Keynes
Sulla crisi economica e il ruolo della globalizzazione. di A. Angeli

Herschel Ivan Grossman, è stato un economista americano noto soprattutto per il suo lavoro sullo squilibrio generale, condotto con Robert Barro negli anni ’70, e in seguito sui diritti di proprietà e l’emergere dello stato. Un anno prima della sua morte, nel 2003, iniziò la sua conferenza sul peggioramento della crisi economica a livello mondiale, tenuta a Timlil, con un richiamo biblico: la cacciata dal Giardino dell’Eden di Adamo e Eva e sopra di essi l’apparizione dei quattro cavalieri dell’apocalisse, che nel corso del tempo hanno devastato l’umanità: carestia, malattie, disastri naturali e le guerre. Nei tempi moderni, sia la scienza che la tecnologia hanno concorso a mitigare il peggio dei primi tre, di cui ancora godiamo i benefici, mentre l’indole dell’umanità verso il peggio, la guerra, ha consegnato al cavaliere dell’apocalisse che la rappresenta le sorti del mondo e del suo benessere sociale e economico.
Quello di Grossman è stato un aforisma azzeccato: la pandemia prima e oggi la guerra che sta devastando l’Ucraina, a cui sono seguite le sanzioni adottate da un numero rilevate di paesi contro la Russia per la sconvolgente e inumana invasione di un libero Paese induce, appunto, a richiamare l’apocalisse. Si tratta di un evento epocale che mette in discussione un ordine economico e sociale già sottoposto a tensioni sul fronte dei commerci, delle forniture, della produzione e degli scambi interrompendo la marcia della globalizzazione economico-finanziaria appena riavvita dopo la pandemia. L’incognita del dopo guerra pesa sulle valutazioni degli addetti a questi processi economici, soprattutto per capire se si tratterà di un nuovo ordine geopolitico e quindi di una de-globalizzazione o un nuovo sistema di scambi commerciali e finanziari in cui la Cina di Xi Jinping sarà chiamata a svolgere un ruolo molto più ridondante. Al momento, la massima preoccupazione è data dal risveglio piuttosto scioccante dell’inflazione che, come da scuola, è dovuta all’aumento dei prezzi, innescati da quelli della crisi energetica.
Grossman ci inviterebbe a mettere il cuore in pace e riflettere con intelligenza sul da farsi riguardo alla crisi economica: la corsa dell’inflazione in Italia viaggia verso una media per l’anno 2022 al 6,7%, al 7,9% negli Stati Uniti, al 7,3% in Germania e al 9,8% in Spagna. Gli analisti ci illustrano che i dati mostrano molti elementi transitori, anche se alcuni appaiono invece strutturali, per cui potrebbero rivelarsi duraturi comunque, sicuramente, non scompariranno molto presto. Per scaramanzia si è portati a pensare che dai picchi attuali il costo della vita calerà, prima o poi; questo lo prevedono tutti gli economisti, ma nessuno pensa che torneremo ai livelli di mini-inflazione che abbiamo conosciuto prima del Covid. E difficilmente passeremo questo anno senza dover riconsiderare il dato, condizionato dalla guerra in corso e dal nuovo ordine geopolitico che ne seguirà. D’altro canto sono proprio i dati di previsione elaborati da alcuni istituti di ricerca, sottoposti ad aggiornamenti quotidiani inseguendo l’andamento dei costi del gas del petrolio e degli approvvigionamenti, a ricordarci la volatilità delle precedenti elaborazioni, soprattutto poiché tutto il quadro macro economico è condizionato dallo scenario in cui la durata della guerra è una variabile cruciale. Alcuni istituti, come la Confindustria, si spingono a dipingere uno scenario deludente riguardo alle stime di crescita del PIL, a causa del costo del caro energia per le famiglie e le imprese e per le previsioni critiche del Pnrr e i suoi effetti lungo i termini del piano stesso, mettendo in conto una sua riconsiderazione.
Il dato dell’inflazione tendenziale, che alcuni prevedono, supererà il 7%, avrà effetti terribili sui depositi a risparmio, che ammontano a circa 1800 mld di euro, sui redditi da lavoro e sulle pensioni, già sottoposti alle tensioni negative degli aumenti energetici, con riflessi sui consumi e sulla tenuta dell’occupazione, del sistema sociale e dell’economia. Tutto questo avrà influenza sull’andamento dell’economia e sulla formazione del reddito nazionale che, seguendo le previsioni elaborate da S&P, è previsto che il Pil Italiano per 2022 passi dalle stime previste dal +4,7 al +3,1%, mettendo però in conto una previsione di probabile miglioramento su 2023 e 2024; ovviamente si tratta di un quadro di previsioni condizionato dall’andamento della guerra, dalla sua durata e dall’assetto geopolitico che ne scaturirà e quali conseguenze si combineranno nel processo di revisione della globalizzazione e dell’organizzazione commerciale e di intermediazione che andranno a formarsi dopo la guerra.
La guerra, appunto, perché è causata dall’uomo e rimane la più difficile da risolvere, nonostante i risultati che potrebbero derivare dal fatto che un sistema commerciale globale aperto potrà impedire a uno stato di avviare una guerra contro qualsiasi partner commerciale, perché altri partner commerciali nei mercati globali preferiscono fare affari con un attore “pacifico”. Quindi, teoricamente, l’apertura commerciale globale può ridurre l’incentivo a provocare un conflitto bilaterale. Allora questa probabilità ci induce a pensare che gli stati aperti ( come indica Popper ) possano essere più pacifici perché diventano più disponibili alla libertà politica e alla democrazia. Questo perché, ci dicono gli esperti, applicano meglio il diritto internazionale e impiegano il buon governo.
Pertanto, seguendo la dottrina degli esperti, la globalizzazione promuove la pace attraverso due canali: uno dal maggiore vantaggio che la pace detiene per l’interdipendenza commerciale bilaterale e l’altro dall’integrazione di un paese nel mercato globale, indipendentemente dall’entità del commercio con ciascun partner commerciale. La “globalizzazione”, è la tesi, è stata una delle caratteristiche più salienti dell’economia mondiale nell’ultimo secolo. I mercati emergenti e i paesi in via di sviluppo continuano a integrarsi nel sistema commerciale globale. Il commercio mondiale ( dati rilevati da Capitale e Ideologia di Thomas Piketty) è aumentato rapidamente, in particolare dopo la seconda guerra mondiale, dal 18% del PIL mondiale nel 1950 al 52% nel 2007. Allo stesso tempo, anche il numero di paesi coinvolti nel commercio mondiale è aumentato in modo significativo. Seguendo i risultati deli studi condotti suggeriscono ci svelano come l’integrazione commerciale non solo si traduce in un guadagno economico, ma può anche portare a un significativo guadagno politico, come un significativo “dividendo di pace” tra i partner commerciali. Spiegano anche perché l’integrazione economica regionale o globale viene spesso avviata per soddisfare motivi politici e di sicurezza. Ad esempio, la ragion d’essere dietro la formazione dell’UE dopo la seconda guerra mondiale era il desiderio di pace, in particolare tra Francia e Germania.
In risposta all’attuale crisi finanziaria e economica, alcuni paesi hanno fatto ricorso a misure restrittive del commercio per cercare di proteggere le imprese e i posti di lavoro nazionali. Il mondo dovrebbe ricordare che il protezionismo nel periodo tra le due guerre ha provocato un’ondata di azioni di ritorsione che non solo ha fatto precipitare il mondo più profondamente nella Grande Depressione, ma ha anche messo a rischio le relazioni internazionali. Proprio in questi giorni di guerra molti economisti, dall’analisi dei dati economici, rilevano una tendenza che indicano come un ritorno alla stagflazione degli anni ’70. Anche se altri sono pronti a scommettere sul fatto che ci sono, tuttavia, buone ragioni, per preoccuparsi del fatto che stiamo assistendo a una replica economica del 1914, l’anno che pose fine a quella che alcuni economisti ricordano come la prima ondata di globalizzazione , una vasta espansione del commercio mondiale.
Nel suo libro del 1919 “The Economic Consequences of the Peace”, John Maynard Keynes – che in seguito ci insegnerà a capire le depressioni – lamentava quella che vedeva, correttamente, come la fine di un’era, “uno straordinario episodio nel progresso economico di uomo.” Alla vigilia della prima guerra mondiale, scrisse, un abitante di Londra poteva facilmente ordinare “i vari prodotti di tutta la terra, nella quantità che riteneva opportuno, e ragionevolmente aspettarsi la loro consegna anticipata alla sua porta”. Ma non doveva durare, grazie ai «progetti e alle politiche del militarismo e dell’imperialismo, delle rivalità razziali e culturali». Keynes aveva ragione a vedere la prima guerra mondiale come la fine di un’era per l’economia globale. Per fare un esempio chiaramente rilevante, nel 1913 l’impero russo era un grande esportatore di grano; sarebbero passate tre generazioni prima che alcune delle ex repubbliche dell’Unione Sovietica riprendessero quel ruolo. E la seconda ondata di globalizzazione, con le sue catene di approvvigionamento a livello mondiale rese possibili dalla containerizzazione e dalle telecomunicazioni, non è iniziata davvero fino al 1990 circa. Quindi stiamo per assistere a una seconda de-globalizzazione? La risposta, probabilmente, è sì. E mentre ci sono stati importanti aspetti negativi della globalizzazione come la conoscevamo, ci saranno conseguenze ancora più nette se vedremo un rallentamento del commercio mondiale. Sfortunatamente, stiamo riapprendendo le lezioni della prima guerra mondiale: i benefici della globalizzazione sono sempre a rischio dalla minaccia della guerra e dai capricci dei dittatori. Per rendere il mondo durevolmente più ricco, dobbiamo renderlo più sicuro.
Alberto Angeli
Cara sinistra non è sufficiente Keynes ma ci vuole Marx. di S. Valentini
Si riduce spesso la globalizzazione al commercio su scala planetaria di prodotti industriali, agricoli, materie prime e beni legati alle nuove tecnologie. Spesso si scorda l’altro aspetto fondamentale della globalizzazione: la moneta, divenuta essa stessa merce, da acquistare e vendere, e non più solo strumento di scambio delle merci e beni. Questo “commercio” oggi costituisce un mercato otto volte più grande rispetto ai mercati legati alla ricchezza prodotta da ogni singolo paese. Si è creata una gigantesca bolla finanziaria, moneta volatile il cui valore è determinato da oligarchie che ne stabiliscono la quotazione. Una enorme massa di denaro che si sposta rapidamente tramite Internet. Siamo ormai alle cripto-valute, cioè ha una moneta non emessa da uno Stato, ai credit default, allo swap, allo spread, ai paradisi fiscali, ecc. Tutto questo ha devastanti effetti su interi Paesi. Se i rendimenti dei titoli di Stato salgono troppo per i governi diventa difficile o addirittura impossibile rifinanziare il proprio debito. E se i governi non riescono più a collocare titoli di Stato, vanno in default perché non possono più rimborsare i debiti in scadenza. Se i titoli in Borsa precipitano, il problema diviene molto serio per le imprese e di conseguenza il paese perde ricchezza: i consumi calano, le imprese fatturano meno e dunque di conseguenza licenziano.
Le borse non sono più espressione di economie reali. Gli Usa sono attraversati con il corona virus da una profonda crisi economica e sociale ma Wall Street si mantiene stabile, addirittura spesso chiude in positivo. Un’analisi tramite gli strumenti della dottrina economica novecentesca non aiuta a comprendere la situazione. I mercati finanziari si muovono ormai indipendentemente dall’andamento dell’economia reale. Ma i mercati finanziari non sono delle entità sconosciute, astratte o “gli investitori che valutano”, ma dei ristrettissimi gruppi di potere, legati a una potenza imperialistica, che conducono operazioni speculative aumentando a dismisura le loro ingenti rendite e profitti a discapito dell’economia reale, cioè della produzione e del commercio.
Il capitale finanziario dunque con l’acquisto e la vendita di valuta sempre più volatile si insinua nell’economia reale fino a controllarla. Per questo attraverso tanti meccanismi condiziona pesantemente il mondo reale. E chi soprattutto ne fa le spese di questa “globalizzazione finanziaria” sono i paesi emergenti di nuova industrializzazione la cui economia si rifà al tradizionale capitalismo industriale o quei paesi dell’Occidente, come quelli dell’area mediterranea, che hanno fragilità economiche e sociali storiche, la cui borghesia capitalistica è sempre stata ancella e stracciona delle grandi potenze imperialistiche. Ma pur se servile sotto la protezione di questi potentati si è arricchita.
La stessa nozione di imperialismo pertanto deve essere aggiornata. L’imperialismo è mutato poiché è mutata la forma del capitale, che non è più in Occidente quello della fase industriale studiata da Marx e del capitalismo monopolistico di Stato analizzato da Lenin. Non siamo insomma più né al tradizionale neocolonialismo né a una forma di imperialismo solo predatorio delle risorse e materie prime di altri paesi. Oggi una parte sempre più importante dello sfruttamento e della rapina imperialistica avviene attraverso i meccanismi di mercato del capitale finanziario.
Il primo significativo passo della formazione di un mercato finanziario del tutto autonomo dall’economia reale è stato la messa in discussione degli accordi di Bretton Woods nel 1971 da parte dell’amministrazione Nixon. Il sistema monetario globale siglato nel 1944 prevedeva la convertibilità del dollaro in oro. Alla conferenza di Bretton Woods collaborarono i più autorevoli economisti dell’epoca. Keynes fu uno degli artefici degli accordi. Si fissò un valore di conversione tra oro e dollaro in modo da stabilizzare il sistema: disincentivare le speculazioni impedendo gli eccessivi movimenti di capitali al fine di evitare altre crisi sistemiche simili a quella del ’29. In pratica possedere un dollaro significava possedere oro. Alla conferenza aderirono molti paesi, anche quelli poveri e i cosiddetti paesi in via di sviluppo. Le banche centrali di ciascun paese erano tenute ad intervenire per mantenere le parità stabilite. La convertibilità oro dollaro impediva agli Stati Uniti e a ogni paese di creare moneta a proprio piacimento, per farlo dovevano possedere oro in proporzione alla nuova moneta emessa.
La decisione di Nixon di mettere in discussione gli accordi di Bretton Woods fu presa per finanziare la guerra del Vietnam. Gli americani bruciarono 12 mila tonnellate d’oro con grave rischio per le riserve auree. Fu così che fu abbandonata la corrispondenza oro-dollaro passando alla politica di stampare moneta senza vincoli allo scopo di finanziare la guerra in Indocina. Il sistema valutario da organizzato e sicuro per il capitalismo iniziò a trasformarsi in un sistema senza certezze, con un dollaro sempre più volatile. Oltre ai cambi fissi, gli accordi istituirono il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale, enti a cui fu affidato il compito di vigilare sul sistema monetario e concedere prestiti ai paesi in disavanzo.
La messa in discussione della convertibilità fra oro e dollaro rappresenta quindi la prima principale causa che ha condotto alle crisi finanziarie dei nostri tempi. Le libere fluttuazioni valutarie, la fine del riferimento aureo del dollaro hanno determinato un mercato valutario e finanziario senza limiti, senza vincoli e senza regole. Un mercato dove l’unica legge è quella del massimo profitto. La fine di Bretton Woods ha segnato l’inizio di un periodo di grande instabilità valutaria, di mostruose speculazioni finanziarie.
Il secondo decisivo passaggio è avvenuto nel 1995 con la nascita dell’Organizzazione mondiale del commercio, Wto, che ha assunto il ruolo precedentemente svolto dal Gatt. Il Wto promuove la liberalizzazione commerciale e la libera circolazione dei capitali in tutto il mondo prescindendo dalle ricadute occupazionali. L’obiettivo dichiarato del Wto è quindi quello dell’abolizione o della riduzione delle barriere tariffarie al commercio internazionale. Tutti i paesi membri sono tenuti a garantire verso gli altri membri dell’organizzazione lo “status” di “nazione più favorita”. Le condizioni applicate al paese più favorito (vale a dire quello cui vengono applicate il minor numero di restrizioni) sono applicate a tutti gli altri Stati.
Molte sono le critiche al Wto. Le più importanti: la prima che è una organizzazione settoriale che pone attenzione solo agli aspetti commerciali ed è indifferente e insensibile alle tematiche ambientali; la seconda è che promuove la globalizzazione dell’economia, la liberalizzazione commerciale, la libera circolazione dei capitali in tutto il mondo senza considerare le ricadute occupazionali; infine la terza è che gli Stati del Nord del mondo, cioè gli Stati occidentali e imperialistici, privilegiano le proprie multinazionali e i propri interessi nazionali invece di promuovere lo sviluppo su scala mondiale. A conferma dello squilibrio di potere che il Wto determina tra gli stati membri dell’organizzazione, sta il fatto che la liberalizzazione del commercio dei prodotti agricoli ha favorito soprattutto le produzioni commerciabili degli Stati nel Sud del mondo e non viceversa, in quanto le derrate del Sud rimangono tagliate fuori dai mercati settentrionali. Non a caso il processo decisionale dell’organizzazione è dominato dai “tre grandi” poli imperialistici: Stati Uniti, Unione europea e Giappone, accusati di utilizzare il Wto per esercitare un eccessivo potere sugli stati membri più deboli che sono obbligati a ratificare le convenzioni sottoscritte dal Consiglio generale, pena l’applicazione di sanzioni e l’imposizione dell’obbligo di recepire gli accordi. Prima l’ingresso della Russia, avvenuto nel 2011, e successivamente di un gigante economico come la Cina ha modificato in parte i rapporti di forza.
Da qui anche la guerra dei dazi di Trump: tentare di riacquistare quel ruolo predominante messo oggi in discussione dal colosso cinese e dalle contraddizioni inter imperialistiche ormai insanabili e che gli Usa non riescono più a governare. A tale proposito occorre dire che l’ascesa economica della Cina negli ultimi trent’anni è stata sottovalutata. L’Occidente ha sempre avuto l’idea che potesse esserci un modello unico e che potesse esserci un modello diverso che aveva successo non rientrava negli schemi del pensiero unico dominante. L’autorevolissimo Economist dava per finita la Cina nel 1990, mentre tardivamente ci si è accorti che sta diventando la più grande potenza economica del mondo. Se si mette a confronto il modello Occidentale liberale con il modello cinese, in quest’ultimo l’equilibrio fra Stato e mercato è profondamente diverso. In Occidente è il mercato del capitale finanziario che regola lo Stato mentre i cinesi hanno mantenuto la prerogativa che sia lo Stato ad avere la capacità di guida dei processi economici. Il modello cinese è stato considerato anomalo e perdente, prossimo al crash, invece ha funzionato e ha consentito al paese di avere una crescita straordinaria che non ha uguali nella storia della umanità. La Cina alla fine degli anni ottanta rappresentava il 2% del Pil del mondo, nel frattempo il Pil è cresciuto quattro volte, ed ora la Cina rappresenta il 20 %. È cresciuta da 2 a 80 ed è una cosa che non ha precedenti! La parte più miope della cultura occidentale considera la Cina come una variante del modello sovietico. Questa è una lettura superficiale perché non tiene conto della storia cinese e di quanto il marxismo cinese si sia ibridato con il confucianesimo. Di fatto il sistema cinese ha delle flessibilità che il modello sovietico non aveva. Il modello sovietico era poco duttile e quindi a un certo punto si è spezzato.
Certamente anche la Cina deve fare i conti con la pandemia e il rischio della deglobalizzazione poiché la sua economia è stata fortemente proiettata verso le esportazioni. Ma chi pensa che la Cina pagherà più di tutti il rallentamento del commercio mondiale non prende in esame che il paese sta cambiando. Negli ultimi anni, sotto la guida di Xi Jinping, sta avvenendo un mutamento radicale del tipo di sviluppo. La politiche dell’industrializzazione e dell’esportazioni hanno subito un netto ridimensionamento. La Cina oggi investe molto di più sulla innovazione e sulla ricerca, anziché soltanto sulla produzione di beni a basso valore aggiunto. È stata la fabbrica del mondo, ma oggi non è più così. Una parte di queste produzioni si sono trasferite in altri paesi asiatici, mentre i cinesi hanno investito sull’innovazione superando gli USA in produzione di brevetti. E poi hanno investito sul recupero ambientale, anche per avere più consenso interno e quindi meno inquinamento e hanno puntato sulla ricerca e hanno aumentato i salari. Ciò ha consentito al mercato interno di diventare, rispetto al passato, un volano più importante nel sostegno dell’economia e della crescita.
Quando affermo quindi la necessità di una “scelta di campo” a favore dell’asse Pechino-Mosca (come ho sostenuto in altri articoli) non penso alla riesumazione del vecchio campo socialista contro l’imperialismo statunitense, bensì a un campo scaturito dalla caotica fase multipolare, che è andata nell’ultimo ventennio affermandosi. Vi è una oggettiva convergenza tra paesi socialisti o di orientamento socialista, paesi con forme di capitalismo monopolistico di Stato, paesi capitalistici di nuova industrializzazione e paesi che lottano per uscire da una condizione di povertà assoluta, nel contrastare la volontà di dominio assoluto del capitale finanziario, espressione che contraddistingue l’Occidente e le sempre più aspre sue contraddizioni inter-imperialistiche.
In questo contesto meglio si comprende il ruolo di potenze come l’Iran e il Messico e altri paesi che non sono certamente campioni di democrazia o portatori di visioni socialiste. La battaglia storica dei cinesi, ma anche dei russi, non è contro la globalizzazione, cioè la libera circolazione di merci (e anche di manodopera), ma contro la “globalizzazione finanziaria” che produce un più sofisticato sfruttamento dei popoli, instabilità, corsa al riarmo e guerre. La distensione, la pace e la cooperazione sono alla base di questa politica che non attua odiose interferenze nella politica interna dei paesi loro alleati. Gli unici che si ergono gendarmi del mondo e hanno basi militari in ogni angolo del pianeta (anche perché gli altri poli imperialistici, giapponese e tedesco, non dispongono di arsenali militari) sono gli Usa. Non vi è una sola base militare cinese – mi risulta – fuori dal paese.
Se la sinistra europea non coglie questo nuovo aspetto geopolitico non va da nessuna parte, è destinata ad andare a rimorchio di altri, magari dietro a un rozzo atlantismo che si schiera sempre e comunque con gli Stati Uniti anche se sono governati da un presidente pericoloso e inquietante come Trump, o appresso alle intenzioni e ai sogni dei centri di potere franco-tedesco che vorrebbero un’Europa politicamente e militarmente autonoma in grado di competere in termini imperialistici con tutti, a Est come a Ovest. E non è sufficiente, come auspica D’Alema, che nel prossimo futuro si affermino di qua e al di là dell’Atlantico forze liberaldemocratiche in grande sintonia tra loro per ricostruire un ordine mondiale dove l’Europa possa svolgere un ruolo decisivo.
È un’analisi politicistica poiché non affronta la questione vera: come imbrigliare e sconfiggere il capitale finanziario. Oggi tutto parlano (anche a sproposito) che dopo la sbornia neoliberista degli anni ’80 e ’90 con la pandemia si torna a Keynes, al protagonismo dello Stato. Il neoliberalismo ha fatto il suo tempo. Occorrono non politiche di rigore per contenere l’inflazione ma politiche di d’investimenti pubblici attraverso un nuovo protagonismo dello Stato. Ma se il neoliberalismo in politica è stato il quadro dentro il quale si è costruito il libero mercato della compravendita di moneta come merce oggi il problema non è tornare a Keynes e superare conseguentemente il neoliberalismo. Il punto è sempre il solito. Prendiamo ad esempio l’Italia: manca un prestatore di ultima istanza, che garantisca acquisti senza limiti dei titoli di Stato, contenendo l’aumento dei tassi d’interesse. L’Italia ha un debito di circa il 135% del Pil e paga interessi più alti rispetto a quelli tedeschi e olandesi che hanno un debito tra il 50 e 60% del Pil. Quindi, per fare più spesa pubblica bisogna emettere titoli di debito, aumentando il debito in percentuale del Pil. Si prevede che il debito italiano possa salire oltre al 150% del Pil. Dunque, in mancanza di un prestatore di ultima istanza, lo spread tra i titoli di Stato italiani e quelli tedeschi aumenterà e con esso la spesa per interessi, che rischia di creare problemi di sostenibilità molto gravi del debito. Il problema perciò è di come estirpare il capitale finanziario che del neoliberalismo è il figlio legittimo molto potente e può permettersi di essere pure un po’ meno rigorista del padre.
Keynes avanzava le sue proposte in un quadro capitalista nel pieno del suo sviluppo industriale. Siamo in questa fase in Occidente? Se gli Stati devono fare i conti con i rendimenti dei titoli di Stato e con il mercato finanziario, se non riescono a rifinanziare il proprio debito quali politiche di crescita e di sviluppo possono fare? Vanno comunque in default o in grande difficoltà, nonostante le buone intenzioni riformiste. La lotta contro il capitale finanziario e le sue espressioni imperialistiche non è questione nazionale e solo in certa misura è europea: è questione globale. La “scelta di campo” non è una scelta ideologica ma una precisa scelta politica per fronteggiare il ruolo deleterio e inumano del capitale nella sua forma più devastante: quella finanziaria. Non si tratta dunque di imitare modelli altrui, di fare come la Cina o come la Russia, bensì di costruire un largo e vincente schieramento di forza e di paesi alternativo al capitale finanziario. Questa è la posta in gioco in questo squarcio del XXI secolo. Ecco perché Keynes non è sufficienti ma occorre tornare a Marx lottando per la realizzazione di strumenti internazionali alternativi (ed è quello che stanno facendo i cinesi), iniziando a riportare i sistemi bancari sotto il controllo pubblico, a smantellare i paradisi fiscali, a creare istituzioni internazionali che non siano, come il Fondo monetario internazionale o la Banca mondiale, organismi che rispondano ai mercati finanziari, ma all’economia reale. Occorre insomma introdurre “elementi di socialismo” e per dirla con Berlinguer, di cui ricorre l’anniversario della nascita, lavorare per “un nuovo ordine mondiale”.
Riscoprire inoltre lo strumento della programmazione democratica, concetto considerato vetusto, in disuso. Lo Stato dovrebbe entrare nella produzione di beni e servizi, anche in settori dove ci sono i privati. Ma soprattutto ci sarebbe bisogno di una pianificazione dell’economia e, più precisamente, di una produzione sociale. Dare pertanto un senso progressista alla programmazione come faceva il Pci. Però è evidente che questo non è possibile in una economia basata sul dominio del capitale finanziario. Richiede il ribaltamento del paradigma del libero mercato. Tutto ciò dimostra la totale inadeguatezza dell’attuale forma di mutazione del capitale insensibile a soddisfare i bisogni sociali, anche quelli più elementari, come la sicurezza sanitaria. Ecco, di nuovo, non è sufficiente Keynes, ma ci vuole Marx.
Occorrerebbe rilanciare una programmazione promossa e coordinata dallo Stato solo così le politiche riformiste alla Keynes hanno un senso per diventare parte del processo di trasformazione della società, per lottare contro le abnormi diseguaglianze, per un modello di sviluppo ecocompatibile, per tendere alla piena occupazione, per un welfare più robusto e qualificato. Ma se il pubblico non espropria il capitale finanziario del suo immenso potere, se le rendite finanziarie non vengono mortalmente colpite in una lotta senza quartiere, qualsiasi prospettiva riformista è destinata al fallimento. L’Unione europea è in grado di ricostruirsi prendendo questa direzione, cioè di mettere al bando le oligarchie finanziarie? E la sinistra che fa?
La “scelta di campo” implica anche un riposizionamento e un riavvicinamento della sinistra europea alla sinistra del resto del mondo. Il divario è oggi grande, profondo. Ricuperare il valore politico dell’internazionalismo favorisce la crescita di un vasto schieramento di forze e di paesi e soprattutto rafforza il ruolo della stessa sinistra europea, troppo timida e molto poco incisiva. Una “scelta di campo” che potrebbe nuovamente farle svolgere un peso di primo piano a livello universale, come quando Marx e Engels scrissero “uno spettro si aggira per l’Europa” come memorabile inizio del loro Manifesto. Uno spettro dunque che preoccupi davvero il capitale finanziario e non dei zombi sopravvissuti al Novecento.
PS.
Le riflessioni contenute in questo articolo non hanno niente a che fare con il vecchio e ozioso dibattito che negli anni passati ha attraversato la sinistra sui margini di riformismo di un sistema neoliberista. La risposta negativa (cioè che non vi erano margini) era tesa a negare qualsiasi accordo di governo con forza riformiste, progressiste e socialdemocratiche. Eravamo dunque in un’altra fase, quella unipolare dominata dagli Usa dopo l’89, in cui la sinistra doveva condurre una battaglia difensiva e modulare la sua azione politica in base ai rapporti di forza dati. Oggi la situazione è molto diversa, siamo in un mondo multipolare con un “campo”, quello cinese-russo, di cui la sinistra mondiale è parte integrante. Il confronto quindi avviene in termini del tutto inediti. Superare l’attuale mutazione del capitale in capitale finanziario è il primo e fondamentale compito della sinistra. È in atto uno scontro durissimo in cui anche la sinistra europea dovrebbe dire la sua. Vi sono forze liberaldemocratiche legate a una parte delle borghesie nazionali che vorrebbero in Europa svincolarsi dal dominio del capitale finanziario. In questa contraddizione tentiamo di inerirci e dire la nostra o ci proclamiamo estranei a tutto ciò in nome di ideologismi di diverse tendenze: marxista-leninista, movimentista e radicale erede del ‘68 o come risultato di visioni espressione dei cosiddetti nuovi soggetti antagonisti che molto spesso però strizzano l’occhio alle correnti socialdemocratiche più avanzate o a quelle ambientaliste? O a chi semplicemente è orfano della “democrazia dell’alternanza”? Possibile che alcune timide aperture a un dialogo costruttivo con la Cina le fanno i soli Di Maio e D’Alema? Di che cosa si discute a sinistra? Nulla di veramente importante, di strategico.
Sandro Valentini
Il paradosso di Keynes. di A. Angeli
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Non siamo ancora alla catastrofe, e tuttavia i segnali sono evidenti e incontrovertibili. Tutti gli indici economici sono al negativo e sicuramente nella immediata prospettiva, senza l’aiuto dell’Europa, con la quale dobbiamo trattare e concludere un accordo, ci troveremmo al default economico e sociale e nel breve volgere di tempo, costretti ad accettare un’austerity pesantissima o usciere dall’Europa, con tutte le immaginabili conseguenze sociali alle quali seguirebbero sicuramente ricadute sulla tenuta democratica del paese. Due dati: quello della disoccupazione e a seguire della domanda aggregata, scandiscono il tempo di questa crisi alla quale il governo può sopperire indebitandosi oltre ogni immaginazione, senza indugiare su MES si o MES no, una volta accertata la caduta di ogni condizionalità. D’altro canto, la crisi epidemica ha scansioni temporali di diffusione non coincidenti con le necessità del paese di riavviare la macchina produttiva, e l’esperienza vissuta in questi sessanta giorni di lockdown ha spinto il paese ad adottare difese che hanno inciso fortemente su tutti i settori della produzione e quindi nella formazione della ricchezza.
Tuttavia, ora si tratta di ripartire e puntare alla ripresa, allo sviluppo della produzione e alla creazione della ricchezza, dentro un disegno e un progetto di sviluppo che porti il paese nella modernità, nella green economy, nella digitalizzazione, nei nuovi processi informatizzati, insomma nella società dei Big data. Le condizioni ci sono tutte. Infatti, una volta superata l’epidemia, sarà come se il paese dovesse ripartire da zero. Spetta quindi al governo dimostrare intelligenza e lungimiranza, proprio ora che l’Europa ha accantonato molti vincoli, deliberato sostegni finanziari di diverso tipo e natura, e sembra orienta ad adottare i recovey bond, dopo che sarà costituito il recovey fund; spetta, quindi, al governo e alle forze di maggioranza dare prova di volontà, di lucidità, di coerenza.
Tuttavia non dobbiamo nasconderci che ci sono ostacoli non indifferenti a trovare tutte le risorse necessarie, questo perché il governo non ha messo a punto alcun progetto sia per la parte che riguarda la linea di sviluppo che intende seguire per la difesa delle aziende fondamentali e delicate per lo sviluppo del paese, che per quantificare lo stock di risorse finanziarie delle quali indicare presuntivamente il fabbisogno al fine di costruire un quadro macroeconomico affidabile e perseguibile. Nel frattempo ci sarà l’imperativo categorico del lavoro che manca e della necessaria riorganizzazione del welfare, puntando convintamente al superamento della povertà, della precarietà, del lavoro nero o sottopagato, anche inventando un nuovo sistema di redistribuzione della ricchezza. Magari anche rivedendo gli astrusi strumenti finora messi in campo ( quota cento, reddito cittadinanza, e tanto altro ) senza un significativo ritorno di risultati sul fronte del lavoro e della diminuzione della povertà. Certo, questa non è la classica congiuntura economica, che si caratterizza per mancanza d’investimenti e disoccupazione. E’ qualcosa di più e, per l’ordine di grandezza del disastro economico, è di più difficile.
Per questo un breve richiamo a Keynes, il quale aveva ben presente che, in antitesi a quanto ritenuto dai teorici a lui precedenti, la situazione d’insufficienza della domanda è un duraturo fenomeno di squilibrio tra risparmi e investimenti (pensiamo alle enormi disparità di reddito e all’abbondanza di ricchezza privata, pari questa a quattro volte il debito pubblico). Nella Teoria generale del 1936, scriveva: Se il Tesoro si mettesse a riempire di biglietti di banca vecchie bottiglie, le sotterrasse ad una profondità adatta in miniere di carbone abbandonate, e queste fossero riempite poi fino alla superficie con i rifiuti della città, e si lasciasse all’iniziativa privata… di scavar fuori di nuovo i biglietti…, non dovrebbe più esistere disoccupazione e, tenendo conto degli effetti secondari, il reddito reale e anche la ricchezza in capitale della collettività diverrebbero probabilmente assai maggiori di quanto sono attualmente”. Insomma, anche scavare buche, per poi riempirle, potrebbe essere di stimolo alla ripresa. Uscendo dalla metafora, si pensi alle difficoltà per la nostra agricoltura, la quale presto si troverà a fare i conti con la mancanza di manodopera per provvedere ai raccolti; si pensi alla formazione dei lavoratori, alla quale il paese dovrà ricorre nel breve tempo e che sarà giocoforza determinata dalla fase post covid19: trasporti, scuola, luoghi di lavoro, servizi, commercio, industrie, poiché il nuovo paradigma del lavoro sarà il distanziamento, la protezione, la salvaguardia della salute. E ciò comporterà una rivalutazione delle condizioni di lavoro e degli stessi processi, delle stesse procedure, del modello organizzativo. Ecco, scavare buche per poi riempirle ci serve per capire che nessuno deve essere di peso, che il momento nel quale tutti siamo chiamati a dare il nostro contributo e a fare la nostra parte è ora. Altrimenti, nella buca, ci cadremo tutti.
Alberto Angeli
“ Etica e economia” J. M. Keynes -L’attualità del suo messaggio, di A. Angeli
Il 21 aprile 1946 muore J-M-Keynes. Egli era fortemente legato a Piero Sraffa, di cui è stato il “protettore” nel periodo durante il quale insegnò in Inghilterra 1926, ( con Keynes ha condiviso nel 1961 la medaglia Södeström dell’Accademia svedese delle scienze che costituisce l’antecedente dei premi Nobel di economia), Saffra, legato ad Antonio Grmasci, annoverava tra le sue amicizie anche quella di Bertrand Rassel e di Wittngestein. Muore a Cambridge il 3 settembre 1983. Con questo breve saggio cerco di recuperare il valore di un famoso scritto di Keynes, in cui mi sono imposto di sintetizzarne il pensiero, che ritengo ancora attuale, cosciente che ciò possa esporsi ad una critica di banalizzazione di un pensiero di alto contenuto culturale e teorico. “Etica ed economia” è la sintesi del pensiero di John Maynard Keynes, che affronto nel presente scritto, forse illudendomi di dare un contributo e un segnale alternativo alla indifferenza del momento politico che stiamo vivendo. Il richiamo a Sraffa è sintomatico di una continuità intellettuale che legava i due teorici dell’economia e che ha segnato il XX secolo. Lo scritto vorrebbe offrire uno stimolo alla riflessione sui fenomeni economici e sulla politica economica, sulle trasformazioni del sistema finanziario globalizzato e sul ruolo delle monete e, per l’attualità, dell’Euro. Nel breve scritto che segue, l’impostazione analitica dei temi indicati è appena accennata, mai sospinta fuori del tema, e tuttavia si presta ad una comprensione coerente del pensiero Keynesiano.
— John Maynard Keynes, “ Etica e economia”. Una sintesi del pensiero Keynesiano
Nel Saggio: “ Sono un Liberale?” Keynes scrive :“Dobbiamo inventare una saggezza nuova per una nuova era. E nel frattempo, se vogliamo fare qualcosa di buono, dobbiamo apparire eterodossi, problematici, pericolosi e disobbedienti agli occhi dei nostri progenitori”. Sono queste le conclusioni, con le quali Keynes nello scritto del 1925, consegna le sue riflessioni sulle numerose questioni di ordine politico, economico e sociale, che nel nuovo contesto mondiale, governato dal capitalismo, si vanno prefigurando. E’ quindi con una domanda, la stessa che dà il titolo allo scritto, con cui si chiude il saggio del grande economista, richiamandosi all’unica possibile conclusione che poteva scaturire da un’analisi tanto articolata, quanto problematica, dell’avvicinarsi dei “tempi moderni”. Il senso ultimo di questa visione culturale è quello che accompagnerà Keynes per lungo tempo, fino all’uscita della Teoria Generale nel 1936. Infatti, è con quel poderoso lavoro che sarà data unitarietà e spessore alla critica dell’ economia monetaria di produzione – in cui il capitalismo evidenzia in termini chiari la sua natura di sistema predatorio e iniquo – e alla capacità di autoregolazione dell’economia di mercato.
Il saggio “ Sono un liberale?” è la raccolta di numerosi scritti Keynesiani che riproducono una serie di interventi ed articoli dell’economista, riconducibili alla fine degli anni 20 e 30, dalla lettura dei quali si avverte la forte e avvincente tensione culturale trasmessa dalla riflessione di Keynes sui grandi temi dell’economia del momento, ma con una visione profetica rivolta al futuro. Il testo brilla per la finezza e la rilevante chiarezza espressiva a cui il Keynes faceva ricorso, dando alle sue analisi un sostegno argomentativo tale da rendere fluenti i suoi ragionamenti teorici, altrimenti incomprensibili.
La prima parte mette in luce il tragico passaggio dall’ “ordine” ottocentesco a quello del XX secolo, evidenziando gli squassi del primo conflitto mondiale, per chiarire come le conseguenze a cui porteranno le riparazioni di guerra inflitte ai tedeschi. Peraltro quella fu la circostanza in cui rassegnò le proprie dimissioni dalla carica di rappresentante del Tesoro inglese alla Conferenza di Versailles. Nella sua condanna di quelle deliberazioni il rilievo del “problema economico” è dirompente. Infatti, di lì a poco, l’Europa andrà incontro alla Grande Depressione nel 1929, e al secondo conflitto mondiale un decennio più tardi.
Dalla sua posizione di analista della società il “problema economico” è posto come la questione pressante con cui deve fare i conti la società moderna e questo nonostante le meraviglie che il progresso sembra porgere su un piatto d’argento. Egli scrive: “Abbiamo contratto un morbo di cui forse il lettore non conosce ancora il nome, ma del quale sentirà molto parlare negli anni a venire – la disoccupazione tecnologica -. Scopriamo sempre nuovi sistemi per risparmiare forza lavoro, e li scopriamo troppo in fretta per individuare nuovi impieghi per la forza lavoro”. Un passo che egli ci invia come posta per riflettere sulle prospettive economiche per i nostri nipoti. Nella sostanza, egli ci dice, la “povertà nell’abbondanza” è l’intrinseca contraddizione in cui vive il capitalismo, ed è questa contraddizione che è necessario spiegare se si vuole recuperare un senso positivo nel progresso, sgombrando il campo dagli opposti pessimismi che si vanno fronteggiando. Ossia, da una parte, “il pessimismo dei rivoluzionari, convinti che una situazione così compromessa renda inevitabile un cambiamento radicale, e quello dei reazionari, persuasi che la nostra vita economica e sociale si regga su un equilibrio talmente instabile da sconsigliare qualsiasi forma di esperimento”
Nella sostanza, prosegue, l’ “amore per il denaro” è alla radice di tutto il sistema, anche se non è propriamente l’ “amore per il denaro che serve a vivere meglio, a gustare la vita”, scrive, ma il “possesso del denaro”, che rende il sistema ingiusto. (Auri sacra fames). Inoltre, sul fronte del profitto, è in regime di laissez faire che “il profitto va all’individuo che, per abilità o fortuna, si trova con le sue risorse produttive nel posto giusto al momento giusto” (La fine del laissez faire). E’ in queste condizioni di iniquità, che secondo Keynes, “Un sistema che permette all’individuo abile ( e avido) o fortunato di raccogliere l’intero frutto di questa congiuntura offre chiaramente un incentivo immenso a coltivare l’arte di trovarsi nel posto giusto al momento giusto. Così uno dei più forti moventi umani, cioè l’amore per il denaro, viene asservito al compito di distribuire le risorse economiche nel modo migliore per aumentare la ricchezza al fine di ottenere la massima produzione di ciò che è maggiormente desiderato secondo la misura del valore di scambio”.
La questione è persino più ampia e, secondo Keynes, c’è bisogno di una nuova etica perché: “sembra ogni giorno più evidente che il problema morale della nostra epoca ha a che fare con l’amore per il denaro, con l’abituale ricorso al movente del denaro in gran parte delle attività della vita, con l’approvazione sociale del denaro come misura concreta di successo e con l’appello della società all’istinto di accumulazione…” Questa riflessione lo porta a spostare il suo sguardo alla Russia, verso la quale lo spinge un sincero interesse verso il comunismo russo – da cui, secondo Keynes, proviene o spira una sorta di “afflato religioso, poiché, lì, si cerca di costruire una struttura della società in cui le motivazioni economiche, come fattori condizionanti, avranno un’importanza relativa diversa, per il fatto che l’approvazione sociale sarà distribuita in altro modo, e dove i comportamenti da prima erano normali e rispettabili, poi non lo saranno più”. Qui Keynes, espressione della borghesia colta, approfondisce con il dovuto distacco quella che chiama “fede comunista”, evidenziando come per lui non è certamente possibile accettare una “dottrina che, preferendo la melma al pesce, esalta il proletario al di sopra della borghesia e dell’intellighentjia”, pur ammettendo con decisione che è ineludibile la necessità di una nuova etica dell’economia.
I pensieri keynesiani portano però all’attenzione del lettore qualcosa di ancora più impegnativo nella sua analisi della società. Intanto, per ciò che egli ritiene e indica come una rivoluzione da attuarsi nel metodo dell’analisi economica, facendo quindi camminare a fianco a fianco società ed economia, per cui è solo comprendendo il profondo legame che le tiene insieme, è possibile assimilare il “rivoluzionario” messaggio di cui la Teoria Generale è portatrice.
Nel suo pensiero la funzione del capitalismo è riassunta come una lotteria, in cui domina incontrastata l’incertezza e l’alterità del semplice calcolo probabilistico, essendo infatti la moneta a gettare un ponte tra presente e futuro, sono allora gli spiriti animali degli imprenditori a determinare lo stato e l’andamento della domanda effettiva del sistema economico. Al proposito Keynes precisa: “ è una domanda che, misurandosi esclusivamente sui valori di scambio, nulla ha a che fare con il valore d’uso dei beni prodotti, e dunque con i bisogni che la società esprime”. Molti studiosi di Keynes hanno trovato in questo passaggio un doveroso tributo alle dimenticate analisi di Malthus e a quanto egli aveva intuito in merito al ruolo trainante della domanda nel dirigere il processo produttivo. Qui entra in gioco anche il confronto con Ricardo. Ma è a Piero Sraffa, che si deve il ritrovamento delle lettere mancanti, riguardanti la corrispondenza tra Malthus e Ricardo, nelle quali vi si colgono, di fatto, gli inizi della teoria economica nonchè le linee divergenti, lungo le quali la materia può essere sviluppata. Infatti , Ricardo studia la teoria della distribuzione del prodotto in condizioni di equilibrio, e Malthus si concentra su ciò che determina il volume della produzione giorno per giorno nel mondo reale. Ancora, Malthus tratta dell’economia monetaria in cui viviamo; Ricardo dell’astrazione di una un’economia con moneta neutrale.
Il pensiero di Keynes ha un percorso speculativo e formativo fondato su basi logiche. Era sua consuetudine ritrovarsi con i maggiori logici e matematici a lui coevi. A Cambridge con Russel – matematico e filosofo- che lo guida nelle conversazioni verso una teoria che deve assumere un valore strumentale rispetto alla pratica, che spinge Keynes ad impadronirsi di un linguaggio in cui faccia premio un ragionamento basato sul senso comune. Segue le lezioni di Marshall, da cui apprende i moderni metodi diagrammatici, necessari per cogliere la complessità dei fenomeni sociali e per arricchire la sua preparazione con lo scopo di muoversi nell’ambito della ricerca storica, della filosofia e, cosa inaspettata, proporsi come conoscitore della cosa pubblica.
Keynes, conclude il saggio affermando: “l’economia è una scienza molto pericolosa”, e gli economisti non sono profeti. Ad ogni modo a Keynes non sfugge il fatto che i “tempi moderni necessitano di nuove politiche e nuovi strumenti per adeguare e controllare il funzionamento delle forze economiche, così che non interferiscano in maniera intollerabile con l’idea odierna di che cosa sia appropriato e giusto nell’interesse della stabilità e della giustizia sociale”.
Perché riappropriarsi di Keynes , di questo spirito critico, di cui ogni tanto alcuni rimembrano le sue teorie per rianimare un’economia esausta e sostituita dalla finanziarizzazione globale. ma non tanto da essere annoverato nelle fila della cultura marxista.? Perchè questo eretico tra gli eretici, lascia infine che siano altri a rispondere alla domanda da cui è partito: “Sono un liberale?” La risposta sta tutta nella considerazione che dobbiamo dare all’importanza di non banalizzare le forme dei conflitti di classe sapendo leggere con attenzione e mettere a confronto Marx e Keynes.
Albero Angeli