diritti dei lavoratori
Dal telelavoro allo smart working. di F. Ranucci

Di seguito la mia recensione al libro di Domenico De Masi dal titolo “Smart working. La rivoluzione del lavoro intelligente” (Marsilio 2020, pp. 688, euro 24), pubblicata su via Po economia di oggi
C i sono svolte epocali che segnano il tempo e cambiano tutto senza preavviso. Di quelle improvvise, non immediate e difficili da segnare sul calendario. E come nel caso dello smart working hanno un prima e un poi, degli scatti e delle accelerazioni talvolta incontrollabili che possono portare effetti positivi. A scriverlo nel suo libro sull’argomento è Domenico De Masi, professore emerito di Sociologia del lavoro alla Sapienza di Roma. Che nel telelavoro, al di là della pandemia da Covid-19, ha creduto sin dal principio sostenendo che, se è pur vero che famiglie e lavoratori sono stati catapultati e costretti dall’oggi al domani a lavorare e studiare in modalità remota, in questa maniera in tanti hanno salvato la salute, la scuola e finanche l’economia. Smentendo coloro che, contro questa tesi, hanno sbandierato crisi e choc vari.
Il sociologo spiega tutto in questo corposo tomo che si allontana dalle semplici considerazioni personali approfondendo il quadro di una società che si è modificata profondamente sull’onda della rivoluzione digitale e della trasformazione tecnologica.
L’Italia riparte dallo smart working, sottolinea De Masi nella sua ricerca, il lavoro si riorganizza e questo vale per tutti i settori, dalla pubblica amministrazione all’imprenditoria privata fino ai servizi quali istruzione, fisco, sanità. È la strada giusta, assicura, e nessuno pensi di tornare indietro.
Parola di studioso. Che parte da lontano. “Il volume – asserisce – ripercorre le tappe della storia dello smart working, il cui antenato è stato il telelavoro. Racconta in sostanza il grande cambiamento, cosa è avvenuto dalle origini ai giorni nostri fino all’avvento delle nuove tecnologie. Adesso il lavoro ce lo sottraggono sempre di più le macchine, gli operai sono di meno, ridotti al 30 per cento. E il lavoro intellettuale si può destrutturare, si può fare ovunque tramite internet. Uno sconvolgimento che riguarda il digitale e la rete, ma soprattutto, in un Paese come il nostro, circa 6 milioni di persone su 23 milioni. In effetti, si tratta del 25 per cento di tutta la forza lavoro, un numero che dimostra come un quarto degli individui potrebbe lavorare da casa. Questo significherebbe ridurre il pendolarismo, l’inquinamento, gli spostamenti, il bisogno di spazi nelle aziende. Si parla frequentemente di calo della produttività che invece, secondo alcuni studi, migliora con lo smart working. Ebbene l’Italia, ad esempio, ha un gap con la Germania del 20 per cento che potremmo senz’altro recuperare in questo modo”.
Non solo. “In questi ultimi mesi”, secondo De Masi, “a causa del lockdown abbiamo vissuto una strana esperienza, in quanto costretti a lavorare da casa con orari flessibili, ma che ci ha fatto comprendere l’importanza dello smart working e la sconfitta della ritrosia delle aziende e dei loro capi che hanno cercato di opporre resistenza all’inesorabile trasformazione”.
Già, i vertici della PA e il sistema delle imprese in generale si sono dovuti piegare all’evidenza. Anzitutto perché la pandemia ha portato all’esplosione dello smart working in pochissimo tempo. “Basti pensare che all’inizio dell’anno lavoravano in modalità remota 570 mila italiani che ai primi di marzo sono diventati 8 milioni. E bisogna dare atto alla ministra Dadone se il primo dicastero ad agire in tal senso è stato quello della Pubblica amministrazione. Infatti, anche grazie a lei si parla sempre più di lavoro agile. La ministra ha presentato un progetto di legge in cui si afferma che entro l’anno venturo la metà dei tre milioni e mezzo di dipendenti pubblici lavorerà da casa”. Del resto, secondo il sociologo, “non dobbiamo dimenticare che la PA è stata la prima a codificare il telelavoro nel nostro Paese con la legge Madia del 2015. Per i privati invece il provvedimento è arrivato nel 2017 anche se l’antesignano del telelavoro è stato l’Inps nel 1990, seguito dall’Ibm nel ’95 e dalla Telecom nel ‘97”.
Il lavoro agile dunque non rappresenta solo una soluzione a tempo limitato nel momento in cui riesce a coniugare adeguatamente produttività e attenzione alle persone, che a casa spesso diventano più motivate sentendosi padrone del proprio lavoro.
Addio dunque alle distrazioni dell’ufficio, alle chiacchierate e ai caffè con i colleghi? Negli Stati Uniti i produttori di “The Office”, la sitcom creata da Greg Daniels, hanno annunciato di voler preparare una nuova serie tv dove però tutti i dipendenti lavorano da casa. A dimostrazione che l’argomento smart working, indicato come strada virtuosa da intraprendere ma mai realmente percorsa per intero, sia stato semplicemente sdoganato dalla pandemia al punto da essere indicato come il futuro del lavoro.
“Anche la scuola – dice De Masi – si è affidata alla didattica a distanza con il doppio scopo dell’insegnamento e di tutelare la salute dei genitori e dei figli, offrendo ai professori la possibilità di accrescere le proprie competenze in informatica. Chiaramente prima o poi ricominceremo daccapo. Nel frattempo però abbiamo compreso che pur lavorando mamma e papà possono stare a casa”.
Il libro di De Masi, che risponde ai tanti interrogativi che una questione così importante solleva, è un excursus soprattutto storico e si divide in cinque parti. Nella prima viene illustrato in che modo è cambiato il lavoro nel tempo, dalla Grecia classica alla bottega rinascimentale passando poi per Locke, Smith, Marx e Arendt. Nella seconda si ripercorrono le tappe fondamentali del telelavoro, dal “guinzaglio del telefono fisso” alle nuove leggi. La terza invece è incentrata sullo smart working, sul lavoro dominato da personal computer, tablet e smartphone, macchine il più delle volte piccole, portatili, che spesso non necessitano dell’apporto di una scrivania e sono utilizzabili in qualsiasi luogo. Nella quarta si legge l’analisi di quanto è avvenuto in questi mesi, con l’autore che parla di “grande esperimento” e di nuovi compiti da assegnare. Del ruolo del governo sul tema e dei punti di vista imprenditoriale, sindacale, giuridico, sociologico, psicologico e filosofico.
“Tutte le ricerche realizzate – conclude De Masi – dicono che la maggior parte dei lavoratori vorrebbe continuare a lavorare in smart working anche dopo l’emergenza Covid-19 e qui c’è una grande occasione per il sindacato, che può e deve trasformarsi in telesindacato raggiungendo i lavoratori in tempo reale come ha fatto la giovane attivista svedese Greta Thunberg, che con un computer ha mobilitato milioni di ragazzi in tutto il mondo. Nella quinta parte del testo c’è la ricerca previsionale e ho chiesto aiuto a undici esperti, tra i quali vi sono docenti universitari, per capire e spiegare cosa potrebbe avvenire nei prossimi anni. Le risposte sono state tutte ottimistiche, lo smart working sarà la forma più utilizzata per quei lavori che si possono fare a distanza. Il mio auspicio quindi è che il sindacato sappia cogliere al volo questa grandiosa occasione per un rinnovamento totale”.
Ricadute sulla vita di tutti? Eccole: “Oggi – si legge nel volume – ogni ventenne ha davanti a sé circa 580 mila ore di vita. Per gli addetti a mansioni esecutive, il lavoro occuperà non più di 60 mila ore; 200 mila ore saranno dedicate alla cura del corpo (sonno, ‘care’, ecc.); 120 mila ore saranno dedicate alla formazione. Disporremo di 200 mila ore di tempo libero, pari a ventitré anni. Per i lavoratori creativi, il lavoro si confonderà con il tempo libero. In una famosa conferenza del 1930 (‘Economic Possibilities for our Grandchildren’) Keynes salutò con entusiasmo questa prospettiva e profetizzò che i suoi nipoti (cioè i bambini che nascono oggi) avrebbero ridotto la settimana lavorativa a quindici ore e poi, via via, si sarebbero abituati a una vita finalmente liberata dal lavoro e pienamente realizzata”.
Quindi, “con lo smart working il lavoratore è padrone degli orari, dei luoghi, dei ritmi e dei metodi di lavoro. Le ricerche dimostrano che il telelavoratore riesce a svolgere le pratiche in meno tempo di quanto gli occorresse in ufficio. Tuttavia la pratica dell’overtime, ormai congenita, può indurre alcuni telelavoratori a espandere il lavoro oltre misura ed è probabile che occorra del tempo prima che ci educhi e ci si abitui a godere pienamente i vantaggi dello smart working”.
Dalla lettura del libro si evince così che vi potranno essere enormi vantaggi, dal risparmio non solo del tempo ma anche economico per i lavoratori e per le aziende che non avranno più bisogno di affittare spazi per le loro sedi. Una nuova realtà, un altro tipo di organizzazione che prende il sopravvento trasformando tutto da scelta momentanea in strutturale, anche se necessiterà un piano adeguato e ben studiato di lavoro agile per assecondare le esigenze delle famiglie, magari alternando il lavoro da ufficio e da casa. Per questo, e per altri motivi, il successo del nuovo modello di lavoro non è affatto scontato. Perché il cambiamento, che probabilmente avviene in un momento decisivo, va condiviso da tutti. E perché è indispensabile ipotecare un cambio culturale che racchiuda in se principalmente la riorganizzazione delle risorse umane, dei controlli e dell’autonomia gestionale.
Fabio Ranucci
“CATEGORIE” e “CLASSI”- Necessità di una critica radicale al modello neo /ordo-liberista. di P. P. Caserta

È ovvio che nelle proteste di questi giorni ci siano anche infiltrati, facinorosi di varia collocazione e post-sempre-fascisti che cercano di toccare palla. Non mi pare, però, si possa dubitare che la larga parte sia costituita da uomini e donne messi a dura prova dalla crisi. Non può trovare uno spazio di realtà il moralismo di chi liquida le proteste in blocco per via di alcuni facinorosi. Ma il culmine del moralismo sta forse nel pensare che chi ha fame conservi un contegno e modi gentili. Non è così e non è mai stato così. <Un governo né carne né pesce fa un mini-lockdown per non doversi far carico fino in fondo della sofferenza sociale generata da una crisi che morde sempre di più. Piuttosto, lockdown come si deve ma allora reddito di quarantena per tutti fino alla fine dell’emergenza pandemica!> L’alternativa, se si vuole, è la Svezia, ma l’italica paternalistica viuzza di mezzo che questo governicchio esprime sta facendo montare la rabbia sociale, questo è il punto, a mio avviso. In situazioni di grave emergenza devi più che mai scegliere una linea, se cammini in mezzo resti schiacciato, come dice il saggio. Se dico questo, per inciso, non è perché io minimizzi il Covid, ma proprio per il motivo opposto. Non minimizzo né il Covid, né l’acuta crisi che il Covid ha enfatizzato.
Appurato che una larga parte della protesta non è fascista né camorrista (senza escludere la presenza anche di questi e di altri elementi), per chi volesse prendersene la briga rimane il compito di leggere la protesta e trasformarla in una chiaro progetto politico di critica radicale al modello egemone neo /ordo-liberista, che ha prodotto i gravi squilibri esaltati dalla crisi.
Il lessico che ricorre in questi giorni racconta una storia eloquente, si parla di “categorie”, mentre il concetto di “classe” è ovviamente lontano, da tempo spazzato via dall’individualismo post-borghese (e iper-borghese al tempo stesso). Le “categorie”, ciascuna con le proprie istanze particolare e circoscritte, intendiamoci tutte legittime, ma inevitabilmente limitate nello scopo, sono l’evidente prodotto della da tempo avvenuta decomposizione del concetto di classe, frammentato in una serie di segmenti spesso incomunicanti con interessi particolari. (Molto ha contribuito anche la deleteria retorica della “società civile”). Eppure è lo stesso il modello che ha tagliato la spesa pubblica, i salari e le pensioni, la sanità, la scuola pubblica. Credo, inoltre, che questa necessaria critica radicale al modello neo /ordo-liberista debba passare anche, per la nostra parte, per l’obiettivo di una rappresentanza globale del mondo del lavoro, che richiede anzitutto, come la situazione appunto conferma ampiamente, schemi interpretativi empirici e non preconfenzionati.
Pier Paolo Caserta
Se essere mamma fa a pugni col lavoro. di S. Bagnasco
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L’Ispettorato del lavoro ci informa che nel 2019 le donne che hanno lasciato volontariamente il lavoro sono state 37.611; nel 2011 erano state 17.175 e anno dopo anno aumentano incessantemente.
Il 65% delle donne lasciano per le difficoltà di conciliare il lavoro con la cura dei figli.
La fascia di età è concentrata tra 29 e 44 anni, nel pieno quindi della vita professionale.
La vita familiare si conferma poco paritaria e il gap tra i generi ancora enorme.
C’è poco da farfugliare di natalità, se non si affronta la questione del diritto per una donna di essere lavoratrice e madre e la questione della disoccupazione giovanile. Perché mi pare ovvio che i giovani sono disoccupati in modo impressionante non perché si fanno pochi figli ma perché questo Paese non offre opportunità ai giovani dopo aver chiesto alle donne di rinunciare al lavoro o a essere madre.
Le ragioni di questi insuccessi, che con costanza raccogliamo anno dopo anno, sono sempre gli stessi: carenza dei servizi per la prima infanzia, costi troppo alti per l’assistenza attraverso nidi o baby sitter, mancanza di posti al nido, mancanza di parenti a supporto delle giovani famiglie, questione sempre più stringente considerato che sempre più spesso le giovani coppie si formano lontane dai luoghi di origine perché lontano dalle rispettive famiglie hanno trovato lavoro.
La realtà è quindi ancora quella di decenni fa, nonostante i fiumi di parole su occupazione femminile, parità di genere e natalità: la donna troppo spesso è ancora posta di fronte alla scelta tra diventare mamma o lavorare.
Non ci siamo!
Adesso si profila il Family Act, vedremo come si concretizzerà; certamente un passo avanti, ma al momento mi sembra inidoneo a risolvere i problemi reali perché al primo posto non c’è il nido accessibile a tutti e la scuola a tempo pieno.
L’assegno universale e i congedi parentali non compensano la mancanza di adeguati servizi per l’infanzia.
Sergio Bagnasco
Il paradosso di Keynes. di A. Angeli
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Non siamo ancora alla catastrofe, e tuttavia i segnali sono evidenti e incontrovertibili. Tutti gli indici economici sono al negativo e sicuramente nella immediata prospettiva, senza l’aiuto dell’Europa, con la quale dobbiamo trattare e concludere un accordo, ci troveremmo al default economico e sociale e nel breve volgere di tempo, costretti ad accettare un’austerity pesantissima o usciere dall’Europa, con tutte le immaginabili conseguenze sociali alle quali seguirebbero sicuramente ricadute sulla tenuta democratica del paese. Due dati: quello della disoccupazione e a seguire della domanda aggregata, scandiscono il tempo di questa crisi alla quale il governo può sopperire indebitandosi oltre ogni immaginazione, senza indugiare su MES si o MES no, una volta accertata la caduta di ogni condizionalità. D’altro canto, la crisi epidemica ha scansioni temporali di diffusione non coincidenti con le necessità del paese di riavviare la macchina produttiva, e l’esperienza vissuta in questi sessanta giorni di lockdown ha spinto il paese ad adottare difese che hanno inciso fortemente su tutti i settori della produzione e quindi nella formazione della ricchezza.
Tuttavia, ora si tratta di ripartire e puntare alla ripresa, allo sviluppo della produzione e alla creazione della ricchezza, dentro un disegno e un progetto di sviluppo che porti il paese nella modernità, nella green economy, nella digitalizzazione, nei nuovi processi informatizzati, insomma nella società dei Big data. Le condizioni ci sono tutte. Infatti, una volta superata l’epidemia, sarà come se il paese dovesse ripartire da zero. Spetta quindi al governo dimostrare intelligenza e lungimiranza, proprio ora che l’Europa ha accantonato molti vincoli, deliberato sostegni finanziari di diverso tipo e natura, e sembra orienta ad adottare i recovey bond, dopo che sarà costituito il recovey fund; spetta, quindi, al governo e alle forze di maggioranza dare prova di volontà, di lucidità, di coerenza.
Tuttavia non dobbiamo nasconderci che ci sono ostacoli non indifferenti a trovare tutte le risorse necessarie, questo perché il governo non ha messo a punto alcun progetto sia per la parte che riguarda la linea di sviluppo che intende seguire per la difesa delle aziende fondamentali e delicate per lo sviluppo del paese, che per quantificare lo stock di risorse finanziarie delle quali indicare presuntivamente il fabbisogno al fine di costruire un quadro macroeconomico affidabile e perseguibile. Nel frattempo ci sarà l’imperativo categorico del lavoro che manca e della necessaria riorganizzazione del welfare, puntando convintamente al superamento della povertà, della precarietà, del lavoro nero o sottopagato, anche inventando un nuovo sistema di redistribuzione della ricchezza. Magari anche rivedendo gli astrusi strumenti finora messi in campo ( quota cento, reddito cittadinanza, e tanto altro ) senza un significativo ritorno di risultati sul fronte del lavoro e della diminuzione della povertà. Certo, questa non è la classica congiuntura economica, che si caratterizza per mancanza d’investimenti e disoccupazione. E’ qualcosa di più e, per l’ordine di grandezza del disastro economico, è di più difficile.
Per questo un breve richiamo a Keynes, il quale aveva ben presente che, in antitesi a quanto ritenuto dai teorici a lui precedenti, la situazione d’insufficienza della domanda è un duraturo fenomeno di squilibrio tra risparmi e investimenti (pensiamo alle enormi disparità di reddito e all’abbondanza di ricchezza privata, pari questa a quattro volte il debito pubblico). Nella Teoria generale del 1936, scriveva: Se il Tesoro si mettesse a riempire di biglietti di banca vecchie bottiglie, le sotterrasse ad una profondità adatta in miniere di carbone abbandonate, e queste fossero riempite poi fino alla superficie con i rifiuti della città, e si lasciasse all’iniziativa privata… di scavar fuori di nuovo i biglietti…, non dovrebbe più esistere disoccupazione e, tenendo conto degli effetti secondari, il reddito reale e anche la ricchezza in capitale della collettività diverrebbero probabilmente assai maggiori di quanto sono attualmente”. Insomma, anche scavare buche, per poi riempirle, potrebbe essere di stimolo alla ripresa. Uscendo dalla metafora, si pensi alle difficoltà per la nostra agricoltura, la quale presto si troverà a fare i conti con la mancanza di manodopera per provvedere ai raccolti; si pensi alla formazione dei lavoratori, alla quale il paese dovrà ricorre nel breve tempo e che sarà giocoforza determinata dalla fase post covid19: trasporti, scuola, luoghi di lavoro, servizi, commercio, industrie, poiché il nuovo paradigma del lavoro sarà il distanziamento, la protezione, la salvaguardia della salute. E ciò comporterà una rivalutazione delle condizioni di lavoro e degli stessi processi, delle stesse procedure, del modello organizzativo. Ecco, scavare buche per poi riempirle ci serve per capire che nessuno deve essere di peso, che il momento nel quale tutti siamo chiamati a dare il nostro contributo e a fare la nostra parte è ora. Altrimenti, nella buca, ci cadremo tutti.
Alberto Angeli
Anche i call center nella terra di nessuno. di G. Sbordoni
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Eccola, un’altra storia dalla terra di nessuno. All’orizzonte c’è la trincea del Coronavirus e fa davvero paura. La vediamo dalla nostra trincea, scavata tra il divano e la cucina. In mezzo c’è quella striscia, totalmente esposta al nemico, e persino al fuoco amico. Il virus famelico è pronto ad aggredirla, i decreti del governo, almeno fino a questa mattina, hanno deciso di sacrificarla. È la terra degli operai, che ieri hanno protestato e scioperato dappertutto. È quella di altre categorie escluse dall’ultimo decreto, pur se il loro lavoro non salva vite e non è fondamentale per la sopravvivenza della comunità. Carne da macello ripetevano indignati in molti ieri, mentre incrociavano le braccia davanti alle fabbriche.
Nel caso degli operatori di call center, carne da macello completamente disarmata. Nella storia che stiamo per raccontarvi, infatti, non trovano posto i simboli per eccellenza della lotta al Covid-19: la mascherina, il metro di distanza e il lavaggio frequente delle mani. La prima, per chi lavora al telefono, potete immaginarlo, è di fatto impossibile da indossare. Il secondo, fino a pochi giorni fa, non era stato concesso e i lavoratori continuavano a darsi da fare spalla a spalla, a decine nello stesso open space. Il terzo, considerando i ritmi serrati (tre pause in otto ore) è di fatto un’utopia.
E allora seguite il filo del racconto, anche se non è facile dipanarlo, perché chi ha deciso di portarlo alla nostra attenzione, persino in questi tempi bui di emergenza globale in cui tutti temiamo di ammalarci gravemente, rischia ritorsioni e ha chiesto di restare anonimo e che non venisse citato il nome dell’azienda. Siamo al Nord, dove da tempo hanno familiarizzato con il concetto di zona rossa. Eppure, in questo grande call center ancora ieri mattina tutto continuava come niente fosse o quasi.
La prima frase dell’intervista telefonica, per noi che siamo responsabilmente chiusi in casa, è tutta un programma: “Tra un po’ mi devo preparare per andare al lavoro”. Ma che cosa fai esattamente? “Customer care per i clienti di un’azienda di telefonia. In sintesi, rispondo a domande tipo: quando finisce la mia promozione? Quanto credito ho? Quanti giga mi rimangono? Dovrei ricaricare”. Non salvano vite umane, insomma. Cerchiamo, tuttavia, di restare neutri, di capire anche che milioni di italiani chiusi in casa possano aver bisogno ancor di più di un servizio di assistenza di questo genere. Ma non potete, almeno voi, lavorare da casa, almeno in questa emergenza? “Assolutamente sì, basta un pc, non abbiamo bisogno di particolari attrezzature”. E allora che cosa ci fate ancora al lavoro? “Non riesco a capirlo. L’azienda aveva millantato responsabilità sociale in pubblico, annunciando l’intenzione di metterci in telelavoro. Peccato che il giorno dopo tale annuncio ci hanno chiamato in piccoli gruppi, insieme con i team leader, per chiederci di tenere duro, perché siamo un’azienda di servizi e dobbiamo restare sul posto”.
Ma qualche regola, a voi avanguardia del contagio, ve l’avranno pur data. “Fino alla settimana scorsa eravamo seduti uno accanto all’altro in open space. Soltanto quando l’allarme è salito di livello, hanno imposto il distanziamento di un metro”. E i dispositivi di protezione individuale? “La mascherina, lavorando al telefono, è impraticabile. I guanti se li è portati chi ci ha pensato. A un certo punto, però, hanno munito ogni postazione di carta assorbente e gel igienizzante: quando arrivavi dovevi disinfettare gli strumenti”. Tutto qui? “Ci hanno detto di lavarci spesso le mani”. E lo hai potuto fare, considerando la fama dei vostri ritmi? “Io sono full time, 8 ore. Faccio 15 minuti di pausa dopo due ore, poi, dopo altre due ore la pausa pranzo, poi, dopo altre due ore, altri 15 minuti di pausa”. Quindi al massimo te le puoi lavare tre volte, le mani. Ti posso chiedere quanto guadagnate? “I full time, 1.200 euro. I part time a 30 ore, circa 1.000”. Perché hai deciso di raccontarcelo? “Volevo che venisse fuori il modo in cui ci trattano. Ma temo che se mi scoprono me la facciano pagare, negandomi ferie o permessi o peggio”.
Nel pomeriggio il nostro testimone ci ha detto che l’azienda ha deciso, finalmente, di attivare lo smart working. Con un ritardo inaccettabile, che potrebbe costar caro in termini di contagiati, in un territorio come quello del Nord Italia, in cui le strutture ospedaliere sono al collasso e i posti liberi in terapia intensiva ridotti all’osso. Anche in questa triste storia del Coronavirus, il filo rosso della condotta padronale resta il massimo ribasso, in termini di spesa, di diritti, di salute e sicurezza, di considerazione per il lavoratore. Che continua a strisciare nel pantano della terra di nessuno, lasciato senza riparo da questo capitalismo disumano.
Giorgio Sbordoni
Tratto dal sito rassegna.it al link https://www.rassegna.it/articoli/anche-i-call-center-nella-terra-di-nessuno