economia”. Una sintesi del pensiero Keynesiano

 Nel Saggio: “ Sono un Liberale?”  Keynes scrive :“Dobbiamo inventare una saggezza nuova per una nuova era. E nel frattempo, se vogliamo fare qualcosa di buono, dobbiamo apparire eterodossi, problematici, pericolosi e disobbedienti agli occhi dei nostri progenitori”.  Sono queste le conclusioni, con le quali  Keynes  nello scritto del  1925, consegna  le sue riflessioni  sulle numerose questioni di ordine politico, economico e sociale, che nel nuovo contesto mondiale, governato dal capitalismo, si vanno prefigurando. E’ quindi con una domanda, la stessa che dà il titolo allo scritto, con cui si chiude il saggio del grande economista, richiamandosi all’unica possibile conclusione che poteva scaturire da un’analisi tanto articolata, quanto problematica, dell’avvicinarsi dei “tempi moderni”. Il senso ultimo di questa visione culturale è quello che accompagnerà Keynes per lungo tempo, fino all’uscita della Teoria Generale nel 1936. Infatti, è con quel poderoso lavoro che sarà data unitarietà e spessore alla critica dell’ economia monetaria di produzione – in cui il capitalismo evidenzia in termini chiari la sua natura di sistema predatorio  e  iniquo – e alla capacità di autoregolazione dell’economia di mercato.

Il saggio “ Sono un liberale?” è la raccolta di numerosi scritti Keynesiani  che riproducono una serie di interventi ed articoli dell’economista, riconducibili alla fine degli anni 20 e 30, dalla lettura dei quali si avverte la forte e avvincente tensione culturale trasmessa dalla riflessione di Keynes sui grandi temi dell’economia del momento, ma con una visione profetica rivolta al futuro. Il testo brilla per la finezza e la rilevante chiarezza espressiva a cui il Keynes faceva ricorso,  dando alle sue analisi un sostegno argomentativo tale da rendere fluenti i suoi ragionamenti teorici, altrimenti incomprensibili.

La prima parte mette in luce il tragico passaggio dall’ “ordine” ottocentesco a quello del XX secolo, evidenziando  gli squassi del primo conflitto mondiale, per chiarire come le  conseguenze a cui porteranno le riparazioni di guerra inflitte ai tedeschi.  Peraltro quella fu la circostanza in cui rassegnò le proprie dimissioni dalla carica di rappresentante del Tesoro inglese alla Conferenza di Versailles.  Nella sua condanna di quelle deliberazioni  il rilievo del “problema economico” è dirompente. Infatti, di lì a poco, l’Europa andrà incontro alla Grande Depressione nel 1929, e al secondo conflitto mondiale un decennio più tardi.

Dalla sua  posizione  di analista della società il “problema economico” è posto come la questione pressante con cui deve fare i conti la società moderna e questo nonostante le meraviglie che il progresso sembra porgere su un piatto d’argento.  Egli scrive: “Abbiamo contratto un morbo di cui forse il lettore non conosce ancora il nome, ma del quale sentirà molto parlare negli anni a venire – la disoccupazione tecnologica -. Scopriamo sempre nuovi sistemi per risparmiare forza lavoro, e li scopriamo troppo in fretta per individuare nuovi impieghi per la forza lavoro”. Un passo che egli  ci invia come posta per riflettere sulle prospettive economiche per i nostri nipoti. Nella sostanza,  egli ci dice, la “povertà nell’abbondanza” è l’intrinseca contraddizione in cui vive il capitalismo, ed è questa contraddizione che è necessario spiegare se si vuole recuperare un senso positivo nel progresso, sgombrando il campo dagli opposti pessimismi che si vanno fronteggiando. Ossia, da una parte,  “il pessimismo dei rivoluzionari, convinti che una situazione così compromessa renda inevitabile un cambiamento radicale, e quello dei reazionari, persuasi che la nostra vita economica e sociale si regga su un equilibrio talmente instabile da sconsigliare qualsiasi forma di esperimento”

Nella sostanza, prosegue, l’ “amore per il denaro” è alla radice di tutto il sistema, anche se non è propriamente  l’ “amore per il denaro che serve a vivere meglio, a gustare la vita”, scrive,  ma il “possesso del denaro”, che rende il sistema  ingiusto.  (Auri sacra fames). Inoltre, sul fronte del profitto, è in regime di laissez faire che “il profitto va all’individuo che, per abilità o fortuna, si trova con le sue risorse produttive nel posto giusto al momento giusto” (La fine del laissez faire).  E’ in queste condizioni di iniquità, che secondo  Keynes,  “Un sistema che permette all’individuo abile ( e avido) o fortunato di raccogliere l’intero frutto di questa congiuntura offre chiaramente un incentivo immenso a coltivare l’arte di trovarsi nel posto giusto al momento giusto. Così uno dei più forti moventi umani, cioè l’amore per il denaro, viene asservito al compito di distribuire le risorse economiche nel modo migliore per aumentare la ricchezza al fine di ottenere la massima produzione di ciò che è maggiormente desiderato secondo la misura del valore di scambio”.

La questione è persino più ampia e, secondo Keynes, c’è bisogno di una nuova etica perché: “sembra ogni giorno più evidente che il problema morale della nostra epoca ha a che fare con l’amore per il denaro, con l’abituale ricorso al movente del denaro in gran parte delle attività della vita,  con l’approvazione sociale del denaro come misura concreta di successo e con l’appello della società all’istinto di accumulazione…” Questa  riflessione lo porta a spostare il suo sguardo alla Russia, verso la quale  lo spinge un sincero interesse verso il comunismo russo –  da cui, secondo Keynes, proviene o spira  una sorta di “afflato religioso, poiché, lì, si cerca di costruire una struttura della società in cui le motivazioni economiche,  come fattori condizionanti, avranno un’importanza relativa diversa, per il fatto che l’approvazione sociale sarà distribuita in altro modo, e dove i comportamenti  da prima erano normali e rispettabili, poi non lo saranno più”. Qui Keynes,  espressione della borghesia colta, approfondisce con il dovuto distacco quella che chiama “fede comunista”,  evidenziando come per lui non è certamente possibile accettare una “dottrina che, preferendo la melma al pesce, esalta il proletario al di sopra della borghesia e dell’intellighentjia”, pur ammettendo con decisione che è ineludibile la necessità di una nuova etica dell’economia.

I pensieri keynesiani portano però all’attenzione del lettore qualcosa di ancora più impegnativo  nella sua analisi della società. Intanto, per ciò che egli ritiene e indica come una rivoluzione da attuarsi nel metodo dell’analisi economica, facendo quindi camminare a fianco a fianco società ed economia,  per cui è solo comprendendo il profondo legame che le tiene insieme, è possibile assimilare il “rivoluzionario” messaggio di cui la Teoria Generale è portatrice.

Nel suo pensiero la funzione  del capitalismo è riassunta come una lotteria, in cui domina incontrastata l’incertezza  e l’alterità del semplice calcolo probabilistico, essendo infatti la moneta a gettare un ponte tra presente e futuro, sono  allora gli spiriti animali degli imprenditori a determinare lo stato e l’andamento della domanda effettiva del sistema economico.  Al proposito Keynes precisa: “ è una domanda che, misurandosi esclusivamente sui valori di scambio, nulla ha a che fare con il valore d’uso dei beni prodotti, e dunque con i bisogni che la società esprime”.  Molti studiosi di Keynes hanno trovato in questo passaggio  un doveroso tributo alle dimenticate analisi di Malthus e a quanto egli aveva intuito in merito al ruolo trainante della domanda nel dirigere il processo produttivo. Qui entra  in gioco anche  il confronto con Ricardo.  Ma  è a Piero Sraffa, che si deve il ritrovamento delle lettere mancanti,  riguardanti la corrispondenza tra Malthus e Ricardo, nelle quali vi si colgono, di fatto, gli inizi della teoria economica nonchè le linee divergenti,  lungo le quali la materia può essere sviluppata. Infatti , Ricardo studia la teoria della distribuzione del prodotto in condizioni di equilibrio, e Malthus si concentra su ciò che determina il volume della produzione giorno per giorno nel mondo reale. Ancora, Malthus tratta dell’economia monetaria in cui viviamo; Ricardo dell’astrazione di una un’economia con moneta neutrale.

Il pensiero di Keynes ha un percorso speculativo e formativo fondato su basi logiche. Era sua consuetudine ritrovarsi con i maggiori logici e matematici a lui coevi. A Cambridge con Russel – matematico e filosofo- che lo guida nelle conversazioni verso una teoria che deve assumere un valore strumentale rispetto alla pratica, che spinge Keynes ad impadronirsi di un linguaggio in cui faccia premio un ragionamento basato sul senso comune. Segue le lezioni di Marshall, da cui apprende i moderni metodi diagrammatici, necessari per cogliere la complessità dei fenomeni sociali e per arricchire la sua preparazione con lo scopo di muoversi nell’ambito della ricerca storica, della filosofia e, cosa inaspettata, proporsi come conoscitore della cosa pubblica.

Keynes, conclude il saggio affermando:  “l’economia è una scienza molto pericolosa”,  e gli economisti non sono profeti.   Ad ogni modo a Keynes non sfugge  il fatto  che i “tempi moderni  necessitano di nuove politiche e nuovi strumenti per adeguare e controllare il funzionamento delle forze economiche, così che non interferiscano in maniera intollerabile con l’idea odierna di che cosa sia appropriato e giusto nell’interesse della stabilità e della giustizia sociale”.

Perché riappropriarsi di Keynes , di questo  spirito critico,  di cui ogni tanto alcuni rimembrano le sue teorie per rianimare un’economia esausta e sostituita dalla finanziarizzazione globale. ma non tanto da essere annoverato nelle fila della cultura marxista.? Perchè  questo eretico tra gli eretici,  lascia infine che siano altri a rispondere alla domanda da cui è partito: “Sono un liberale?” La risposta sta tutta nella considerazione che dobbiamo dare all’importanza di non banalizzare le forme dei conflitti di classe sapendo leggere con attenzione e mettere a confronto Marx e Keynes.

Albero Angeli