diritti dei lavoratori

Ha un futuro la destra italiana? di M. Zanier

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Quando si guarda al Governo Meloni, spesso si è preoccupati del rischio di una lunga sterzata a destra della politica italiana e più di un osservatore ha gridato all’inizio di un nuovo Ventennio. Se è comprensibile la preoccupazione di molti per le politiche sociali e culturali di destra che possano ledere diritti fondamentali e non ascoltare le richieste provenienti dagli strati sociali più bassi, sulla longevità di questa maggioranza o sulla riproducibilità in futuro di questa coalizione di centro-destra nutro molte perplessità.

La coalizione che il 25 settembre 2022 ha vinto le elezioni politiche ottenendo il 44% dei voti con un’astensione che ha superato il 63% dei votanti, era costituita del 26% di Fratelli d’Italia, la Lega ferma al 9%, Forza Italia all’8% e Noi Moderati che non raggiungeva l’1%.

Se questo raggruppamento si chiama di Centro-Destra è per la presenza di Forza Italia e, in misura minore dei centristi di destra di Maurizio Lupi (che ha raccolto anche i voti democristiani dell’Udc di Lorenzo Cesa), che bilanciano in senso moderato i due partiti più schiettamente di Destra che sono Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni e la Lega di Matteo Salvini, che sono la maggioranza relativa e orientano questa coalizione in modo nuovo rispetto al passato. Ma queste sono cose note.

Quello su cui si riflette molto poco, secondo me, è che l’anello debole di questa maggioranza di governo è costituita dai moderati, ossia da Forza Italia soprattutto che è modellata da sempre sulla persona del suo leader, Silvio Berlusconi, che è nato nel 1936 e non può essere immortale e che non presuppone un vero ricambio generazionale al suo interno, nonostante si diano molto da fare Maurizio Gasparri, Antonio Tajani e il giovane Alessandro Cattaneo. Nessuno in quel partito, questa è una certezza, può prendere il posto per quell’elettorato di Berlusconi, che è il carismatico padrone del suo partito e che continua ad orientare molte testate giornalistiche oltreché il suo apparato di emittenti televisive. Quando lui non ci sarà più un giorno (gli auguro lontano), il suo partito sarà destinato a sciogliersi come neve al sole o a ridimensionarsi fortemente anche e soprattutto come immaginario popolare per quell’elettorato ed i suoi deputati, senatori e amministratori locali non potranno essere automaticamente “saltare il fosso” come hanno fatto alcuni di loro oggi entrando in Fratelli d’Italia, perché non è automatico che chi ha votato un partito moderato e padronale voti un partito postfascista come quello guidato da Giorgia Meloni. Non è così che funziona.

Senza l’8% di Forza Italia, i democristiani di destra che rendono presentabile questa coalizione di nostalgici, non si aggregheranno, credo, automaticamente al carrozzone di Giorgia Meloni e Salvini (anche lui mi pare insidiato all’interno della Lega da una nuova generazione di amministratori locali ambiziosi) e lei non potrà andare lontano, non avendo matematicamente i numeri per governare ancora. Quindi mettiamo da parte la paura di una lunga e salda coalizione di Destra-Centro. Questa perciò rischia di essere per la Meloni la prima e l’unica occasione di stare al governo del Paese.

Anche perché i moltissimi che l’hanno votata nel 2022, giocandosi così l’ultima carta, sperando cioè che l’unica persona che non era mai stata alle leve del comando, potesse dare loro delle risposte e delle soluzioni definitive, si renderanno presto conto che non potrà essere così. Perché è contro l’aumento dei salari più bassi, perché dovrà ancora proseguire le politiche sull’immigrazione impostate negli anni passati dato che lo chiedono gli industriali che hanno bisogno di manodopera strutturale, perché i suoi esponenti di spicco parlano con disprezzo dei giovani che percepiscono il reddito di cittadinanza mandandoli a zappare nei campi, senza tanti giri di parole e attaccano i diritti delle coppie omosessuali che in una certa misura hanno votato (incautamente direi) per il centro-destra.

Ovviamente lo sgretolamento a fine legislatura della coalizione guidata dalla Meloni non risolve al mio avviso il problema di una rappresentanza politica degna e responsabile.

Il fronte progressista che ha fatto un salto di qualità prima con la conferma di Giuseppe Conte a capo di un Movimento 5 Stelle ancorato ad una proposta progressista, poi con l’elezione di Elly Schlein al vertice del Partito Democratico che si pone in grande discontinuità col moderatismo di Enrico Letta e si collega alle richieste della CGIL da un lato, del popolo arcobaleno dall’altro e fa cartello sul salario minimo con le altre opposizioni. Ma non basta. Bisogna ripartire, secondo me, dai territori, dalla Scuola e dalla Salute pubblica, dalla difesa dell’ambiente, dai luoghi di lavoro, prendendo una posizione ferma nei confronti delle aziende che delocalizzano e licenziano operai ed impiegati da un giorno all’altro, in contesti spesso meno combattivi della realtà operaia della GKN che da qualche anno sta facendo scuola. C’è bisogno a sinistra di una visione del futuro, di un’idea di trasformazione graduale e profonda della società che a me piace chiamare ancora Socialismo.

Marco Zanier.

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Per un programma del Partito Unitario dei Lavoratori. di D. Lamacchia

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No, non esiste un Partito Unitario dei Lavoratori. Non ancora. Spero che al più presto possa avviarsi un processo che porti alla sua formazione o ad una forza simile. Un partito che abbia l’ambizione di unificare tutte le forze intellettuali ed organizzative che fanno riferimento al mondo del lavoro per dargli la prospettiva di una emancipazione, condizione unica per una emancipazione di tutta la società verso un modello di tipo socialista, democratico ed egualitario.

Dopo gli anni dallo scioglimento del PCI e delle vicende che hanno attraversato le realtà seguite a tale evento, PD, RC, SI, LEU, Art. Uno, ecc. e la catastrofe delle ultime elezioni è inevitabile pensare che se si vuole dare concretezza ad una prospettiva di crescita di una forza di sinistra in Italia si debba partire dal riconoscere che le divisioni sono la causa principale della sconfitta elettorale e della perdita di consenso tra i lavoratori e l’elettorato più in generale.

La necessità di un nuovo partito nasce dal riconoscere vero che nessuna delle realtà attualmente esistenti possa unificare tutte le opzioni in campo. Non serve a nulla fare delle sommatorie ma è necessaria una nuova sintesi.

Non credo che un ruolo unificante possa svolgerlo il PD. Non sono chiari in quel partito le caratterizzazioni identitarie. Fatto che ha portato alle diverse scissioni. Il cambio dei vertici a partire dal Segretario non è sufficiente a colmare il vuoto e le contraddizioni della proposta. Troppo sono sedimentate le abitudini, i caratteri, le culture, i contrasti anche personali.

Da dove partire? Innanzitutto da una condivisione della lettura della situazione internazionale. Grazie agli eventi seguiti allo sfaldamento del blocco sovietico e anche allo sviluppo della tecnologia digitale (il villaggio globale) una situazione nuova si è venuta a determinare nell’equilibrio tra le potenze. È saltato l’equilibrio nato a Yalta subito dopo il II conflitto mondiale. Soprattutto vanno evidenziate la crescita di Cina e India e dei paesi che per un periodo furono chiamati “non allineati”, oggi identificati come BRICS. Alcuni parlano dell’avvento del “secolo cinese”. Difatti va riconosciuta una perdita di egemonia dei paesi occidentali e degli USA in particolare. Fatto che induce a riconoscere la necessità di un mondo pluricentrico capace di coscientizzare che le problematiche vissute dal mondo non sono risolvibili con azioni unilaterali. Valgano ad esempio i problemi del cambiamento climatico, della transizione energetica ad esso connessa, dello sforzo necessario per risolvere problemi endemici come la fame e le malattie, specie quelle infettive, le migrazioni causate dagli squilibri. Un nuovo ordine mondiale necessita e non può venire se non attraverso un passo avanti in direzione di un superamento delle diseguaglianze. Un Europa più unita, coesa, autonoma ne è condizione necessaria. L’attuale conflitto Russia-Ucraina può essere letto come una conseguenza dell’avvenuto disequilibrio tra le potenze. Fermo restando la condanna all’invasione dell’Ucraina da parte russa, va ricercata la via per un cessate il fuoco e l’avvio di trattative tese alla pace.

È da considerare inammissibile che forze di sinistra votino in parlamento come le destre sui provvedimenti tesi all’aiuto all’ucraina, innanzitutto per la fornitura di armi.

Una forza di sinistra non può non considerare la NATO come strumento obsoleto ai fini di un equilibrio tra le potenze. Un ruolo di autonomia necessita da parte europea con la strutturazione di un esercito autonomo capace di imporre un suo punto di vista senza accondiscendenze passive agli USA o ad altre potenze.

Per quanto attiene alle politiche sociali una forza di sinistra non può che avere come riferimento le classi lavoratrici, i sui bisogni, rivendicazioni, volontà di riscatto, aspirazioni, speranze. I cambiamenti nella struttura del mondo economico, nei modi di produzione dovuto all’avvento del digitale ha sicuramente chiuso l’epoca dell’“operaismo” ma non quella dei conflitti sociali e del contrasto “capitale-lavoro”. Lo dicono il diffuso precariato anche di fasce sociali un tempo protette, l’alta disoccupazione giovanile, la perdita di potere salariale, la interruzione della mobilità sociale, il contrasto tra periferie e centri urbani, la solitudine degli anziani per citare solo alcuni delle contraddizioni in atto, più in generale l’acuirsi della forbice tra garantiti e non garantiti.

Una forza di sinistra non può che promuovere ogni azione tesa ad un allargamento e diffusione delle garanzie sociali, di maggiore e più diffuso benessere.

Prioritario deve essere considerata la protezione del potere di acquisto salariale. Ciò può avvenire per mezzo di automatismi come lo fu la scala mobile.

La proposta di stabilire un salario minimo per legge deve essere considerato un obbiettivo perseguibile insieme al rafforzamento della contrattazione nazionale.

L’ipotesi di una riduzione dell’orario di lavoro secondo la logica “lavorare meno, lavorare tutti” deve essere un obiettivo strategico prioritario. Così per l’abolizione del Jobs Act e delle forme di precariato.

La lotta alla disoccupazione soprattutto giovanile deve essere perseguita attraverso politiche di investimenti poderosi da parte pubblica in direzione dei settori cardini dell’economia: trasporti, scuola, formazione e ricerca, sanità, infrastrutture, abitazione, ecc.

Ciò può avvenire attraverso un riequilibrio della spesa privilegiando quella “fruttuosa” verso quella “infruttuosa” riducendo sprechi e investimenti in settori come gli armamenti, un maggiore controllo sugli esiti delle cantierizzazioni, unificazione dei centri di spesa.

Cardine di una politica di sinistra è la riforma del fisco, confermando e migliorando l’impianto progressivo, per mezzo di un taglio del cuneo fiscale soprattutto per la parte gravante sui lavoratori.

La crescita delle entrate deve fondarsi sull’aumento della base contributiva generata dagli investimenti e una efficace lotta alla evasione.

Prioritarie devono essere considerate “riforme di struttura” che mirino ad un rafforzamento del dominio pubblico su quello privato, specie nei settori strategici e sensibili: energia, comunicazione, infrastrutture, sanità, formazione e ricerca, trasporti, con la eliminazione del criterio dannoso che scarica le spese sul pubblico e i profitti sul privato. Si vedano a tale proposito la condizione di alcune realtà come l’Alitalia, la sanità in alcune regioni, il settore siderurgico, il settore delle telecomunicazioni, le autostrade.

Il miglioramento della efficienza dei servizi deve essere realizzato per mezzo di tecniche di controllo della qualità che coinvolgono sia gli operatori che l’utenza, non solo la dirigenza, con incentivazioni salariali degli operatori sulla base di criteri di soddisfazione dell’utenza e il raggiungimento di obiettivi definiti di eccellenza.

Sono questi solo alcune delle tematiche da affrontare. Non meno importanti sono i temi delle forme di partecipazione. Quale partito, con quale struttura organizzativa, nazionale e territoriale, come selezionare i gruppi dirigenti per impedire ingressi miranti al carrierismo o alla rappresentanza di interessi lobbistici o di categoria, all’autoreferenzialità?

Buona riflessione!

Donato Lamacchia

Pierre-Joseph Proudhon. di A. Angeli

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Il 19 gennaio 1865 muore Pierre-Joseph Proudhon , ( era nato il 15 gennaio 1809, Besançon, Francia), libertario francese, socialista e giornalista. Il suo pensiero si spinse oltre il socialismo fino a elaborare dottrine radicali improntate ad una visione anarchica . Nacque in povertà, come figlio di un incapace bottaio e taverniere, e all’età di nove anni lavorò come pastore nelle montagne del Giura . L’infanzia trascorsa in campagna e l’ascendenza contadina di Proudhon influenzarono le sue idee fino alla fine della sua vita, e la sua visione della società ideale rimase quasi fino alla fine quella di un mondo in cui i contadini e i piccoli artigiani, come suo padre, potessero vivere in libertà e una povertà dignitosa, perché il lusso gli ripugnava, e non lo cercava mai per sé o per gli altri.

Proudhon in tenera età mostrò i segni della brillantezza intellettuale e vinse una borsa di studio per il college di Besançon. Nonostante l’umiliazione di essere un bambino in sabot (scarpe di legno) tra i figli di mercanti, sviluppò il gusto per l’apprendimento e lo mantenne anche quando i disastri finanziari della sua famiglia lo costrinsero a diventare un apprendista tipografo e poi un compositore. Mentre imparava il mestiere, imparava da solo il latino, il greco e l’ebraico, e in tipografia non solo conversava con vari liberali e socialisti locali, ma incontrava e subiva l’influenza di un concittadino di Besançon, l’utopista socialista Charles Fourier .

Con altri giovani stampatori, Proudhon tentò in seguito di fondare la propria stampa, ma una cattiva gestione distrusse l’impresa. Questa esperienza alimentò in lui un crescente interesse per la scrittura, che lo portò a sviluppare una prosa francese difficile da tradurre ma ammirata da scrittori vari come Flaubert, Sainte-Beuve e Baudelaire. Alla fine, nel 1838, una borsa di studio assegnata dall’Accademia di Besançon gli permise di studiare a Parigi . Ora, con il tempo libero per formulare le sue idee, scrisse il suo primo libro significativo, Qu’est-ce que la propriété? (1840;Cos’è la proprietà? , 1876). Ciò creò scalpore, poiché Proudhon non solo dichiarò: “Sono un anarchico”; ma affermò: “La proprietà è un furto!”

Questo slogan, che acquistò molta notorietà, fu un esempio dell’inclinazione di Proudhon ad attirare l’attenzione ea mascherare la vera natura del suo pensiero inventando frasi sorprendenti. Non ha attaccato la proprietà nel senso generalmente accettato, ma solo il tipo di proprietà con cui un uomo sfrutta il lavoro di un altro. La caratteristica della proprietà che lui distingueva da quella sfruttatrice si identificava nel diritto dell’agricoltore di possedere la terra che lavora e dell’artigiano la sua officina e i suoi strumenti – che considerava essenziale per la conservazione della libertà. La sua principale critica al comunismo, sia di tipo utopico che marxista , era che distruggeva la libertà togliendo all’individuo il controllo sui suoi mezzi di produzione. Nell’atmosfera un po’ reazionaria della monarchia di luglio negli anni Quaranta dell’Ottocento, Proudhon venne accusato per le sue dichiarazioni in Cos’è la proprietà? ; fu portato in tribunale quando, nel 1842, pubblicò un sequel più provocatorio, Avertissement aux propriétaires ( avviso ia proprietari, 1876). In questo primo dei suoi processi, Proudhon sfuggì alla condanna perché la giuria ritenne coscienziosamente di non poter comprendere chiaramente le sue argomentazioni e quindi di non poterle condannare.

Nel 1843 si recò a Lione per lavorare come impiegato amministrativo in una ditta di trasporti d’acqua. Lì incontrò una società segreta di tessitori , la Mutualisti, che avevano sviluppato una dottrina protoanarchica che insegnava che le fabbriche della nascente era industriale potevano essere gestite da associazioni di lavoratori e che questi lavoratori, con l’azione economica piuttosto che con la rivoluzione violenta, potevano trasformare la società. Tali punti di vista erano in disaccordo con la tradizione rivoluzionaria giacobina in Francia e il suo centralismo politico. Tuttavia, Proudhon accettò le loro opinioni e in seguito rese omaggio ai suoi mentori e rappresentanti della classe operaia lionese adottando il nome di Mutualismo per la sua forma di anarchismo .

Oltre a incontrare gli oscuri teorici della classe operaia di Lione, Proudhon conobbe anche la femminista socialista Flora Tristan e, nelle sue visite a Parigi, fece la conoscenza di Carlo Marx ,Mikhail Bakunin e il socialista e scrittore russo Aleksandr Herzen. Nel 1846 contestò contro Marx l’organizzazione del movimento socialista, opponendosi alle idee autoritarie e centraliste. Poco dopo, quando Proudhon pubblicò il suo Système des contradditions économiques, ou Philosophie de la misère (1846 Contraddizioni del sistema economico e Filosofia della povertà del 1888), Marx lo attaccò aspramente in un libro polemico “La misère de la philosophie” ( La povertà della filosofia ). Fu l’inizio di una frattura storica tra socialisti libertari e autoritari e tra anarchici e marxisti che, che dopo la morte di Proudhon, avrebbe lacerato il socialismo, aprendo un duri contrasto filosofico e poltico tra Marx e il discepolo di Proudhon Bakunin, contrasto filosofico che sopravvive ancora oggi.

All’inizio del 1848 Proudhon abbandonò il suo incarico a Lione e andò a Parigi, dove in febbraio fondò il giornale Le Représentant du peuple. ( La Rappresentanza del popolo ). Durante l’anno rivoluzionario del 1848, e nei primi mesi del 1849, curò un totale di quattro giornali; i primi erano periodici anarchici più o meno regolari e tutti furono a loro volta distrutti dalla censura del governo. In seguito svolse una parte minore nella Rivoluzione del 1848 , che considerava priva di qualsiasi solida base teorica. Anche se fu eletto all’Assemblea Costituente della Seconda Repubblica nel giugno 1848, si limitò principalmente a criticare le tendenze autoritarie che stavano emergendo nella rivoluzione e che portarono alla dittatura di Napoleone III . Proudhon ha anche tentato senza successo di istituire una banca popolare basata sul credito reciproco e sugli assegni di lavoro, che pagava il lavoratore in base al tempo impiegato per il suo prodotto. Alla fine fu imprigionato nel 1849 per aver criticato Louis-Napoleon, che era diventato presidente della repubblica prima di dichiararsi imperatore Napoleone III; Proudhon rimase in prigione fino al 1852.

Le sue condizioni durante la prigionia erano, per gli standard del XX secolo, leggere. I suoi amici potevano fargli visita e gli era permesso di uscire occasionalmente e girare per Parigi. Si sposò e generò il suo primo figlio mentre era in prigione. Dalla sua cella curò anche gli ultimi numeri del suo ultimo giornale (con l’assistenza finanziaria di Herzen) e scrisse due dei suoi libri più importanti, i mai tradotti Confessions d’un révolutionnaire (1849) e Idée générale de la révolution au XIX del secolo (1851;L’idea generale della rivoluzione nell’Ottocento pubblicato nel 1923). Quest’ultimo – nel suo ritratto di una società mondiale federale con frontiere abolite, stati nazionali eliminati e autorità decentralizzata tra comuni o associazioni di località, e con contratti liberi che sostituiscono le leggi – presenta forse più completamente di qualsiasi altra opera di Proudhon la visione del suo ideale di società. Dopo la scarcerazione, avvenuta nel nel 1852, fu costantemente vessato dalla polizia imperiale; trovò impossibile pubblicare i suoi scritti e si mantenne preparando guide anonime per investitori e altri simili lavori di hacking. Quando, nel 1858, convinse un editore a pubblicare il suo capolavoro in tre volumi “De la Justice dans la Révolution et dans l’église”, in cui opponeva una teoria umanistica della giustizia ai presupposti trascendentali della chiesa, il suo libro fu sequestrato. Fuggito in Belgio, fu condannato in contumacia a un’ulteriore reclusione. Rimase in esilio fino al 1862, sviluppando le sue critiche al nazionalismo e le sue idee di federazione mondiale (incarnate in Du Principe fédératif, 1863).

Al suo ritorno a Parigi, Proudhon cominciò a guadagnare influenza tra gli operai. Gli artigiani parigini che avevano adottato le sue idee mutualiste furono tra i fondatori della Prima Internazionale poco prima della sua morte nel 1865. La sua ultima opera, completata sul letto di morte, De la capacité politique des classs ouvrières (1865), sviluppò la teoria secondo cui la liberazione dei lavoratori deve essere il loro compito più impegnativo, da attuare attraverso l’azione economica.

In sintesi: Proudhon non fu il primo ad enunciare la dottrina che oggi si chiama anarchismo; prima che lo rivendicasse, era già stato abbozzato, tra gli altri, dal filosofo inglese William Godwin e reso in prosa e dal suo seguace Percy Bysshe Shelley in versi. Proudhon era un pensatore solitario che rifiutava di ammettere di aver creato un sistema e detestava l’idea di fondare un partito. C’era quindi qualcosa di ironico nell’ampiezza dell’influenza che le sue idee svilupparono in seguito. Erano importanti nella Prima Internazionale e in seguito divennero la base della teoria anarchica sviluppata da Bakunin (che una volta osservò che “Proudhon era il maestro di tutti noi”) e dallo scrittore anarchico Peter Kropotkin. I suoi concetti furono influenti tra gruppi così vari come i populisti russi , i nazionalisti radicali italiani degli anni Sessanta dell’Ottocento, i federalisti spagnoli degli anni Settanta dell’Ottocento e il movimento sindacalista che si sviluppò in Francia e divenne poi potente in Italia e in Spagna. Fino all’inizio degli anni ’20, Proudhon rimase l’influenza più importante e riferimento del radicalismo della classe operaia francese, mentre in maniera più diffusa le sue idee di decentramento in altri Paesi e le sue critiche al governo trovarono la loro rinascita nel tardo XX secolo, anche se a volte la loro origine non è stata ricondotta al filosofo Proudhon.

Alberto Angeli

Un lavoro da intraprendere per sconfiggere la crisi che ci ha consegnati alla destra protofascista. di A. Angeli

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Oggi è consuetudine dire che ‘tutto è spettacolo’: la politica è spettacolo, la giustizia è spettacolo, la vita privata è spettacolo… Ebbene, qualcuno l’aveva previsto oltre 40 anni fa, tanto che la sua fama è dovuta principalmente proprio ad un suo libro intitolato “La società dello spettacolo” dello scrittore Guy Debord, un teorico marxista francese, filosofo, regista, critico del lavoro, membro dell’Internazionale. Una sua frase ci permette di entrare nel tema: “- nel mondo realmente rovesciato, il vero è un momento del falso”. E il vero, per quanto riguarda il nostro paese, è rappresentato dai discendenti del Fascismo che oggi sono alla guida dell’Italia, proprio al compimento dei 100 anni dalla marcia su Roma. La storia si ripete, ci ricorda Karl Marx: la prima come tragedia la seconda come farsa. Gli applaudenti di questa cinica commedia sono i cosiddetti opinionisti, quella parte che controlla l’informazione cartacea e televisiva, indirizza l’opinione con i talk show e obnubila la mente di molti spettatori: mettiamo alla prova il nuovo Governo, aspettiamo i primi provvedimenti. Poi giudicheremo. Intanto. Intanto, si colgono già cambiamenti d’umore, di opinioni, anche di giudizi sulle prime mosse della Premier, la quale chiede di essere indicata come Primo Ministro, anche se l’Accademia della Crusca evidenzia che si deve indicare come Ministra. Una prima donna alla guida del Governo. Una donna determinata, scrupolosa, non ricattabile aggiunge Lei. Da parte di giornalisti di firma importante non lesinano rilievi positivi, sottolineature cariche di impliciti complimenti. Madrid è ormai lontana, e anche la rappresentazione della Meloni su quanto urlato dal Palco di Vox è riposto negli archivi, come del resto tutto il passato. Ora conta solo il futuro, in cui sta scritto il suo itinerario di Patria, Dio e famiglia, che ha portato alla elezione dei Presidenti del Senato e della Camera, nonché di alcuni Ministri che, senza infingimenti, dovrebbe leggersi come un itinerario su cui questo Governo intende orientarsi per comprimere diritti, libertà, conquistate con tante difficili lotte. Poi ci sono i temi dell’economia, il Pnrr, del lavoro, della lotta alle diseguaglianze, della formazione, dell’università, della ricerca e la lotta contro la povertà. Ma già oggi ci sono le questioni aperte, pesantissime, della crisi economica che avanza con l’inflazione al 10%, i costi dell’energia che ha ormai sbilanciato i redditi delle famiglie, la tenuta delle imprese, la difficolta degli approvvigionamenti delle materie prime e dei microchip. E la guerra in corso, ai confini dell’Europa e con la guerra il diffondersi di una spaventosa crisi mondiale, che annuncia l’avvicinarsi di una carestia e l’aumento della disperazione di chi vive in Paesi poveri, con l’attesa ripresa della migrazione di milioni di esseri umani in fuga verso l’Europa. Poi, il grande tema dell’accoglienza, sulla quale, invero, l’Europa è completamente assente, su cui la destra e FdI in particolare hanno minacciati uno sbarramento con navi militari. Non c’è quindi nulla di cui gioire, con la nascita di un Governi parafascista.

E i partiti della minoranza usciti dal voto del 25 settembre? La cosiddetta opposizione che già dà prova di una paurosa incapacità di analisi, di responsabilità di fronte al pericolo che il paese sta correndo. Anzi, si muovono facendosi opposizione tra loro. Il PD, alla ricerca di una sua identità, sembra smarrirsi nella nebbia delle candidature alla sostituzione di Letta, anziché aprirsi al paese, confrontarsi con la società in modo radicale, muoversi nelle realtà della quotidianità in cui la gente si muove, organizza la propria vita e deicide del proprio futuro, spesso disorientata dalla lontananza della politica, delle stesse istituzioni, così rompe, frattura ogni rapporto con i partiti, con le istituzioni, ed esprime nel voto questa sua rabbia, la delusione accumulata in questi anni appesantiti dalla pandemia, prima, e oggi dalla guerra e dall’aggravarsi della situazione sociale e economica: inflazione, povertà, incertezza sul futuro prossimo, non quello del domani. E poi c’è la figura di Conte, il novello riformista, che dopo avere abbandonato il “Vaffa”, ha scoperto come sia facile recuperare consensi ricorrendo a proporre l’assistenzialismo come medicina alternativa alla lotta di classe. Un esperto nella recita, visto che ha recitato una lunga commedia con il Governo da lui presieduto e sostenuto anche da Salvini e Berlusconi. E’ la terza forza elettorale del Paese e lui si sente gaudenteme nte riformista, una trasformazione da che lo porta a sfidare furbescamente il PD sul terreno dell’assistenzialismo, dei benefit, dei bonus, senza una visione politica del futuro economico, produttivo, finanziario del Paese. Eppure, il PD dovrà elaborare una strategia per sottrarsi a questa sfida che Conte vorrebbe condurre sul terreno dell’uomo qualunque, rivolgendosi al mondo che ha cessato da tempo di rappresentare con la dovuta lucidità e coerenza. Poi ci sono Renzi e Calenda, che si autodefiniscono liberali riformisti, pronti a sostenere un agenda Draghi, un movimento in aperta sfida al PD con propositi di polemica quotidiana, oggi resa più convinta dal successo conseguito nel voto del 25 settembre, confidando sulla crisi che investe quel partito. Un raggruppamento insolito, quello tra Renzi e Calenda, fino a ieri in duro contrasto e poi uniti dall’avventura, anche è difficile svelare verso quel porto intendano approdare. Certo, non è sinistra, anche se il sostantivo Riformista accompagna l’idea liberale. Insomma, la società aperta e i suoi nemici, cioè la democrazia è messa a dura prova dalla difficile situazione in cui si volge la vita politica, amministrativa e sociale del nostro Paese.

Da questa breve nota si comprende come nel panorama politico si avverta la mancanza di un’idea di sinistra, di una voce socialista, riformista, innovativa e rivolta all’orizzonte, là dovrà essere recuperato il rapporto con il mondo del lavoro e degli esclusi. Non potrà farlo il PD, un partito interclassista, né Conte, come abbiamo visto, né il duo Calenda/Renzi. Solo una forza che in questi anni è stata sempre ai margini dell’area politica della sinistra e quindi niente affatto compromessa con gli errori, le ambiguità del PD. Il socialismo si ritrova in quei movimenti sociali che si sono costituiti a difesa dell’ambiente, del clima, delle libertà di genere. Si è sempre collocato dalla parte del lavoro, degli esclusi, e fortemente aperto all’accoglienza e bene integrato con quelle forze che si battono per la pace, senza condizionamenti e a difesa dei diritti e della giustizia e quindi contro ogni autoritarismo. I socialisti devono uscire all’aperto e proporsi come artefici di un rassemblement aperto a tutte le forze riformiste, libertarie, pacifiste, ai giovani e lì ridefinire una movimento, inventare, se necessario, un nuovo fronte del socialismo che guarda oltre al futuro analizzando gli errori del presente per costruire un progetto di società adatta al XXI secolo. Un lavoro difficile, ma che solo i socialisti, riunendosi e muovendosi in quella direzione, potranno sostenere e realizzare.

Angeli Alberto

Conte il nuovo “faro” della sinistra italiana? di D. Lamacchia

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Si può imparare dalla storia? Non solo, si deve! Non solo i soggetti individuali, le singole persone, gli intellettuali (ci sono ancora gli intellettuali?), dalla storia devono imparare i soggetti collettivi, cioè coloro che la storia la fanno. Perché questo accenno alla storia? Perché viviamo tempi in cui sembra che dalla storia non si è imparato un gran che. Nei tempi dell’illusione facile generata dalla comunicazione facile si è persa la capacità di riflettere e approfondire e si è persa la capacità di pensare il futuro partendo dal passato. Non si sa più cos’è la “memoria storica”.

Prendiamo il caso della sinistra in Italia ed in Europa. Perché questa perdita di “egemonia culturale” così marcata? Venendo meno l’ideologia “operaista” a causa dei noti sconvolgimenti nei rapporti di produzione determinati dall’”era digitale” la risposta è stata la virata liberista che ha fatto perdere il legame con il proprio soggetto sociale di riferimento, il mondo del lavoro e del disagio sociale. Ha dominato l’illusione che la flessibilità nelle relazioni economico sociale avrebbe apportato e distribuito ricchezza, benessere. Così non è stato ed è sotto gli occhi di tutti. Ad un “pensiero politico forte” si è sostituito un “pensiero politico debole” creatore dell’illusione e, come direbbe il vecchio Marx, di “falsa coscienza” diffusi, in una parola, di populismo, che avrebbe spazzato via il sistema della corruzione e dell’ingiustizia. Non è stato così come è sotto gli occhi di tutti. La domanda “pesante” è, è ancora possibile dare una prospettiva al socialismo? Sebbene liberato dai dogmi operaisti io credo di sì perché le ingiustizie non sono certo finite! Le contraddizioni nel tessuto socio-economico sono ancora tutte al loro posto, da essere usate al fine di cambiamenti profondi in senso egualitario. Esiste il soggetto politico che si può fare carico del compito? Non c’è purtroppo o non ancora. Non può essere l’attuale PD per il groviglio di vecchio “atlantismo” e liberismo che hanno caratterizzato le sue politiche, specie con l’arrivo di Enrico Letta alla segreteria, né sono credibili i vari agglomerati minoritari alla sua sinistra. L’unico a mostrare più saggezza e credibilità è Bersani che però tentenna nella sua capacità di azione, colpa anche dell’improvviso calare come mannaia dell’evento elettorale. Insomma ciò di cui si avverte necessità è la formazione di un soggetto politico forte che raccolga la sfida di rilanciare la prospettiva del socialismo nel nostro paese e nel mondo e di creare una cultura politica di sinistra democratica e libertaria diffusa, capace di fronteggiare l’onda conservatrice.

Come si può constatare è ancora presente una frazione di quel movimento che incarnò in modo maggiore la spinta populista. Mi riferisco al M5S e a Giuseppe Conte che ne è l’attuale reggente. Sono note le vicende governative di cui sono stati protagonisti fino alla caduta di Draghi e all’attuale situazione elettorale. Come si colloca il M5S nel quadro delineato di una prospettiva socialista e di sinistra? A questa domanda Conte ha risposto con un ritornello noto, frutto di “pensiero debole” secondo cui le categorie destra/sinistra appartengono al bagaglio del novecento e che ora si deve far riferimento ai programmi e ai problemi (sic). Addio memoria storica! Non si comprende quindi come sia possibile che vengano da esponenti del vecchio PCI inviti a votare M5S e a considerare Conte come capace di incarnare istanze sociali e prospettive che sono proprie della sinistra. Vero è che le proposte e i programmi non mancano di attenzione al sociale. L’autonomia dimostrata sul piano delle scelte internazionali è apprezzabile ma non mancano di ambiguità. Vedi l’orientamento troppo “filo cinese” e lo scetticismo europeista mostrato spesso in Parlamento europeo e dal loro garante Peppe Grillo.

Conte ispira onestà. Senza dubbio, ma non è l’unico! Una “buona politica” non è solo una faccia pulita.

Una buona politica non è fatta solo di categorie della morale e del sentimento è fatta da programmi giusti e organizzazione, attenzione agli interessi in gioco, agli obiettivi, alle alleanze, alle opportunità contingenti e alle strategie. Insomma va bene come alleato, “compagno di strada” non come “nuovo faro della sinistra”. No, Conte e il M5S non sono di sinistra! Malissimo comunque ha fatto il PD a rifiutare un’alleanza con loro (ipotesi Bersani), alleanza che ha dimostrato alle elezioni “locali” di essere vincente.

Dopo le elezioni questo avrà un peso nella discussione sul futuro della sinistra in Italia. Ecco un tema centrale, cosa accadrà dopo il voto? Sarà possibile avviare un progetto per un nuovo soggetto unitario che dia futuro alla sinistra tutta? Chi ne può essere protagonista? Si guardi al dopo voto quindi e si pensi a dare voce forte a chi potrà essere protagonista di questo obiettivo. Il compito inizia ora, prima del voto. Se dal voto le forze vocate a questa idea venissero mortificate il progetto non avrebbe futuro facile. Dal voto devono uscire forti le forze che vogliono una prospettiva chiaramente di sinistra perché si possano concretamente spostare gli orientamenti anche nei partiti attuali. In primo luogo il PD. Se svolgi una critica di sinistra e a sinistra che devi votare! L’alternativa al “male minore” non può essere il “tanto peggio, tanto meglio”. Conte non è il Melenchon italiano.

Donato Lamacchia

La questione sociale nell’età della Tecnica, di P.P. Caserta

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Il conflitto tra capitale è lavoro si è spostato. Di sicuro, nel pieno della Quarta rivoluzione industriale, non è più possibile identificare il proletariato o i Lavoratori con la sola classe operaia. Andrà riconosciuto, piuttosto, che le nuove forme di sfruttamento non si sostituiscono alle vecchie, bensì si aggiungono ad esse. Siamo tornati ai tempi del vapore e la Quarta rivoluzione industriale ha i suoi sfruttati come li hanno avuti la prima e le seconda: rider, precari del mondo della cultura e dell’informazione, operatori di call center, raccoglitori stagionali…, per limitarsi soltanto alla prima linea degli sfruttati, ma precarizzazione e nuove povertà si sono allargate fino a definire una sorta di Terzo stato globalizzato, che spazia di fatto dagli immigrati al ceto medio impoverito, ma lontanissimo dall’aver acquisito una coscienza di classe, e di fronte al quale si erge la neo-aristocrazia tecno-finanziaria egemone.

Di Vittorio disse, nel suo primo discorso in Parlamento, che lo aveva guidato il sogno di unificare le lotte degli operai del Nord e quelle dei contadini del Sud, “perché il padrone è lo stesso dappertutto”. Noi dovremmo in fondo ambire oggi a fare lo stesso, le difficoltà sono molte e non dipendono soltanto dagli errori commessi, come spesso ci diciamo, ma anche dal quadro oggettivo, e in primo luogo dalle inedite possibilità di seduzione e di distrazione rese oggi disponibili al punto di incontro tra il Mercato e la Tecnica nella civiltà dell’intrattenimento… per cui di fatto molti tra gli sconfitti della globalizzazione continuano tuttavia a sognare il loro riscatto attraverso gli stessi strumenti ai quali sono aggiogati. Per questo ritengo che siano oggi strettamente connessi la questione sociale, l’effettiva capacità di rappresentare <tutti> i Lavoratori e l’emancipazione dal pensiero tecnomorfo.

Pier Paolo Caserta

Basta con la favoletta che sia colpa del Reddito di Cittadinanza se non si trovano lavoratori. di R. Papa

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Se un peccato originale ha il Reddito di Cittadinanza è quello di aver voluto perseguire da un lato la politica di contrasto alla povertà e dall’altro quello di una politica del lavoro con lo scopo di reinserire quanti fossero usciti dal mercato del lavoro.

Mentre da un lato crescono i disoccupati o gli inattivi dall’altro c’è una forte denuncia di mancanza di lavoratori…per “alcuni” datori di lavoro la colpa è ovviamente il RdC!

Ora delegittimare questa misura ha un riflesso negativo sui poveri “quelli veri” che come ci dicono le ultime rilevazioni sono in aumento. Certo è che il RdC ha fallito sul versante della politica del lavoro.

Forse prima di sparare a zero su una misura certo parziale e sicuramente assistenzialistica si dovrebbe ragionare di più sul mercato del lavoro, sulla qualità della domanda e offerta di lavoro, sulla corretta applicazione dei contratti di lavoro, sui livelli minimi salariali…non si può tollerare che si accettino lavori a 2 euro all’ora, ma soprattutto che si avviino politiche del lavoro che tendano al superamento della precarietà che in questi ultimi mesi è l’unico dato in crescita. Si deve anche riflettere su un diverso rapporto dei giovani con il lavoro, l’atteggiamento verso il lavoro, rispetto a quello che potevano avere quelli della mia generazione, è notevolmente cambiato.

Dal 2009 al 2019 sono circa 250.000 i giovani tra i 15 e 34 anni che sono andati all’estero, e di certo non tutti sono laureati, i cosiddetti “cervelli” come se gli altri non avessero il cervello, ma solo bruta forza lavoro.

Così come sono centinaia di migliaia quelli che lasciano il lavoro, un fenomeno legato alla salute psicologica dei lavoratori e delle lavoratrici in rapporto proprio al lavoro.

E poi se anche fosse che come in tutte le situazioni ci sono dei furbetti (perché gli evasori fiscali con i loro 110 miliardi di euro non lo sono?) questi vanno perseguiti, ma occorre vederne i benefici verso chi è veramente in difficoltà

A marzo i dati INPS ci dicono che Reddito e Pensione di Cittadinanza hanno coinvolti 1.050 mila nuclei famigliari, per 2.249 mila, per un importo medio mensile di 541 euro.

E allora smettiamola con questa favola che i giovani non vogliono lavorare, certo ce ne saranno pure, ma la maggioranza sicuramente sicuramente si trova in forte situazione di disagio, a cui la politica deve dare una risposta e non perdersi dietro le chiacchiere da bar di chi sia la colpa se un giovane rifiuta un lavoro.

Verso la fine degli anni sessanta uno slogan “Studenti e operai uniti nella lotta” portò alla promulgazione dello Statuto dei lavoratori. Oggi dobbiamo riprendere quello slogan perché la battaglia per il lavoro e per la dignità del lavoro è un tema che come allora riguarda “studenti e lavoratori”.

Roberto Papa

Campo largo? di D. Lamacchia

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Lo ammetto non ho seguito molto il congresso di Articolo Uno (a proposito dove si poteva seguire? Anche colpa dei media che lo hanno parecchio snobbato). Un paio di cose però le ho capite: Roberto Speranza è stato rieletto segretario e che il congresso ha accettato la proposta di Letta (PD) del cosiddetto “campo largo”. Poco cenno si è fatto ai contenuti della proposta politica venuta dal congresso. Probabile responsabilità dei media anche su questo. Comunque pare che tra le proposte ci sia una maggiore attenzione alle dinamiche salariali. Siano ben venute. Ciò che emerge con forza però è la proposta politica del “campo largo”. Una proposta che intende avvicinare se non proprio unire le forze “non di centrodestra” per fronteggiare al meglio la coalizione avversaria sempre più evidentemente a guida Fratelli d’Italia. Che si provi, in vista delle elezioni, a formulare proposte di aggregazione mi sembra abbastanza normale. Ciò che non mi convince sono i contenuti programmatici. Infatti non se ne parla. Mi viene allora da dire, va bene pensare ad un “bus” più grande per allargare il numero di partecipanti alla gita ma vorrei sapere anche chi è proposto alla guida, quel è la meta e qual è il percorso che si intende seguire. Per esempio cosa si pensa della proposta del Prof. Carlo Rovelli di inserire nei programmi finanziari una diminuzione annuale delle spese militari e di sostituirle con investimenti in attività di interesse pubblico? Alla sinistra servono parole, messaggi chiari che rendano credibili l’offerta politica. Servono uomini credibili. Non bisogna diventare “un po’ più di centro” per conquistare elettorato di centro. Uomini come Pisapia, Zedda, Vendola hanno dimostrato in passato di poter conquistare ampi strati di elettorato non di sinistra pur essendo chiaramente di sinistra. Cosa avevano di così “magico” se non la credibilità della loro persona e delle proposte? La mancanza di credibilità ha negli anni creato sfiducia. Prima conquistata dal populismo e ora dalla pratica dell’astensionismo e della rinuncia. Non serve un “campo largo”, serve un Partito Democratico di Sinistra che faccia del lavoro e delle libertà “nuove” (Jus soli, parità di genere, lotta alle discriminazioni di identità, ecc.) il suo “campo di battaglia” identitario. Al primo posto la Pace e un nuovo internazionalismo. L’internazionalismo dei popoli oppressi e non garantiti a cui i benefici dell’era digitale non arrivano. Quei popoli che alla democrazia arrivino attraverso la lotta per i diritti e non per “esportazione” della stessa. Non serve un nuovo partitino che tenta di sfruttare il “mercato aperto” dell’astensionismo come sembra stia facendo De Magistris, sull’onda del risultato elettorale francese. Non ci serve un Melenchon italiano, serve una forza politica radicata nella tradizione del lavoro e delle lotte per la sua nobilitazione e liberazione.

Così si esprime Il neo segretario generale Fiom Cgil, Michele De Palma,

“Il mondo degli operai è radicalmente cambiato rispetto a 50 anni fa, allontanandosi sempre più dalla sinistra. Come può essere recuperato?

Mettendo  al  centro  il  lavoro  e  ripartendo  dalle  persone, a cominciare dalle donne e dalle giovani generazioni,  che  per  vivere  devono  lavorare.  La crisi della democrazia che stiamo attraversando in maniera  così esplicita è causata dal fatto che i partiti, più che preoccuparsi della disaffezione degli elettori, guardano solamente a quante sono le percentuali di coloro che ancora votano. In questo periodo gli operai sono diffidenti, e lo sono giustamente, perché nel corso di questi anni  gli  si  è  chiesto  di  sacrificarsi  per  il  bene  del  Paese.  Loro  hanno  pagato  quei  sacrifici  e  questo  ha  significato  molto  spesso  non  salvare  né  loro  né  il  Paese che nel frattempo ha perso un asset fondamentale per sedersi fra i Paesi del G7, cioè l’industria. In questo  momento  i  metalmeccanici,  ma  anche  tutti  i  lavoratori, hanno fatto di necessità virtù perché sono stati lasciati soli. I partiti popolari usciti dalla Seconda guerra mondiale avevano i lavoratori come interlocutori e non solo le imprese. Oggi dobbiamo recuperare quel rapporto, tornando a discutere dei problemi veri dei cittadini e dei lavoratori.”

Il primo Maggio, questo, lo ricordiamo con forza!

Donato Lamacchia

Reddito di cittadinanza e chiacchiere stupide. di J. Nannini

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Il reddito di cittadinanza avrà numerosi difetti nella formulazione legislativa e nella sua materiale applicazione amministrativa, ma il tono e i presupposti con cui lo si attacca alla radice non devono far parte della cultura di nessuno che si definisce socialista , democratico, di centro-sinistra…

Una democrazia compiuta non ha soltanto il compito di garantire il lavoro, le cui condizioni storiche sono mutate ( e chi lo nega non ha idea del Paese in cui vive), ma ha il dovere di evitare che che ogni essere umano, occupato disoccupato o inoccupabile, viva nella povertà e nella miseria.

Proposte di “mettere a lavorare chi prende i soldi e sta sto divano ” e tutta quella retorica cancerogena che ha attaccato anche una parte di sinistra parte da un latente sentimento : coltivare i sensi di colpa di chi è in difficoltà .

Per ogni “furbetto” che ruba il RDC ci sono 1000 famiglie che mettono il piatto in tavola e questo è un fallimento dell’apparato amministrativo, non dei percettori .

Infine un’ultima cosa , la più evidente e fastidiosa. Una riposta a chi si chiede se è giusto che un percettore di reddito di cittadinanza prenda solo 200 euro in meno ad un lavoratore che si rompe le ossa : ciò che è ingiusto non è prendere un sussidio senza far niente, ma che in questo Paese si lavori come bestie per 1000 euro al mese e senza tutele, con salari bloccati da 30 anni e un impoverimento disumano della classe lavoratrice e delle nuove generazioni

Alziamo i salari che sono da fame , non coltiviamo i sensi di colpa in un Paese sempre più povero in cui ogni minima forma di proprietà e benessere per chi è in difficoltà viene travolta da reazionarie pretese di economisti fasulli.

A sinistra , tra i socialisti e i democratici, abbiamo il dovere di combattere la povertà e alcune forme di ricchezza ingiusta, non il benessere di chi lavora e di chi è affamato .

Jacopo Nannini

Fascisti sulla Terra. di G. Polo

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Sono partiti in duemila da piazza del Popolo a Corso d’Italia. Camminando con calma, in corteo, alla testa Roberto Fiore e Giuliano Castellino, i capi di Forza Nuova. Fascisti pregiudicati. Nessuno li ha fermati. In mezz’ora sono arrivati alla sede nazionale della Cgil – passando accanto a un paio di blindati delle forze dell’ordine – hanno sfondato le porte del sindacato, iniziando a rompere tutto. Un manipolo di carabinieri li guardava, lasciando fare. Coerenti con il motto del “noi tireremo dritto” hanno imboccato il corridoio di fronte all’ingresso, sono entrati nelle stanze dei redattori della casa editrice sindacale e hanno fatto l’unica cosa che sanno fare e che hanno sempre fatto, cent’anni fa come oggi: sfasciare ogni cosa, computer e scaffali, libri e quadri, scrivanie e sedie, trasformando il lavoro in macerie. Dalla Questura, nessuna reazione. Qualcuno è salito al quarto piano, voleva bruciare la porta dell’ufficio di Maurizio Landini. Un poliziotto infiltrato tra loro li ha convinti a lasciar perdere. Dopo quaranta minuti sono usciti, imboccando la strada per Palazzo Chigi con l’intenzione di farne una romana Capitol Hill. Lì sono stati fermati. A fatica, con i Palazzi del potere sotto assedio. Dicono che il centro della città era troppo intasato per permettere alla polizia d’intervenire rapidamente. Loro, invece, si sono mossi senza problemi. E nemmeno correndo, per ore. Forse Salvini qualche eredità al Viminale l’ha lasciata. Gridavano “libertà, libertà”, ed erano migliaia. I fascisti in testa, gli altri dietro. Gli “altri” chi? “Noi siamo il popolo”, scandivano. E certamente un pezzo di popolo sono. Quello che concepisce la libertà come una proprietà personale, di cui non deve rispondere a nessuno; soprattutto, di chi non la coniuga con la responsabilità, con il dovere di vivere insieme agli altri: “mi faccio gli affari miei”, nessuna interferenza. Egoismo assoluto. Radicato nella storia italiana dei sudditi mai cittadini, stimolato dal plebiscitarismo, eccitato dal sospetto per tutto ciò che è estraneo o che turba la “comunità degli atomi solitari”, un forestiero come un vaccino. La natura profonda della destra. In “basso” è la paura di perdersi negli altri cui si reagisce cercando di spaventare tutti gli altri. In “alto” è la demagogia populista o lo squadrismo fascista che trovano consenso e rappresentanza. In “mezzo” il lavoro come luogo dello scontro, perché è lì che si definisce la cittadinanza, anche dei tanti lavoratori che non si vogliono vaccinare.Ed è su questo che ci si batte, su questo si gioca la Costituzione, materiale e formale. Non un retorico dibattito sui “nostalgici”: la discrimine non è essere figli o meno del Ventennio, il punto di demarcazione è il fascismo di oggi. Quello in idee e azioni, in carne e ossa.

Gabriele Polo

pubblicato su Ytali.com