BCE
Il caos regna a Berlino e getta sull’Europa un’ombra cupa. di A. Angeli

II giorno dopo il voto i display che riproducono i risultati illuminano una Berlino che si appresta a salutare i 16 anni di potere della Merkel. Non domani, poiché il risultato del voto proietta sulla società politica Tedesca una situazione caotica, di difficile composizione fino a indurre a pensare che prima di dicembre non sarà possibile formare un governo. Infatti, nessun partito ha superato il 26% dei voti e il divario tra i due maggiori partiti premiati dal voto, SPD e CDU/CSU risulta minimo, pochi decimali. Le altre forze politiche, i verdi (GRUNE) e i liberali (FDP) seguono con risultati appaganti ma non corrispondenti alle attese, più lontani quelli di Die Linke. Nel frattempo, la Merkel continuerà a governare. Insomma, un risultato che ha sorpreso e rimescolato i pronostici di molti osservatori. Fin dall’inizio della campagna i verdi e l’unione cristiano-democratica sono stati i favoriti, rivelandosi nel corso della campagna una valutazione sbagliata, poiché i candidati dei due partiti non sono riusciti a convincere gli elettori di essere degni della fiducia richiesta agli elettori. Invero, anche il Partito socialdemocratico, guidato da Olaf Scholz, ha tradito le aspettative che via via sono andate crescendo fino ad aumentare la stima dell’elettorato. Con il risultato del voto è svanito anche questo obiettivo.
Un successo della SpD poteva rappresentare un ottimo risultato sia per i Tedeschi sia per l’Europa. La Germania si trova ora di fronte a una serie di sfide urgenti, crescenti disuguaglianze, infrastrutture fatiscenti e cambiamenti climatici distruttivi. Per questo le elezioni rappresentavano quindi un’opportunità per il paese di tracciare un corso migliore e più equo per il 21° secolo. Invece, il risultato consegna al presente una Germania bloccata, nonostante il lavoro pragmatico della Merkel: attenta, cauta, avversa a grandi cambiamenti , e purtuttavia non pienamente rispondente al compito di guidare un grane Paese con una rilevante responsabilità nell’ordine mondiale del 21° secolo. Eppure, non sono mancate nei candidati alla cancelleria plateali recite di avvicinamento al metodo Merkel, rivelatesi mimesi contraffatte e per niente riconducibili alla serietà del metodo e del prestigio dell’esempio che si stava copiando. Annalena Baerbock, la leader dei Verdi, ha cercato di coltivare un’immagine di rigore e competenza, imitando la Merkel. Incolpata di uno scandalo di plagio, e forse ritenuta dagli elettori senza esperienza di governo, presto ha perso l’appeal e il suo primo vantaggio nella campagna ed è finita portando il suo partito a solo il 14% dei voti. Anche Armin Laschet, successore della Merkel alla guida della Democrazia Cristiana, ha tentato di rappresentare un’aura di competenza ed efficienza. Ma lo sforzo è stato minato da una campagna irregolare e disseminata di errori, incapsulata dalle sue battute sorde durante una visita alle vittime delle inondazioni in estate. Nel condurre il partito al 24 per cento, ha presieduto a una performance storicamente scadente. Tuttavia, cercherà ancora di mettere insieme una coalizione. Poi c’è Scholz. Pur candidato per il Partito socialdemocratico, ha fatto ogni sforzo per associarsi al metodo Merkel, proponendosi, piuttosto che con Laschet, come vera opzione di continuità. Come vice cancelliere e ministro delle finanze nell’amministrazione della signora Merkel, la manovra è stata facile: ha persino adottato il gesto della mano del “triangolo del potere” tipico della signora Merkel. Ha funzionato, fino a un certo punto. Ma il quasi 26 per cento conquistao dal suo partito non è sufficiente per assicurare a Scholz la carica di cancelliere.
A prima vista la convergenza tra i candidati, aspiranti alla Cancelleria, rende il quadro politico difficile . Dopo 16 anni di governo della signora Merkel, il paese si è stabilizzato in uno status quo apparentemente incrollabile: ma economicamente, socialmente ed ecologicamente, c’è molto da cambiare. L’economica Tedesca è fatta di esportazione orientata al commercio internazionale e può vantare con un consistente settore manifatturiero. La Germania premia soprattutto la stabilità monetaria. Tutto ciò che potrebbe influenzare la competitività internazionale del Paese è escluso in via pregiudiziale e stragiudiziale. Inoltre, il freno all’indebitamento, una legge cementata nella costituzione nel 2009 che vieta i deficit di bilancio, pone un duro limite a ciò che è possibile: ci sarà poco spazio per un programma di investimenti finanziato dal debito o per grandi spese infrastrutturali. In questo contesto, nessuna ristrutturazione fondamentale dell’economia sembra fattibile. Apparentemente, l’economia ha successo. Ma i guadagni economici non sono stati ampiamente condivisi e equamente distribuiti, tanto che la disuguaglianza della ricchezza è aumentata – l’1% più ricco possiede quasi un quarto di tutta la ricchezza – e la Germania ha uno dei più grandi settori a basso salario tra le nazioni nell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico. Circa un lavoratore su cinque, quasi otto milioni di persone, guadagna meno di 11,40 euro, per ogni ora di lavoro. Il malcontento sociale, di conseguenza, è in aumento. C’è stato un notevole rinnovamento degli scioperi negli ultimi 10 anni e il termine “società di classe”, precedentemente bandito, è tornato nel dibattito pubblico. La rabbia più amorfa, che trova espressione a sostegno dell’estrema destra Alternativa per la Germania e delle teorie del complotto anti-vaccinazione, si è diffusa nella società. Ci vorrebbero cambiamenti profondi per affrontare alle radici le difficoltà in cui si trova oggi la Germania. In più, se indirizziamo la nostra attenzione ai risultati del voto e agli uomini chiamati a governare questi passaggi, nessuno dei maggiori partiti sembra in grado di assumersi l’incarico.
Anche sul fronte della lotta alla crisi climatica è improbabile un approccio ambizioso per quanto riguarda una politica di transizione climatica. Prescindendo dalle difficoltà a mettere insieme una coalizione e scontata una improbabile intesa per una colazione nella quale comunque i verdi saranno sicuramente presenti e quindi anche il loro impegno a “rendere possibile l’impossibile”, la presenza dei Liberal Democratici – un partito di liberali classici e imprenditori per i quali il mercato e le nuove tecnologie dovrebbero risolvere la crisi climatica, non lo Stato – metterà un forte freno a una politica di svolta nella lotta alla crisi climatica. Ma superato eventualmente questo scalino delle difficoltà sullo sfondo permangono molteplici crisi e scalini da salire. La pandemia continua a mettere a dura prova il Paese, la NATO ha subito una storica sconfitta in Afghanistan e le inondazioni di quest’estate prodotte dai cambiamenti climatici hanno devastato vaste aree di quel Paese causando quasi 200 vittime. Sullo sfondo poi pesano i temi della politica internazionale: dai rapporti difficili con gli USA, specie dopo l’Afghanistan, la costruzione di una forza militare tutta europea come risposta a questa crisi, dal gasdotto Russo ai problemi dell’Africa e dei migranti, senza ignorare i difficili e controversi rapporti con la Turchia. Individualmente, ogni problema ha un risvolto significativo. Presi insieme, equivalgono a un grande e complesso mondo su cui la Germania esercita una sua influenza e svolge un suo ruolo di potenza. Poi c’è il momento europeo, dove è attesa e richiesta una leadership decisa, audacie e innovativa. Tutto il resto è un’attesa, una speranza. Una scommessa.
Alberto Angeli
Draghi premier, chi ha vinto? di S. Valentini

La crisi di governo aperta da Renzi non poteva che avere come inevitabile esito quello di uno spostamento verso un assetto ancora più moderato del quadro politico, con buona pace di Leu che immaginava un patto di legislatura con il Pd, 5 Stelle, con l’aggiunta dei “costruttori”, per intraprendere politiche in grado di affrontare la drammatica emergenza della pandemia in un contesto però di ripresa economica del Paese su basi più eque.
Il patto di fine legislatura tra le tre forze politiche esce a pezzi con l’avvento di Mario Draghi. Lo scopo fondamentale della apertura della crisi era quello di determinare chi avrebbe gestito il Recovery Fund, i 209 miliardi della UE. In altre parole, per quali politiche saranno spesi e soprattutto chi saranno i principali beneficiari di questo enorme fiume di denaro. Questa ripartizione della torta deve essere definita entro aprile e si intreccia con la scadenza del semestre bianco che inizia ad agosto. Dopo si entra nella fase della elezione del Presidente della Repubblica, che dovrà essere del perimetro della nuova maggioranza di Draghi, e dell’iter per l’approvazione di una legge elettorale semi proporzionale. Due atti politici fondamentali per destrutturare il blocco delle destre. I fautori del maggioritario, del bipolarismo e dell’alternanza arricceranno – virtuosi liberali – il naso, ma questa è la strada che imboccherà il nuovo governo e la maggioranza che lo sostiene. La necessità diviene virtù in politica!
Allora vista da questa ottica la crisi è tutt’altro che incomprensibile. Del resto numerosi erano stati i segnali che si andava in questa direzione. Il più importante è stato l’imponente riassetto proprietario dei maggiori media oggi sotto il ferreo controllo dei grandi gruppi monopolistici e delle oligarchie finanziarie. Mi pare allora evidente che la crisi non è solo il risultato dell’egocentrismo di Renzi. Le scelte politiche non si spiegano con una psicologia da accatto. La posta in gioco è molto grande: la collocazione internazionale dell’Italia e il suo futuro post-pandemia. Questione resa ancora più preminente e urgente dal fatto che il Presidente del Consiglio italiano è chiamato a presidiare per il 2021 il vertici del G.20.
La sconfitta di Trump ha aperto in Occidente una fase politica nuova. La destra nazionalista e populista aveva già subito in Europa una pesante sconfitta con la nascita della “maggioranza Ursula” (quella che nel 2019 ha permesso la conferma della presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen). Questo dato politico va assolutamente evidenziato. E in Italia, dopo il governo giallo-verde del primo Conte vi è stato un riallineamento con Francia e Germania con il Conte bis sostenuto dal Pd. Le oligarchie finanziarie, di qua e al di là dell’Atlantico, non vogliono populisti e nazionalisti al governo. La stagione in cui una parte del capitale finanziario ha fatto loro l’occhiolino, per usarli al fine di dare una base di consenso a feroci politiche neoliberiste, con la elezione di Biden, si è sostanzialmente conclusa. Ci saranno indubbiamente dei forti colpi di coda, ma le forze nazionaliste e populiste sono per ora in fase discendente. Lo ha capito molto bene Giorgetti che chiede di ricollocare la Lega su una posizione moderata e filo atlantica. Ora l’Occidente, nel bel mezzo di una drammatica crisi sanitaria, economica e sociale, ritrova i suoi cosiddetti valori comuni. Ma l’economia cinese va come un treno e quindi vi è bisogno di condurre politiche nuove per competere con il colosso asiatico e i suoi alleati, in primo luogo la Russia. Ovviamente, questa nuova situazione, non favorevole all’Occidente, non risolve i problemi. Le cancellerie europee e quella statunitense sono consapevoli che non è possibile tornare agli equilibri mondiali emersi dopo l’89. Gli ultimi vent’anni hanno segnato un rovesciamento dei rapporti di forza che si sono determinati dopo il crollo dell’Urss. Il mondo è profondamente cambiato: siamo in un mondo multipolare caratterizzato dal declino statunitense come grande potenza economica. Anche l’UE, (Germania e Francia in testa) vuole dire la sua e ricercare il suo spazio per competere su scala globale con gli altri fondamentali poli dell’economia mondiale. Nazionalisti e populisti escono battuti, sconfitti, ma non per questo l’Occidente ha ritrovato la sua unità di fondo. Può sbandierare i comuni valori, ma le divisioni tra Usa e UE restano tutte e si aggravano, sono evidenti, a iniziare dai rapporti economici e commerciali da stabilire con la Cina e la Russia. La “guerra dei vaccini” si ascrive tragicamente in questo scontro politico, economico e finanziario, prima ancora di essere una emergenza sanitaria.
L’Italia non ha la storia della Francia e neppure è la Germania, locomotiva dell’economia europea. In Italia il partito trasversale atlantico e filo-americano è sempre stato molto forte e nel passato si è scontrato duramente non solo con la sinistra ma anche con le forze che puntavano decisamente all’integrazione economica europea. Il partito filo-americano, oggi rappresentato soprattutto da Renzi e forse da Giorgetti, ma anche da una parte del Pd, (si guardi la fanfara mediatica messa in piedi da Zingaretti sulla vittoria elettorale di Biden e sul mito della democrazia americana, o alle rozze campagne antirusse e anticinesi), si è però indebolito nell’ultimo periodo. Il Pd non ha una posizione strategica sulla grandi questioni geopolitiche, è appiattito sulle decisioni della Casa Bianca, condividendo molte delle scelte compiute in politica estera prima da Obama e poi da Trump, non distinguendosi da quelle più scellerate che quest’ultimo ha fatto. Il partito filo-americano si è indebolito poi anche per la massiccia presenza politica e istituzionale del Movimento 5 Stelle che ha determinato un forte appannamento dell’atlantismo italiano. Da questa situazione scaturisce la manovra degli atlantisti più intransigenti che tentano un riequilibrio che riavvicini l’Italia a Biden, il nuovo inquilino della Casa Bianca. Ma i 209 e rotti miliardi di euro e l’enorme debito pubblico accumulato in questi mesi sono garantiti non dagli Usa ma dalla Germania. Troppo spesso si dimentica questo aspetto essenziale. Ecco perché il confronto tra chi vuole una UE atlantista e tra chi invece vuole dare forza e velocità al progetto di vera integrazione è molto forte in seno al blocco politico, finanziario ed economico dominante in Europa.
Gli Usa hanno però i loro drammatici e straordinari problemi da affrontare. Biden è preoccupato dalla instabilità della situazione interna dovuta alla radicalità dello scontro politico in atto nel paese, che è spaccato in due come una mela, deve fare i conti con l’emergenza pandemica e con una crisi economica e sociale, ma anche di valori fondativi del paese, che forse non ha precedenti nella storia americana. Tale situazione lascia pochi margini e possibilità di iniziativa a sostegno degli “amici” europei. Tra l’altro la soluzione non può essere quella di stampare dollari all’infinito per fronteggiare la crisi economica. È una operazione che porta a un ulteriore indebitamento degli Stati Uniti proprio verso la Cina.
Dunque, l’Europa è costretta a fare da sola, per la prima volta dopo il secondo conflitto mondiale, deve camminare sulle sue gambe. Del resto l’UE, oltre a non avere un sostegno economico dagli Usa, come in passato (non credo che si attenuerà la guerra commerciale con la Germania anche se sarà condotta con altre modalità), deve sempre più fare a meno di uno strumento diplomatico e militare di pressione a Est e nel Sud del mondo come la Nato. La presenza di paesi come la Turchia complica e rende molto difficile l’utilizzo della Nato in chiave pro-UE, come strumento di tutela dei suoi interessi. In un mondo multipolare l’UE ha bisogno di una sua maggiore autonomia politica, economica e persino militare dagli Stati Uniti. Essere insomma amica di tutti e competere nello stesso tempo con tutti.
La crisi aperta da Renzi si sviluppa dunque all’interno di questo scenario, cioè la collocazione e il ruolo dell’Europa nel prossimo futuro che si trova ad un bivio, da un lato la visione perseguita dall’asse strategico franco-tedesco, pur tra limiti e contraddizioni, dall’altro l’antico rapporto di subalternità con gli Usa. Naturalmente lo scontro non è ancora così netto. I margini di mediazione tra le due diverse spinte sono ancora ampi. Ma il confronto è aperto e si gioca oggi una partita che potrebbe porre una forte ipoteca sulla opzione europeista. Il Regno Unito, con la Brexit, ha fatto la sua scelta e vedremo cosa succederà nei prossimi anni in Irlanda e in Scozia. Mentre la Cdu tedesca prepara il dopo Merkel in perfetta continuità con la sua politica, respingendo le posizioni di quella parte del partito che vorrebbero una politica meno europeista. La Francia, anche quando è stata governata dalle sinistre, ha sempre fatto leva sull’orgoglio nazionale francese. L’anello debole dello scenario è l’Italia.
Non è pertanto una polemica pretestuosa quella del leader di Italia Viva che ha criticato Conte per l’intestazione della delega ai servizi segreti o per la condanna troppo tiepida dell’assalto al Campidoglio degli Stati Uniti in quanto troppo legato a Trump, forse proprio tramite l’intelligence. La questione della collocazione internazionale dell’Italia non è punto trascurabile della crisi. Nella sua lettura occorre tenerne conto e solo qualche raro commentatore lo ha fatto. La richiesta del Ponte di Messina e del Mes, che in Europa nessun paese ha deciso di utilizzare, sono argomenti di pura propaganda per dare maggiore forza alla polemica politica. Draghi aveva già reso esplicito il suo pensiero a proposito e cioè che non riteneva opportuno chiederlo per non allarmare i mercati. Caso mai l’unico interrogativo legittimo è sapere se effettivamente Renzi sia un paladino della nuova amministrazione democratica americana o si è illuso di poterlo essere. Mi pare che Giorgetti abbia carte migliori da giocare. Comunque si vedrà strada facendo, soprattutto se sarà confermata la notizia che dalla Casa Bianca sarà candidato a Segretario generale della Nato grazie ad una vecchia promessa fatta da Obama. D’altronde i suoi rapporti con l’Arabia Saudita sono un indizio. In politica contano le azioni e quella compiuta da Renzi si colloca nel solco del partito filo-americano.
Il piatto principale però del confronto/scontro è il Recovery Fund, un mucchio di denaro che dovrà affluire dall’UE nei prossimi sei anni. Leggo che molti sostengono, soprattutto a sinistra, che Renzi sia una delle punte di diamante di questo disegno, funzionale al grande capitale. In questa analisi c’è del vero, ma chi sostiene che Renzi sia il maggior sostenitore di politiche neoliberiste nostrane dimentica che anche gran parte del Pd è funzionale a questi interessi, come anche qualcuno del Movimento 5 Stelle, per non parlare dei centristi o di Forza Italia e della Lega. Per essere più esplicito: quali discontinuità ha introdotto Zingaretti rispetto a Renzi? Forse il primo ha come referenti più i sindacati che la Confindustria? Certamente l’attuale segretario del Pd è portatore di una politica economica che contiene alcuni aspetti cari alle socialdemocrazie (aspetti e non nodi tematici fondamentali), ma non vi è stato da parte del Pd nessun ripensamento critico rispetto alle scelte fatte dal centrosinistra in questi trent’anni. La pandemia impone oggi un ulteriore indebitamento del Paese, ma subito dopo, finita l’emergenza, si tornerà a una politica liberista rigorosa. Il trattato di Maastricht è stato sospeso, non è stato abrogato!
Che siamo in piena emergenza lo ha capito molto bene la Germania della Merkel non adottando la stessa politica che aveva condotto nei confronti della Grecia o di altri paesi europei. Con una pandemia in corso, che ha un impatto sociale drammatico, non si è di sinistra perché vengono bloccati i licenziamenti, o perché si potenzia la cassa integrazione, o perché vengono distribuiti un po’ di bonus o sussidi. Misure analoghe sono state prese da quasi tutti i governi, compreso quello del vituperato Trump, quindi non da queste misure si distingue un governo di destra da uno di sinistra. Un governo di sinistra si caratterizza per interventi volti ad una più equa redistribuzione della ricchezza, per le politiche per il lavoro e l’occupazione, per investimenti strutturali nella economia green, per lo sviluppo di servizi pubblici essenziali: sanità, casa, innovazione tecnologica, formazione. Per questo sono convinto che la politica economica di Draghi, a differenza del governo Monti, non sarà, almeno nella fase emergenziale pandemica, segnata da provvedimenti “lacrime e sangue”. Non sarà insomma all’inizio una politica improntata alla pura austerità liberalista. Non è questa la fase che sta attraversando l’UE.
Lo scontro politico dunque che si è aperto con la crisi di governo non è tra riformisti e neoliberisti, cosa che Leu fatica a comprendere, ma muove dalla opzione di quali interessi economici e finanziari deve rappresentare la politica. C’è chi guarda agli Usa e continua a intrecciare i suoi legami con quelli del capitale finanziario americano, chi punta alla Germania, che già controlla, in modo diretto o indiretto, buona parte del tessuto produttivo del Nord del Paese, chi infine vuole fare affari, senza avere troppo lacci politici, con la Cina, ma anche con la Russia. Un groviglio di interessi insomma non riconducibili a una visione politica unitaria del blocco di forze dominanti. Un insieme di contraddizioni che la politica non riesce adeguatamente a mediare. Tutti vogliono mettere le mani sul malloppo che viene dall’UE, avendo però molto chiaro che la parte del leone nel dettare la ripartizione delle risorse non poteva essere prerogativa solo del Movimento 5 Stelle e Conte, insieme ad un Pd ondivago che non ha una visione strategica. Questo è il vero motivo che ha scatenato l’opposizione della Confindustria, della grande stampa e dei media, controllati appunto dalle oligarchie finanziarie, che da tempo lavoravano per giocare la carta Draghi.
L’iniziativa di Renzi, condivisa anche dal Pd (e chissà da chi altro nel centrodestra), partiva dalla necessità di procedere a un forte rimpasto di governo per ridimensionare la presenza nell’esecutivo del Movimento 5 Stelle poi, se ci scappava pure il cambio del premier tanto meglio, nessuno si sarebbe strappato i capelli. Ma il piano iniziale ha imboccato un altro sentiero. La manovra si è combinata con il ruolo di Mattarella che ha imposto tutt’altra piega alla crisi. Il Presidente della Repubblica e il suo fido Franceschini hanno determinato un esito non previsto rispetto agli obiettivi iniziali che si volevano ottenere dalla manovra. Molti commentatori hanno notato che il nome di Draghi è stato proposto da Mattarella appena poco dopo che Fico gli ha riferito l’esito negativo del suo tentativo di rimettere in piedi la maggioranza parlamentare uscente per un Conte ter. Ciò vuol dire che il Presidente della Repubblica stava preparando il “pacco” da giorni, lo aveva pianificato. Mattarella ha lasciato prima bruciare l’ipotesi Conte, e tutti quelli che si illudevano, in testa Zingaretti e Bettini (lo stratega!), di costruire una alleanza politica con il Movimento 5 Stelle e con i cosiddetti “costruttori”, sono rimasti con un pugno di mosche, per poi compiere un vero e proprio colpo di mano, politico e istituzionale, da Statuto Albertino più che da Carta Costituzionale, più da monarca che da presidente di una repubblica parlamentare. Al Presidente della Repubblica non deve inoltre essere piaciuta – e non si può dargli torto – la campagna acquisti di parlamentari dal centrodestra, tra l’altro solo in parte riuscita, per tentare di formare una maggioranza di governo senza Italia Viva. Un ulteriore degrado e immiserimento della politica che Leu non ha colto. Una ennesima pagina nera del trasformismo parlamentare, questa volta con l’avallo anche della sinistra.
Con estrema abilità, da raffinato democristiano, Mattarella ha azzerato le ambizioni di tutti i principali protagonisti, ma ha fatto in modo che tutte le responsabilità della crisi fossero scaricate su Renzi, che credeva di essere il grande manovratore, ma che invece è stato manovrato come tutti gli altri protagonisti della crisi. L’argomento che ha ben chiaro il Quirinale è che si debba tenere conto della Germania che garantisce il nostro enorme debito pubblico e ci mette in mano ingenti risorse finanziarie. Mi pare più propenso quindi a raccogliere le istanze del processo di integrazione europea che vengono da Berlino. Del resto una partita simile, dalle grandi conseguenze politiche, economiche e finanziarie, persino di ordine geopolitico, non poteva essere lasciata in mano a un governicchio esposto agli umori quotidiani del Movimento 5 Stelle, di Italia Viva e di un Pd senza spina dorsale. Insomma Mattarella ha fatto lo stesso ragionamento che il Pd e Italia Viva avevano fatto su Conte e il Movimento 5 Stelle. Se non ci fossero di mezzo le drammatiche sorti del Paese sembrerebbe una commedia umoristica degli equivoci.
209 miliardi dall’UE saranno dunque gestiti da un tecnocrate della finanza europea che ha solide relazioni con i grandi gruppi monopolistici, con le banche e con le oligarchie finanziarie. Saranno quindi questi poteri forti a realizzare i progetti del Recovery Fund e nello stesso tempo dare tutte le garanzie al capitale finanziario europeo che tali progetti saranno funzionali ai suoi interessi. E non a caso i mercati volano mentre l’economia reale è in agonia. Chi meglio di Draghi può garantire questa straordinaria operazione con una maggioranza di governo in cui tutti i grandi potentati hanno un posto a tavola? L’esito della crisi conferma inoltre che il sistema istituzionale e politico europeo è un sistema a-democratico totalmente dominato dal capitale finanziario. Anche la democrazia formale oramai è stata messa in discussione. Ci vogliono altre prove politiche per capirlo?
Dalla crisi escono quindi con le ossa rotte il Pd, il Movimento 5 Stelle e Leu. Renzi può salvarsi solo se i suoi amici americani gli daranno un incarico di rilievo. Si dirà: Franceschini e Mattarella sono del Pd. Vero. Ma dentro il PD molti ex democristiani sono convinti che occorra ricostruire un forte partito o schieramento neocentrista che sia il polo egemone di un governo moderato e allineato alla maggioranza che governa l’UE. Una formazione che sia l’argine principale di uno schieramento politico e parlamentare impegnato prima di tutto a sbarrare la strada a quelle destre che non intendono ridurre il loro tasso di nazionalismo e di populismo. Facendo leva sulle contraddizioni della Lega l’obiettivo è di ridimensionare il loro spazio politico. Il secondo obiettivo del nuovo polo neocentrista è ridurre la base elettorale del Pd, svuotarlo politicamente e bloccare il suo pur velleitario tentativo di inglobare in modo subalterno la sinistra. Il terzo obiettivo, infine, è impedire che la sinistra possa dare vita a una formazione influente. In questo disegno strategico quindi non c’è spazio per il Pd di Zingaretti senza arte né parte. Questo disegno neocentrista, portato avanti soprattutto dal diffuso mondo ex democristiano, è funzionale, a me pare, alla strategia dell’asse Berlino-Parigi di integrazione europea. Con Draghi si intende normalizzare il quadro politico dopo i grandi guasti determinati da bipolarismo e dal vento populista figlio illegittimo del governo Monti.
In questa prospettiva non regge la critica di chi sostiene che le risorse del Recovery Fund devono essere utilizzate per realizzare progetti qualificati se effettivamente si vuole la loro approvazione da parte della Commissione europea. In questa partita ciò che veramente conta è che i progetti siano organici agli interessi e all’espansione del capitale franco-tedesco. Dunque è necessario correre, fare presto e affidarsi mani e piedi alle oligarchie finanziarie europee. L’obbligo al senso della responsabilità della politica alla fin fine si riduce a questa urgenza posta dalla finanza. Nel 2021 si ripropone insomma, sia pur in forme nuove, il metodo politico della Dc, un partito che sapeva mediare tra le diverse spinte del capitalismo italiano, tra imprese pubbliche e imprese private. Una inedita riesumazione della prima repubblica anche se i cavalli di razza di allora oggi sono dei ronzini, con le dovute eccezioni. Una nuova maggioranza politica centrista, senz’altro amica degli Usa, almeno finché non matureranno altre condizioni dettate dall’asse franco-tedesca. Un forte polo moderato ma centrista insomma che abbia lo sguardo rivolto soprattutto ai padroni dell’UE. Draghi per condurre tale politica è perfetto!
In questo disegno c’è spazio pure per Conte come leader di una parte importante del Movimento 5 Stelle e possa raccogliere anche un po’ di elettorato deluso dal Pd, in modo che, dopo la frantumazione dei partiti attuali, solo dei pezzi marginali vadano alle destre o alla sinistra. Il lavoro di costruzione di un forte polo politico centrista attorno alla figura di Draghi è un cantiere aperto e lungo la strada è indubbio che vi saranno correzioni e assestamenti, ma la via imboccata è questa. Allora una alleanza strategica tra Leu, Pd e Movimento 5 Stelle non regge alla prova delle trasformazioni politiche in corso. In primo luogo in quanto è concepita come operazione di palazzo e non come processo unitario che dovrebbe svilupparsi a partire dai territori. Basta dare una occhiata a quello che è avvenuto in questi anni nelle elezioni amministrative, comunali e regionali, e allo stato dei rapporti tra i tre partiti nei comuni dove si vota, a iniziare da Roma e Torino. In secondo luogo perché una parte dei gruppi dirigenti del Pd e del Movimento 5 Stelle perseguono altre opzioni strategiche e non si muovono nella direzione di costruire una nuova alleanza politica che sia una riesumazione di un centrosinistra, travestito dietro a delle formule amene, magari un po’ più spostato a sinistra. Vi sono contraddizioni strutturali tali in questa potenziale alleanza evocata che impedisce il decollo politico dell’operazione, non ha sufficiente credibilità e consenso elettorale, non è né vincente né centrale.
Molti sostengono che il governo è fragile. Ha una maggioranza parlamentare composita. Ma il governo, nel fronteggiare l’emergenza della pandemia, deve fare tre cose: decidere gli indirizzi e come utilizzare le risorse del Recovery Fund in accordo soprattutto con la Germania; garantire la elezione di un Presidente della Repubblica che sia dentro a questo perimetro e prospettiva del Paese; fare una legge elettorale un po’ più proporzionale, sufficiente a smontare ulteriormente l’attuale centrodestra. E per fare queste cose i numeri di partenza sono più che sufficienti. Cresceranno con il consolidarsi dell’operazione politica. Questo è il suo compito e non ha importanza come definire il governo: maggioranza Ursula, governo istituzionale o di unità nazionale, governo tecnico o politico. La debolezza politica (ma non numerica) della maggioranza parlamentare che lo sostiene è la sua forza, anche perché a questo governo non ci sono alternative se non quella del voto che la maggior parte del Parlamento e delle forze politiche non vogliono. Ma soprattutto non le vuole il grande capitale. L’unico progetto in campo – che ha 209 miliardi di motivazione convincenti – è quello di legare ancora di più il destino del Paese alla Germania. Ecco perché il partito filo-americano non si è rafforzato e alla lunga forse è destinato a soccombere. Questo passaggio della crisi di governo conferma il declino statunitense in atto. Quando invece dei Di Bella da New York, come opinionisti fissi nei Tg, ce ne sarà uno presente tutte le sere da Berlino, forse gli italiani inizieranno a comprendere dove sta andando il Paese.
Per concludere vorrei aggiungere qualche riflessione sulla sinistra. Però ho poco da dire. Posso solo affermare che è totalmente fuori fase e forse conta poco anche per questo. Dovrebbe cogliere i processi in atto, ma non è in grado di farlo. Emergono due tendenze nella martoriata, povera e divisa sinistra, entrambe prive di consistenza politica.
La prima, del tutto politicistica, utilizza l’argomento di non lasciare il governo Draghi alle destre, come se il pericolo fosse la collocazione parlamentare del suo governo. Draghi non è di destra, semplicemente è diretta espressione del potere, quello vero, che pesa e conta. L’atteggiamento da avere rispetto governo Draghi non può essere ridotto a tattica parlamentare, spacciandola per sopraffina manovra togliattiana. Leu non è il Pci e neppure tra le sue file c’è un nuovo Togliatti. La seconda tendenza è ideologica. Si ricorda giustamente cosa rappresenta in termini di potere Draghi e per questa ragione si crede che riproporrà per l’immediato una politica economica di austerità, come fecero la Bce e l’UE dieci anni fa quando soffocarono la Grecia e misero in riga tutta una serie di paesi europei, tra cui l’Italia. Ripeto, non siamo in quella fase. Una politica liberista da adottare, dopo la fine dell’emergenza pandemica, resta una prospettiva di fondo, ma non si concretizzerà nei primi mesi del governo Draghi, anzi produrrà al contrario qualche sorpresa, spiazzando la campagna ideologica di chi denuncia, ancora prima di vedere il governo all’opera, selvagge politiche antipopolari da subito, perdendo così la pochissima credibilità che ancora vanta. Per dirla in altro modo non credo che Draghi chiederà il Mes, o che voglia sopprimere il reddito di cittadinanza (caso mai lo riformerà per farne esclusivamente uno strumento di sussidio per le famiglie più povere) e tratterà con i sindacati su quota cento e soprattutto sul blocco dei licenziamenti. Prevedo che finché il Paese sarà in piena emergenza pandemica si avvarrà dell’attuale sistema emergenziale di protezione sociale per non gettare il Paese nel totale caos sociale. Il suo compito è soprattutto preparare e impostare strategicamente la nuova legislatura che sarà quella sì di “lacrime e sangue”, garantita magari da lui come Presidente della Repubblica.
La sinistra dunque cosa dovrebbe fare? Leu intanto, invece di imbarcarsi nel governo Draghi (mentre scrivo vi è qualche incertezza di Sinistra Italiana), dovrebbe marcare una forte discontinuità politica prendendo le distanze dal governo, anche considerato che ha una modestissima pattuglia di parlamentari, del tutto ininfluente per le sorti della maggioranza. Sarebbe così più credibile per poter promuovere una iniziativa politica rivolta all’insieme della sinistra, sia verso alcuni settori del Movimento 5 Stelle che del Pd, sia verso quelle forze della sinistra fuori dal Parlamento che potrebbero essere sensibili a un processo costituente di un nuovo partito. Occorre da oggi, partendo dalla condizione data, costruire una prospettiva nuova per la sinistra. Ma non mi pare però che sia questo l’intendimento. Dall’altro lato i partitini extra-parlamentari, più o meno residuali e autoreferenziali, dovrebbero sciogliersi invece di agitarsi senza costrutto nel fare spicciola propaganda ideologica. Ma l’aria che tira, anche in questo caso è pessima. Dunque la discussione sulla necessità di costruire una forza di sinistra capace di incidere sugli scenari politici italiani ed europei è rimandata, rinviata a data da destinarsi, con molta probabilità dopo le elezioni politiche.
C’è chi evoca la ripresa della lotta sociale. Ma le tensioni sociali sono già forti, dopo un anno di pandemia, e oggettivamente sono destinate a crescere nei prossimi mesi, nei prossimi due/tre anni. Dopo una prima fase di assoluta emergenza pandemica, che durerà ancora a essere ottimisti fino all’estate, si passerà inevitabilmente al ritorno a politiche rigorose per fronteggiare l’enorme debito pubblico, ma con un piano strategico del Recovery Fund approvato e avviato e con un quadro politico totalmente diverso. Vi è una penuria di risorse che si rivela anche nel caso del Recovery Fund, se non si conduce una politica vera di ridistribuzione della ricchezza e di lotta alle diseguaglianze che naturalmente non si prende in considerazione. Nonostante l’ingente flusso di finanziamenti, dopo una corposa trance iniziale, per i prossimi sei anni non arriverà a erogare che poco più di 10 miliardi all’anno tra finanziamenti a fondo perduto e risparmi di interessi, a meno che l’UE non decida altri provvedimenti. Ben poca cosa rispetto all’enormità di una crisi che ha creato una massa immane di imprese insolventi, come ricordato proprio da Draghi. Diventa allora urgente affidare al “tecnico” l’impostazione di una politica economica fortemente competitiva e selettiva, una politica di assoluto rigore e di contenimento del debito pubblico. La questione vera è quindi la ripresa della lotta politica! Per questo ci sono le condizioni oggettive per la formazione di un nuovo partito della sinistra, ma non quelle soggettive. Una volta chiarito che il Pd non giocherà più un ruolo centrale nel quadro politico italiano e sarà nel contempo ridotto, sotto il livello di guardia, il pericolo delle destre nazionaliste e populiste, e quindi verrà meno il ricatto del voto utile, forse si realizzeranno anche le condizioni soggettive per spingere alla formazione di un forte partito della sinistra che non nasca per una politica basata su un illusorio riformismo rinchiuso dentro gli steccati di un sistema a-democratico dominato dal capitale finanziario. Nutro fermamente questa speranza, anche se per i prossimi due o tre anni non vedo all’orizzonte nulla di buono.
P.S.
Chi è Mario Draghi? Dal 1991 al 2001 è Direttore Generale del Ministero del Tesoro, dove viene chiamato da Guido Carli, ministro del Tesoro del Governo Andreotti VII, su suggerimento di Carlo Azeglio Ciampi, all’epoca governatore della Banca d’Italia. È stato confermato da tutti i governi successivi: Amato I, Ciampi, Berlusconi I, Dini, Prodi I, D’Alema I e II, Amato II e Berlusconi II. In questi anni è stato l’artefice delle privatizzazioni delle società partecipate in varia misura dallo Stato italiano.
Nel 1992, prima che in Italia avesse inizio la stagione delle privatizzazioni, incontrò alti rappresentanti della comunità finanziaria internazionale sul panfilo HMY Britannia della regina d’Inghilterra Elisabetta II. Questo episodio scatena un’accesa polemica nel dibattito pubblico italiano. Nel 2008, il Presidente emerito della Repubblica italiana, Francesco Cossiga, ricordando quest’episodio, respinse l’ipotesi di vederlo sostituire Romano Prodi a Palazzo Chigi. Cossiga affermò assai esplicitamente: <<Un vile, un vile affarista…socio della Goldman & Sachs, grande banca d’affari americana …il liquidatore, dopo la famosa crociera sul Britannia, dell’industria pubblica, la svendita dell’industria pubblica italiana, quand’era Direttore Generale del Tesoro, colui che svenderebbe quel che rimane di questa povera patria (Finmeccanica, l’Enel, l’Eni) ai suoi comparuzzi di Goldman Sachs>>. In questa Banca fu dal gennaio 2002 al dicembre 2005, quando divenne Governatore della Banca d’Italia, dove rimase fino alla nomina a quella Centrale Europea nel 2011.
Dalla campagna di privatizzazione di società come IRI, Telecom, Eni, Enel, Comit, Credit e varie altre, consegnate ai cosiddetti “capitani coraggiosi”, lo Stato italiano ricavò all’incirca 182.000 miliardi di lire. Secondo alcune stime, il rapporto debito pubblico italiano sul Pil scese dal 125 per cento del 1991 al 115 del 2001. Fu inoltre la guida della commissione governativa che scrisse la nuova normativa in materia di mercati e finanza e per questa ragione viene informalmente chiamata legge Draghi (Decreto legislativo 24 febbraio 1998 e come ben si nota, qui ci si attiene al terrore del debito pubblico, tipica concezione della scuola neoclassica tradizionale, prekeynesiana. Quindi Draghi, svendendo le imprese pubbliche, viene considerato benemerito per aver ridotto questo debito. E poi, solo alla fine del mandato alla BCE, egli si ricorda vagamente di alcune tematiche keynesiane e accenna ad una autocritica per l’austerità caratteristica di tutta la politica economica della UE.
Ci vuole tanto a capire che siamo oramai in un sistema a-democratico dominato dal capitale finanziario e dai suoi tecnocrati? Quando la politica è incapace di prendere decisioni allora subentrano loro con l’appellativo di salvatori della Patria, ma devono solo gestire, come per il Recovery Fund, un fiume di denaro per conto delle oligarchie finanziarie europee, in particolare della Germania.
Quello di Mattarella è un colpo di mano? Sì, ma non è il primo e non sarà l’ultimo. La Costituzione italiana è solo carta da sbandierare per fare retorica sull’ideologia della democrazia.
Sandro Valentini
Appunti per un dibattito più serio sul MES. di V. F. Russo
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Il MES (meccanismo per la stabilità dell’Eurozona, alias, fondo salva Stati) nasce nel 2010 come evoluzione della EFSF (strumento per la stabilità finanziaria europea) per offrire assistenza finanziaria sulla base di un emendamento all’art. 136 del TFUE (Trattato sul funzionamento dell’Unione europea). Questo dice che i Paesi membri PM dell’Eurozona “possono attivare il meccanismo se indispensabile per la salvaguardia della stabilità dell’eurozona nel suo insieme e che la necessaria assistenza finanziaria richiesta sarà assoggettata a precisa condizionalità”.
Chiariamo subito che la missione fondamentale del MES è garantire la stabilità finanziaria dell’area euro nel suo insieme e che stabilizzazione finanziaria non significa quella del ciclo economico che resta compito delle politiche economiche dei Paesi Membri (PM). La dotazione iniziale di risorse da prestare ai PM che lo richiedano fu fissata in 500 miliardi ed è stata incrementata successivamente.
L’art. 12 prevede le condizionalità che il MES può collegare alle due principali linee di credito attivabili su richiesta di un PM in difficoltà: a) le PCCL (Precautionary Conditioned Credit Line), che comportano una condizionalità attenuata; e linee di credito rafforzate, ECCL (Enhanced Conditions Credit Line), dove la condizionalità è relativamente maggiore ma sempre concordata nel Memorandum d’intesa.
L’art. 13 prevede i termini della condizionalità che sono concordati all’interno di un Memorandum di intesa tra il paese richiedente assistenza e il MES anche attraverso le c.d. Clausole di azione collettiva a suo tempo fissate dall’Eurogruppo il 28-11-2010. La procedura di richiesta di assistenza da parte degli PM scatta dopo che si sia accertata l’esistenza di un rischio per la stabilità dell’area euro o di uno o più PM. È prevista anche la possibilità di partecipazione del Fondo monetario internazionale FMI in ragione della sua storica esperienza in materia.
L’art. 14 prevede la precautionary financial assistance, ossia, l’assistenza finanziaria precauzionale tesa a prevenire le crisi che, se non affrontate tempestivamente, di norma, portano alla perdita dell’accesso ai mercati finanziari come è successo alla Grecia. Il programma di assistenza preventiva viene elaborato dal Consiglio e dal Direttore del MES sulla base di un Report preparato dalla Commissione europea. Dopo un primo utilizzo delle risorse (prestito oppure il ricavo di un acquisto di titoli del DP (debito pubblico) emessi dal PM richiedente nel mercato primario) il MES d’intesa con la Commissione europea e con la BCE decidono se la linea di credito aperta è sufficiente per continuare oppure se occorre attivare altri strumenti di assistenza finanziaria. Credo che anche da questa sintesi dell’art 14 emerge chiaramente come l’alternativa proposta da alcuni critici del MES (BCE si MES no) è mal posta e infondata. La BCE è comunque coinvolta. Il MES interviene con operazioni analoghe che fa la BCE. Ma c’è di più, senza un intervento preliminare del MES, la BCE non potrebbe attivare le Outright Monetary Transactions OMT che prevedono acquisti illimitati di titoli del debito pubblico di PM in difficoltà nonostante i primi interventi del MES. È coinvolta soprattutto la Commissione che è organo di governo che deve prevenire i rischi di crisi sistemiche della stabilità dell’Eurozona innescati da uno o più PM per motivi diversi, cause simmetriche e asimmetriche. Rebus sic stantibus, il rifiuto di avvalersi degli strumenti di assistenza del MES sarebbe un suicidio.
L’Art. 15 prevede l’utilizzo di linee di credito attivabili dal MES per la ricapitalizzazione di istituzioni finanziarie dei PM. Questi prestiti vengono concessi seguendo la stessa procedura riassunta nell’art. 14: Memorandum d’intesa tra MES e PM richiedenti a seguito di un Report della Commissione europea.
L’art. 16 è rubricato come prestiti (diretti) del MES ed è probabilmente l’articolo che i suoi contestatori hanno in mente quando attaccano questa istituzione. Non lo dicono perché molti di loro non hanno letto il Trattato e parlano per sentito dire. Ai sensi dell’art. 16 il MES offre i suoi prestiti in cambio di programmi di aggiustamenti macro-economici concordati nel Memorandum d’intesa definito anche questo sulla base di un Report della Commissione europea che, di noma, propone le famigerate riforme strutturali. È questa la odiata condizionalità che esponenti dell’opposizione non vogliono trascurando che squilibri macroeconomici nei conti pubblici, nella bilancia dei pagamenti, prima o poi, creano rischi di instabilità non solo per il paese che li ha causati o subiti ma anche per l’area euro nel suo insieme. Trascurando che nella Commissione e nello stesso Board del MES e della BCE ogni PM ha i suoi rappresentanti e che nel MES l’Italia, come la Francia e la Germania, ha potere di veto in ragione dell’entità della sua quota di partecipazione e del suo voto per i casi di particolare urgenza. Trascurando che in una istituzione sovranazionale e anche in uno Stato federale vero e proprio uno Stato federato non ottiene aiuti ad libitum senza alcuna condizionalità. Non pochi Italiani credono nelle favole e nella Fata Misericordiosa che li deve assistere comunque a prescindere da ogni valutazione di merito di credito. E’ noto che non pochi italiani sono creduloni e, per questo motivo, politici disinvolti dell’opposizione e anche del M5S hanno gioco facile a continuare ad ingannare i loro stessi elettori. Chiusa la parentesi, ribadisco che questa appena descritta è la missione fondamentale del MES: assistenza finanziaria ai PM dell’Eurozona aprendo linee di credito, acquistando titoli del debito pubblico emessi dai PM in difficoltà che ne fanno richiesta, offrendo direttamente prestiti ai sensi dell’art. 16 citato. Da ultimo il MES è stato autorizzato ad aprire una linea di credito per le spese sanitarie dirette ed indirette provocate dal Covid-19 ma per carità non solo l’opposizione ma neanche il governo vuole avvalersi di essa.
Come previsto dall’art. 21 del Trattato, il MES si procura la liquidità per svolgere la sua missione emettendo titoli da piazzare nei mercati finanziari, indebitandosi con banche, con istituzioni finanziarie o “con altre persone o istituzioni” – sì proprio così. Detto in altre parole, a ben riflettere il ruolo del MES è quello di un Ufficio del Tesoro e/o del debito pubblico che fa quello che attualmente non possono fare la Commissione europea e la BCE. Se questo è vero, è del tutto infondata la demonizzazione che del MES si è fatta in Italia. Di certo, porta lo stigma del caso Grecia ma pochi sanno o ricordano che a prescrivere quelle operazioni non era il solo MES. Dietro e sopra di esso c’era la Troika formata da delegati della BCE, FMI e CE. E sappiamo ancora chi c’era dietro e sopra la stessa Troika: il Consiglio europeo e l’Eurogruppo. E se l’Italia non avesse voluto il massacro della Grecia avrebbe potuto porre il veto. Ma non l’ha fatto.
Venendo brevemente alle questioni urgenti sul tavolo: come trovare le ingenti risorse per finanziare il rilancio della crescita che, in questa fase, si collega alla riconversione ecologica e alla digitalizzazione dell’economia, ai fabbisogni straordinari di finanziamento degli ammortizzatori sociali, allo sviluppo sostenibile, in sintesi, ai cosiddetti Recovery Bond ed ora anche ad un aggiuntivo e/o collaterale strumento di trasferimenti a fondo perduto, collegati al QFP (Quadro finanziario poliennale) non ancora approvato è stato posto e sollevato anche dalla Presidente della CE Ursula Von Der Leyen la questione di soluzioni ponte nel suo recente discorso davanti al PE. Se si dovesse prendere sul serio la proposta di una soluzione ponte non vedo altra soluzione “tempestiva” che l’utilizzo del MES che, nel giro di qualche mese, potrebbe essere autorizzato ad aprire nuove linee di credito previa emissione dei famigerati eurobond. Ogni altra soluzione rischia di slittare alla Primavera 2021 se non oltre.
Ancora non sappiamo cosa significhi esattamente l’aggancio del Recovery Fund al QFP (non un vero bilancio come a disposizione di ogni governo di un paese centralizzato o decentralizzato). Secondo me, non significa granché o meglio può significare che il servizio del debito pubblico emesso dal Fondo sarà finanziato con i contributi dei PM al QFP – ancora non approvato. La cosa non cambia radicalmente rispetto al modo in cui viene finanziato il MES. Agganciare l’emissione di eurobond alla contestuale costituzione di una capacità fiscale all’interno del bilancio come alcuni propongono è proposta fumosa per due motivi principali: 1) richiede tempi lunghi per raggiungere un accordo tra i PM pur in presenza di elaborate proposte di diversa consistenza e provenienza; 2) perché data l’entità delle risorse necessarie per la grande trasformazione e per uscire dalla recessione servono alcune migliaia di miliardi di euro e non vedo tributi propri che possano finanziare un tale livello di spesa pubblica. Ragionevolmente possono finanziare il servizio del nuovo debito pubblico da emettere. Ma data la natura delle spese da fare (a media e lunga produttività) è scelta obbligata ed equa ricorrere alla emissione di debito pubblico.
Ho spiegato in miei interventi precedenti che per come è finanziato il QFP non c’è solidarietà se non in termini minimi in relazioni ai fondi strutturali, regionali e in generale di coesione. Infatti, il QFP è costruito con il metodo dei saldi netti: ognuno contribuisce in base al PIL; poi cerca di riprendersi il massimo possibile riducendo la contribuzione netta. anche questa è concorrenza fiscale al ribasso.
L’altro modello, in una necessitata fase transitoria, è e resta quello del MES questo costruito sulla base del modello BCE; qual è allora la differenza? Agganciando il Recovery Fund al QFP avremmo un modello generale analogo a quello della BCE per interventi su shock simmetrici e asimmetrici; il MES resterebbe uno strumento speciale complementare e integrativo per correggere o combattere shock asimmetrici riguardanti uno o più PM con squilibri particolari sui conti pubblici, sul debito, nella sanità pubblica, ecc.
In Italia il MES è stato demonizzato dallo stesso governo Conte per via del dissenso interno alla stessa maggioranza di governo che ripetutamente ha dichiarato che non si avvarrà dei finanziamenti che potrebbe ricevere per le spese sanitarie dirette e indirette che ha dovuto effettuare a causa del Covid-19. Raffinati giuristi mettono in evidenza che la Commissione e la BCE sono istituzioni europee previste dai Trattati e quindi di diritto comunitario mentre il MES è una istituzione creata con un Trattato intergovernativo e quindi di diritto internazionale. Come economista osservo che gli obiettivi di politica economica perseguiti sono gli stessi anche il MES è istituzione europea in ragione della missione che gli è stata affidata. E questa può riassumersi nel coordinamento delle politiche economiche e finanziarie che la Commissione non riesce a conseguire nonostante le norme del Patto di stabilità e crescita, del semestre europeo, del MES e quelle del Fiscal Compact di cui, a suo tempo, si è detto e scritto di peggio rispetto al MES.
Nella teoria della politica economica si sono sempre contrapposte due visioni di condotta pratica della stessa: regole o discrezionalità. I paesi egemoni dell’UE che non si fidano degli altri né di loro stessi hanno scelto di sviluppare le regolamentazioni più particolareggiate ma si scontrano con quelli che prendono sottogamba dette regole. Secondo studi e ricerche del FMI le regole elaborate direttamente nei Trattati e negli annessi regolamenti, direttive e raccomandazioni sono state sempre ampiamente violate e/o ignorate. Nel frattempo per via della globalizzazione e della piena libertà dei movimenti di capitale si sono sviluppate le società di rating che guidano gli investitori internazionali e valutano le prospettive di crescita dei vari paesi del mondo. In altre parole, si è sviluppata una certa funzione di monitoraggio (secondo alcuni di disciplina) dei mercati che, in qualche caso, essa è stata utilizzata a fini di lucro. Nella UE, alcuni governi egemoni hanno ammonito i PM poco propensi al rispetto delle regole concordate minacciando di lasciarli in preda a detta “disciplina dei mercati” ma neanche questa ha funzionato secondo le aspettative. La mia valutazione è che non è possibile elaborare regole scritte casistiche che prevedano tutti gli eventi futuri. Pochi avevano previsto l’arrivo della crisi dei mutui subprime e il suo diffondersi a livello mondiale nel 2008. Nessuno ha previsto l’arrivo del Covid-19. Il senno di poi ci conferma che l’UE ha affrontato male e tardi la prima crisi. Adesso sta rispondendo meglio e più rapidamente alla Pandemia e alla recessione ma resta il fatto che l’assetto istituzionale e gli strumenti a disposizione sono inadeguati. Non abbiamo l’Unione bancaria, meno che mai un mercato unico dei capitali, non abbiamo un vero e proprio governo al centro in grado di svolgere una politica economica ad un tempo unitaria e debitamente articolata a livello continentale. Abbiamo un Parlamento europeo senza il potere sovrano di istituire tributi propri. Abbiamo al vertice un Consiglio europeo giano bifronte più attento agli interessi nazionali che a quelli europei. Va sostituito con un Senato federale eletto direttamente dai cittadini europei. Anche i nuovi strumenti che sono stati proposti recentemente che segnano una significativa svolta nella direzione giusta restano insufficienti rispetto alla dimensione e complessità dei problemi da affrontare. PQM è urgente abbandonare la prevista Conferenza e riaprire il cantiere delle riforme istituzionali per passare ad un assetto di stampo più genuinamente federale. L’unica istituzione che può aprire una tale fase costituente è il Parlamento europeo. Ma sarà in grado di farlo?
Vincenzo F. Russo
Tratto dal Blog personale dell’autore al link: http://enzorusso.blog/2020/05/25/appunti-per-un-dibattito-piu-serio-sul-mes/
L’Europa di fronte al Covid19: ovvero l’ultima sfida a sostegno del sogno Europeo. di A. Angeli
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“Dieci giorni per una proposta o l’Italia farà da sola”, è quanto ha dichiarato Conte al termine del Consiglio Europeo dei 27 durato oltre sei ore, e terminato con l’intesa a risentirsi tra due settimane, dando l’incarico alla Ursula Von der Leyen e Charles Michel di presentare proposte capaci di dare serie risposte all’emergenza economica e finanziaria e alla stabilità all’Europa.
Come un giocatore di poker Conte ha giocato le sue carte. Un bluff o l’ultima chance per la tenuta dell’Eurozona? Per scoprirlo dobbiamo pazientare e attendere che gli incaricati assolvano il loro compito predisponendo le proposte da sottoporre al Consiglio Europeo. La richiesta di Conte è paragonabile a un piano Marshall, un intervento finanziario straordinario per grandezza e importanza, che prescinda da ogni condizionamento, e a tale proposito ha dichiarato: “Come si può pensare che siano adeguati a questo shock simmetrico strumenti elaborati in passato, costruiti per intervenire in caso di shock asimmetrici e tensioni finanziarie riguardanti singoli paesi?”, avrebbe chiesto Conte ai leader Ue nel corso del Consiglio europeo. “Se qualcuno dovesse pensare a meccanismi di protezione personalizzati elaborati in passato allora voglio dirlo chiaro: non disturbatevi, ve lo potete tenere, perché l’Italia non ne ha bisogno”, ha aggiunto. Conte ha chiarito che nessuno pensa a “una mutualizzazione del debito pubblico. Ciascun paese risponde per il proprio debito pubblico e continuerà a risponderne”.
Insomma, è richiesta un’azione senza precedenti, veloce, coordinata a livello globale sui fronti della crisi sanitaria, economica, per salvare vite, preservare la struttura produttiva e sostenere le famiglie, garantire un reddito a chi momentaneamente ne è sprovvisto, senza distinzione di categorie e di professione. Questo stato di cose ci induce a porci la domanda: se quest’Europa è nella condizione politica per affrontare il cambiamento che la situazione ineludibilmente imporrà sia messa in atto, affinché l’Europa possa sopravvivere.
Al momento possiamo prendere atto di cosa è l’Europa: un arcipelago di varie lingue e culture, una pluralità di popoli e nazioni, con costumi, ambizioni, caratteri spesso concorrenti; le stesse leggi dell’economia e del diritto, le prospettive politiche e le leggi civili, si differenziano concorrenzialmente. Ciò che le avvicina e accomuna nel cammino è astrattamente identificabile con le banche, la moneta, la burocrazia. Un livellamento burocratico cui è affidato il controllo delle istituzioni democratiche.
Insomma, concettualmente, questa Europa si configura come un’associazione dei mercati, che si specchia nello scenario capitalistico dentro il quale l’individuo è sospinto verso una rassegnazione subordinata ai rapporti produttivi e di signoraggio economico, che lo spirito della storia manipola come un’arma letale. Su questo terreno nessuna narrazione democratica può sopravvivere, e il vuoto d’interesse che si manifesta proietta ai nostri occhi una sorta di afasia sulla quale riposano i sentimenti inespressi e incompleti di ogni individualità. Eppure, il vuoto ci sta di fronte: nessun soggetto rivoluzionario, nessuna responsabilità oggettivante e ideale si appalesa, sulla quale almeno tentare di costruire un progetto trasformatore dell’esistente. A questo proposito non può sfuggirci la sacralità monacale della pervicace burocrazia che alimenta il globalismo in cui l’Europa soggiace; cosi che la finanza diviene un simbolo, come L’Efeso di Crizio è venerata la BCE, e tutte le emozioni e le passioni, che speculano su un mondo alternativo a quello attuale, devono ripiegare a favore dell’assolutismo monocratico governato dal caleidoscopio degli stilemi democratici dei 27 paesi Europei.
Per questo, gli occhi di molti, L’Europa si presenta come un grande palcoscenico sul quale recitano umani senza testo, la cui recita si subordina all’autoreferenzialità classificatoria, uno spettacolare ciclotone economico-finanziario che trasforma tutto, uomini e cose, aspirazioni, in particelle senza relazione, prive del vissuto, a cui per sopravvive la canonizzazione dell’interesse, del mercato condizionato, del merito certificato, tutto è riassunto dai superbi scenografi detentori del vero potere della recita istituzionale dell’Europa, vale a dire quei Paesi che hanno ritenuto non adattabile al loro copione la recita sostenuta da Conte e dagli altri Paesi dell’area mediterranea.
Quanto accaduto ci svela che siamo alla presenza di un nuovo incipit teorico: la commutabilità dello spirito europeo in valore monetario e della solidarietà in una donazione concessa dal potere democratico amministrato dalla plutocrazia sovranazionale. Allora non ci si deve meraviglia se il cittadino averte di sentirsi solo, un’“ atomista della solitudine” seguendo un’espressione di Hegel, e questo nonostante l’economia si definisca liberale, un universo di possibilità, pronta a esaltare l’uguaglianza de facto. Mentre la realtà ci rivela che viviamo nel parossismo del falso; poiché, si, tutti uguali, ma tutti separati, in un magma sociale privo di coscienza e senza un orizzonte e in lotta per mantenere le proprie posizioni consumistiche e di benessere.
Presto quindi vedremo se Conte ha bleffato o se saprà resistere e imporre un cambiamento di metodo, di pensiero, di prospettiva per l’Europa. E’ il momento della prova, occorre procedere decisi, risoluti e cogliere questo momento per cominciare a ripensare ad una nuova Europa.
Alberto Angeli
La gaffe di C. Lagarde. di A. Angeli
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Ma è stata proprio una gaffe, la frase di Christine Lagarde “ la BCE non è lì per contenere lo spread”, oppure. Oppure, come si dice, pensare male si fa peccato, ma spesso ci si azzecca. Una frase che giovedì 12 ha fatto precipitare i mercati europei, che hanno avuto un crollo mai segnato nella storia, soprattutto Piazza Affari piombata a un meno 17%, bruciando 84,2 mld di euro. Da parte dei tanti osservatori economici e finanziari, ma soprattutto del Copasir,( Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica) son state espresse parole di sbalordimento e preoccupazione ( meglio dire sospetto ), tanto da chiedere alla Consob di fornire i dati sugli scambi. Nella sostanza al Copasir, pur non competendo a quest’organismo intromettersi nelle dinamiche del mercato azionario, l’intervento è stato deciso per difendere il patrimonio industriale, tecnologico e scientifico del nostro paese mettendolo al riparo da azioni speculative. Insomma, accorre che ci sia una risposta all’interrogativo che il Copasir si pone e cioè dove sia finito circa un quarto delle azioni delle blue chips, che nel giro di due giorni hanno oscillato in Borsa.
Nella sostanza, l’indagine Copsir è rivolta a comprendere se ci sono state o sono in corso scalate estere sul mercato industriale del nostro Paese, presagendo, forse, che dall’estero qualcuno ha pensato di sfruttare questa situazione di debolezza socio/sanitaria e economica, per fare acquisti delle nostre migliori strutture produttive. Il faro è indirizzato verso società del settore bancario e assicurativo, delle telecomunicazioni, dell’energia, della difesa e della ricerca chimica farmaceutica. Non è paranoia, quella del Copasir, ma una sana e fondata preoccupazione e un’intelligente reazione, anche perché al divieto delle vendite allo scoperto, impartito dalla Consob, Germania e Francia non si sono uniformate, diversamente da Spagna e Regno Unito.
L’esperienza della Christine Lagarde non è messa affatto in discussione, per cui il sospetto che non si tratti di una gaffe, bensì di una operazione ostile al nostro paese non pare sorprendere gli osservatori politici e finanziari, anche se qualcuno più smaliziato vi ha visto qualcosa di più “politicamente scorretto”. D’altro canto c’è un’esperienza al proposito della rapacità della finanza speculativa, vissuta dalla Cina nella coincidenza del coronavirus esploso a Wuhan con il conseguente crollo del mercato azionario, esponendo imprese internazionali di alto livello tecnologico, che producono in Cina, ad azioni di acquisizione a prezzi stracciati. Lagarde ha cercato di rammendare alla meglio il danno, forse peggiorando le cose invece di chiarire. Poi, dopo molte ore, una serie d’interventi autorevoli, dalla Von der Layen ai componenti della BCE e altri membri della Commissione, hanno riportato la calma sui mercati finanziari e consentito un lieve recupero della borsa nazionale e internazionale ( anche, forse, per l’intervento di Trump, che ha esposto il suo programma contro il coronavirus, con lo stile demenziale che lo caratterizza ).
E il governo? Il buon senso ci spinge a sospendere ogni giudizio, a recriminare sui provvedimenti, a criticare e contestare le troppe lacune in materia di fornitura dei mezzi medicali, soprattutto la mancanza di mascherine, di disinfettanti. La risposta ai provvedimenti è generalmente accolta con responsabilità e partecipazione. L’invito a rimanere tutti a casa è seguito giudiziosamente, nella speranza che la battaglia che il paese sta conducendo contro questo nemico invisibile si affermi vincente. Sono però i temi economici che preoccupano, il rischio di perdere il lavoro di non farcela con le proprie forze e le poche risorse, anche economiche, a fare fronte ai tempi duri che ci attendono. Il coinvolgimento dell’opposizione, a sostegno dei provvedimenti economico e finanziari deliberati, pur in una condizione dialettica, sono poca cosa rispetto a ciò che lo stato delle cose richiederebbe. La disponibilità dell’Europa, della Commissione tutta, del Parlamento, dovrebbe spingere il governo ad adottare provvedimenti adeguati con risorse più consistenti, per rafforzare il sistema sanitario, dotandolo di tutti gli strumenti medici necessari, anche mettendo in cantiere la costruzione di industrie specifiche; aiutare e sostenere il settore agro/alimentare, mettendo allo studio forme utili a proteggere la salute dei lavoratori del settore; garantire l’approvvigionamento delle risorse alimentari alle strutture commerciali mettendo a punto un piano, con un commissario ad hoc, per disciplinare l’accesso all’acquisto, avendo cura di garantire la difesa sanitaria degli operatori. Allestire una struttura, che affianchi la croce rossa e le tante strutture di volontariato, per assistere gli anziani soli e impossibilitati a muoversi ( considerato che è imposta la sospensione di ogni loro mobilità perché più esposti al rischio infettivo ). L’accordo sindacati e aziende, firmato proprio oggi, sulla difesa della salute dei lavoratori intesa come prioritaria, è un fatto notevole per garantire la continuità produttiva, da attivare là dove sono stasi messi in atto i provvedimenti di prevenzione sanitaria. Il nostro paese ha la fortuna di possedere un personale medico, infermieristico, di supporto invidiabile, prezioso, ammirevole. A loro deve andare tutta la nostra riconoscenza, anche perché la lezione che abbiamo appreso in questa circostanza non deve concludersi con la vittoria sul coronavirus: il sistema sanitario e i suoi operatori dovranno rimanere al centro della nostra considerazione e priorità politica. Tutti usciremo diversi, da questa lotta, con una maggiore consapevolezza sulla nostra naturale debolezza rispetto all’ambiente, all’uso che facciamo delle sue risorse, per cui quando riprenderemo a confrontarci sulle scelte politiche da compiere, insomma a dividerci, saremo sicuramente diversi e più responsabili. Ora cerchiamo di vincere la nostra battaglia per ritornare a sorridere.
Alberto Angeli
Dalla peste di Camus al 2020. di A. Angeli
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“Orano un giorno d’aprile 194.., il medico Rieux scopre il cadavere di un ratto sul suo pianerottolo. Il portinaio, il signor Michel, pensa che siano dei burloni che si divertono a mettere questi cadaveri di ratti all’interno dell’edificio……” E’ questo l’inizio del romanzo La Peste di Camus scritto tra il 46 e il 47, un successo letterario, una tragedia descritta in 5 atti e che ha inizio nel 194.. nella città di Orano, che “volge le spalle al mare”. Alcuni giorni più tardi, un’agenzia di stampa annuncia che più di sei mila ratti sono stati raccolti quel giorno. L’allarme aumenta, alcune persone iniziano a prendersela col sindaco. Quando, improvvisamente, il numero di cadaveri diminuisce, le strade tornano pulite, la città si crede salva. Il Signor Michel, il portinaio, cade però malato. Rieux tenta di curarlo, ma la malattia peggiora rapidamente. Rieux non può fare nulla per salvarlo. Nel leggere i 5 atti il lettore capirà come la peste raccontata da Camus non è una malattia, ma la malattia dell’umanità, una terribile sciagura imprevedibile e spietata, Così come lo è stata la seconda guerra mondiale, con quanto di particolarmente orribile l’ha accompagnata. Alla fine del racconto, quando la peste era finita e il terrore scomparso, allora le coppie separate dalla quanrantena e quanti obbligati a rinchiudersi per nascondersi al contagio si ritrovarono, e povere di parole, affermavano in mezzo al tumulto, con gioia e una esagerata felicità, che la peste era finita e che il panico aveva fatto il suo tempo. Negavano [i sopravvissuti ] tranquillamente e contro ogni evidenza che noi avessimo mai conosciuto un mondo insensato, in cui l’uccisione d’un uomo era quotidiana (…) negavano insomma che noi eravamo stati un popolo stordito, di cui tutti i giorni una parte, stipata nella bocca di un forno, evaporava in fumi grassi, mentre l’altra, carica delle catene dell’impotenza e della paura, aspettava il suo turno.” La metafora che Camus ci consegna è quella della guerra dell’anno 194.. in cui si svolsero i fatti, ma nello stesso tempo evidenzia i tipi con la loro leggerezza e inclinazione alla speculazione, quelli che ne approfittano per arricchirsi, quelli che accettano con fede ipocrita la peste, quelli che tentano di fuggire, ma poi ragionano e si sentono coinvolti nella lotta. Resta la morte, anche quando l’epidemia è finita e i parenti e gli amici si ritrovano; “tutti sanno però che il microbo della peste non muore mai” allora Camus lascia che il narratore affermi: “e può restare dormiente per decenni, ma non scompare”: ( la guerra potrà tornare, il senso della metafora ).
Rileggere la Peste di Camus è un ottimo esercizio mentale con il quale valutare serietà e razionalità di chi ha la responsabilità istituzionale e politica di assolvere ad un compito, delicato e difficile, quale quello di difendere la salute e la vita dei cittadini, i quali si aspettano un comportamento come il medico Reiux che, coinvolgendo le autorità, ottiene di chiudere la città, dopo che le stesse hanno considerato la gravità dell’epidemia in corso. Anno 2020, fine febbraio, la nuova peste del secolo ha il nome Covid 19, coronavirus, e per l’OMS è emergenza sanitaria globale, con la Cina punto focale dell’epidemia. Il mondo si trova quindi a dover fronteggiare l’evoluzione dell’infezione, per cui ognuno di noi, benchè preoccupato, confida e affida la propria fiducia alla capacità dei propri governanti di organizzare rapidamente una risposta efficace e complessiva. Mentre lo spettacolo che ci viene proposto è una risposta disordinata, fino al punto che ogni Paese improvvisa provvedimenti in totale disarmonia con i vicini, ritenendo di poter fronteggiare il flagello epidemico chiudendo i propri confini, ricorrendo all’isolamento, anzichè organizzare le necessarie difese per combattere e debellare il virus rispettando le indicazioni degli scienziati. Cosi la responsabilità politica, che pertiene alle istituzioni e ai politici, ha preso la forma di una nuova guerra tribale, nella quale corriamo il rischio di bruciare il patrimonio di civiltà conquistata dopo la seconda guerra mondiale.
L’altro rischio virale, che il mondo sta correndo, è il crollo dell’economia, i cui segnali ci sono dati dall’andamento delle borse, sempre in calo, comprovando una evidente sensibilità dall’andamento crescente dell’epidemia globale anche a causa della tipologia delle risposte: interruzione dei rapporti economici, commerciali, di mobilità delle merci, finanziari, che i paesi infettati mano a mano adottano in un crescendo distruttivo della produzione e della ricchezza. Certo, qui il ruolo dell’ONU, del FMI, dell’Europa, della BCE, è al momento totalmente assente o, almeno, impercettibile. E queste assenze pesano sull’economia, sulla produzione, sul lavoro, sui redditi delle famiglie. Sono queste attenzioni, che il cittadino richiede, rivendica, e si aspetta. Chiunque, di buon senso, avverte in primis il dovere di combattere l’infezione, ma non ignora che la lotta contro l’epidemia deve e può essere condotta anche difendendo i posti di lavoro, la mobilità, la sicurezza degli scambi e soprattutto i redditi dei lavoratori e dei pensionati. E l’Italia? L’emergenza epidemica si combina con quella economica, con gravi ripercussioni generali: crisi del turismo, chiusura delle scuole e delle università, dei servizi e del terziario, dei trasporti terrestri e aerei, isolamento di intere aree del paese e chiusura delle frontiere adottata e imposta da numerosi Paesi. Tutto questo non è avvenuto per caso. E’ giusto riconoscerlo, a inizio crisi c’è stato un surplus di notizie da parte del Governo, ma la stampa e i media hanno strabordato e concorso a determinare panico e paura, incrementando una psicosi suicida che, meno male, lentamente sta rientrando. Ma il più spregiudicato è stato il comportamento della Lega e del suo segretario, il quale continua nella sua inqualificabile azione distruttiva di ogni razionalità, coerenza, rettitudine e responsabilità al solo scopo di portare all’incasso il sogno di un governo autoritario e sovranista. Dobbiamo confidare che il governo resista al difficile momento e che i provvedimenti che si accinge a deliberare vadano nella direzione di un sostegno all’economia, al lavoro, al reddito, cogliendo il momento sicuramente serio per disegnare un diverso modello di sviluppo verso cui indirizzare i provvedimenti, affinchè una volta pacatasi la violenza dell’epidemia, il paese possa continuare nel cammino per approdare a un modello di società aperta, solidale ed egualitaria.
Alberto Angeli
La grande battaglia: il debito greco sul tavolo dell’Eurogruppo, di A. A. Panagopoulos
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Le misure per la riduzione del debito greco nel medio e nel lungo periodo saranno affrontate oggi dall’Eurogruppo, mentre si aspetta dai ministri delle Finanze della eurozona di concludere la seconda valutazione del paese che permetterà il pagamento di una tranche di finanziamento di 7,5 miliardi. La Grecia paga ogni anno tra i 6 e i 7 miliardi di interessi per il suo debito e una riduzione dei soli interessi permetterebbe di aumentare gli investimenti pubblici e far crescere l’economia.
La questione della riduzione del debito rappresenta per Alexis Tsipras, il suo governo e SYRIZA “la madre di tutte le battaglie”, perché la riduzione del debito permetterà e garantirà al paese uno sviluppo forte e sostenibile, la creazione di posti di lavoro e la diminuzione delle diseguaglianze che sono cresciute dalle politiche neoliberiste. Si aspetta che la riunione dell’Eurogruppo di oggi apre la strada per una soluzione nelle prossime settimane, anche se ad Atene e alcuni funzionari europei credono che si potrà avere una soluzione anche oggi.
Il ministro della Finanze Tsakalotos ha detto al parlamento che le misure per la riduzione dei deficit che saranno adottate dal governo di sinistra saranno complessivamente di 14 miliardi per il 7 anni tra il 2015 e il 2022, mentre le misure a favore gli strati deboli e colpiti dalla crisi superano di molto questa cifra. Secondo alcuni calcoli del governo greco le misure positive possono arrivare anche al doppio di quelle non volute e imposte dai creditori, perché le misure positive sono constanti nel tempo mentre quelle imposte transitorie che dureranno solo fino alla fine del commissariamento del paese. Secondo Tsakalotos dalle misure positive saranno beneficiati almeno 6 milioni di greci, sui 10,5 milioni di popolazione. I tagli fatti dai governi di Papandreou, Papadimos e Samaras sono arrivati ai 63 miliardi nei 5 anni che hanno distrutto il paese, senza prendere mai una sola misura a favore della gente.
Papadimitriou, ministro dell’Economia: crescita oltre il 2,1%
Il ministro dell’Economia e dello sviluppo Papadimitriou parlando alla radio “stokokkino” ha detto che la crescita dell’economia greca sarà più alta del 2,1% delle previsioni della Commissione europea se i partner europei manterranno i loro impegni che permetteranno l’entrata della Grecia al Quantitative Easing della BCE, si procede alla riduzione del debito greco e si rafforza la liquidità del mercato.
Papadimitriou ha espresso anche le considerazioni del governo greco per la quattro soluzioni possibili per la questione del debito.
– Come ha detto il ministro dell’Economia il 65% dei prestiti europei dell’ESM ha un tasso di interesse variabile, che espone il paese ad una tendenza al rialzo in futuro. “Quello che vogliamo sono tassi di interesse bassi e fissi”, ha detto.
– Il governo greco sostiene inoltre la riduzione del valore del debito, una remissione in termini nominali, che “non so se siamo in grado di ottenerla, ma la vogliamo”.
– Un’altra soluzione potrebbe essere l’estensione del piano del pagamento degli obblighi esistenti.
– Infine, rispettivamente benefico sarebbe stato anche un periodo di grazia per il mancato pagamento degli interessi per un certo tempo.
Tsipras e Macron: D’accordo sulla riduzione del debito
Il primo ministro greco Alexis Tsipras ha avuto un colloquio telefonico con il neoeletto presidente francese Emmanuel Macron per quando riguarda il debito greco nel quale il presidente francese “ha detto che spera di raggiungere un accordo presto, che a sua volta sarà di alleviare il peso del debito greco”, secondo fonti del governo greco.
Tsipras ha sottolineato a Mcron la necessità di una soluzione completa per il debito greco “per il bene della Grecia e della zona euro”. “Questa è la rotta di marcia del ministro dell’Economia Bruno Le Mer, che oggi parteciperà dell’Eurogruppo a Bruxelles”, ha aggiunto il palazzo presidenziale dell’Eliseo.
I due hanno convenuto di lavorare in questa direzione e in stretta e costante comunicazione. Macron durante la recente campagna elettorale si è espresso ripetutamente a favore della riduzione del debito greco e gli altri debiti in Europa.
Incontro Le Mer e Schaeuble a Berlino
Il ministro delle Finanze tedesco Schaeuble durante la conferenza stampa a Berlino con il suo omologo francese Le Mer, poche ore prima dell’Eurogruppo, ha sottolineando che “non stiamo negoziando nuove misure per la Grecia, che richiederebbero un nuovo programma di assistenza” ma facciamo “sforzi… per trovare una soluzione per il debito della Grecia”.
Nel corso della conferenza stampa Schaeuble ha detto che “la zona euro e l’FMI continuano ad avere approcci diversi”, sottolineando però che “cercheremo di trovare una soluzione”. Schaeuble ha attribuito queste differenze alle moderate stime del Fondo per l’economia greca.
Da parte sua il ministro delle Finanze francese Le Mer ha messo in chiaro che Emmanuel Macron vuole che la Grecia rimane nella zona euro. Per quanto riguarda la riunione dell’Eurogruppo di oggi, egli ha osservato che “ci saranno discussioni sulla soluzione tecnica della sostenibilità del debito greco”.
Gabriel, SPD e ministro degli Esteri: dobbiamo mantenete le nostre promesse
“In Grecia è stata promessa più e più volte la riduzione del debito, se si saranno le riforme. Ora dobbiamo mantenere la nostra promessa”, ha detto il socialdemocratico ministro degli Esteri tedesco Gabriel chiedendo oggi l’impegno formale della zona euro per la riduzione del debito greco, esprimendo indirettamente una critica contro Schaeuble per le sue dure posizioni.
Schaeuble e gli altri ministri delle Finanze dell’Unione europea si riuniranno oggi per discutere il rilascio della tranche di 7,5 miliardi alla Grecia dopo che il paese ha votato la scorsa settimana le misure richieste dai suoi creditori, che in linea di principio hanno concordato di ristrutturazione del debito, ma non i dettagli.
“Alla Grecia è stata promessa più e più volte la riduzione del debito, se faceva le riforme” ha dichiarato Gabriel al quotidiano tedesco Sueddeutsche Zeitung. “Ora dobbiamo mantenere la nostra promessa. Questo non dovrebbe fallire a causa della resistenza tedesca°, ha aggiunto.
Moscovici, Commissario europeo: I partner devono
assumere le loro responsabilità
Il Commissario francese Moscovici ha sostenuto che la decisione formale di sospendere la procedura per i disavanzi eccessivi della Grecia sarà presa una volta che sarà adottata una decisione politica totale per la questione greca.
Moscovici ha sottolineato che la Grecia ha ridotto il suo deficit sotto il 3% del Pil sia per il 2016 che per il 2017 aggiungendo che “questa è una buona notizia”. Per il Commissario europeo della Finanze l’Eurogruppo di oggi, discuterà il completamento della seconda valutazione e il percorso del debito greco nel medio e lungo termine. “Spero che in modo positivo”, ha detto il Commissario francese, sottolineando che “dopo quello che è successo da parte delle autorità greche, il popolo greco e il parlamento greco è arrivato il momento che i partner della Grecia prendono le proprie responsabilità”.
Argyrios Argiris Panagopoulos