debito pubblico
Vittoria? di S. Bagnasco
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Considero positivo, nonostante le criticità, l’accordo raggiunto in Europa sul cosiddetto Recovery Fund, ma non trovo ci sia nulla da esultare, al punto di sproloquiare di vincitori.
Se ci sono dei vincitori vuol dire che ci sono degli sconfitti e questo in ogni caso non va bene in una comunità sovranazionale.
Più produttivo sarebbe tentare di comprendere in cosa consiste l’intervento europeo.
Nessuno ci regala 209 miliardi di euro; stiamo parlando sostanzialmente di debito che andrà restituito e in più sottoposto a condizioni e gradimento del Consiglio europeo.
Le condizioni poste coincidono con le raccomandazioni fatte all’Italia, che da tempo sono viste con sdegno da buona parte del mondo politico italiano, e con gli obiettivi che l’UE si è data (transizione verde e digitalizzazione).
Le raccomandazioni che ci riguardano direttamente sono: riforma del fisco, riforma del lavoro, riforma della giustizia, riduzione del debito e a questo scopo andranno indirizzate tutte le entrate straordinarie, taglio strutturale della spesa pubblica pari a 0,6% del PIL.
Ciascun Paese presenterà entro l’autunno un piano triennale (2021-2023) che, una volta approvato dalla Commissione e dal Consiglio europeo, diventerà esecutivo ma dovrà soddisfare i target intermedi e finali. Il Comitato economico e finanziario verificherà questi target e se in questa sede qualche Paese riterrà che ci siano problemi, potrà chiedere che il Consiglio europeo deliberi la sospensione dell’erogazione dei finanziamenti.
Il piano approvato consentirà di ricevere il 70% dei fondi nel biennio 2021-2022 e il 30% l’anno successivo. L’Italia, dunque, dovrebbe ricevere 146 miliardi nei prossimi due anni e 63 nel 2023, ma attenzione perché il piano è sottoposto a revisione nel 2022, prima della ripartizione della tranche relativa al 2023. Su questi fondi potremo ricevere una anticipazione pari al 10% già a fine anno, diversamente bisognerà attendere con molta probabilità la primavera 2021.
In confronto le condizioni per l’utilizzo del fondo Mes destinato alle spese sanitarie dirette e indirette sono una passeggiata in riva al mare.
Perché si esulta per un prestito condizionato che si chiama Recovery Fund e si ostinano a dire no al prestito immediatamente disponibile rappresentato dal fondo Mes per le spese sanitarie?
In definitiva, si tratta di prestiti con condizionalità minori con il fondo Mes, maggiori con il Recovery.
Quando qualcuno, a partire da Conte, spiegherà perché bisogna esultare per il condizionato prestito del Recovery e stare alla larga dal poco condizionato fondo Mes … allora si potrà cominciare a discutere seriamente, chiudendo la stagione dell’infantilismo politico.
Pioveranno sull’Italia 209 miliardi di euro di cui 81,4 a fondo perduto? Abbiamo vinto la lotteria?
Le cose non stanno esattamente in questi termini.
I cosiddetti aiuti a fondo perduto sono in realtà quasi tutti prestiti; perché questi fondi arrivano dall’emissione di bond da parte della Commissione europea che aumenterà il bilancio dell’Unione Europea messo a garanzia.
Ogni Paese contribuisce pro quota al bilancio dell’UE e con certezza al momento sappiamo che circa 55 miliardi di questi 81,4, erroneamente definiti a “fondo perduto”, dovranno essere restituiti a partire dal 2027. Tutti i prestiti dovranno essere in ogni caso restituiti entro il 2058.
In definitiva, di prestiti stiamo parlando e realisticamente non potrebbe essere diversamente poiché l’UE vive con le contribuzioni dei Paesi membri e se si finanzia sui mercati a sua volta deve rimborsare quanto raccolto.
La cosa vera d cui dovremmo esultare è che per la prima volta i Paesi UE hanno deciso di sottoscrivere un debito comune e abbiamo così l’opportunità di rimettere in piedi il Paese senza ricorrere direttamente ai mercati finanziari facendo lievitare i già stratosferici interessi.
Una opportunità che spetterà a noi saper cogliere.
A questo punto, due considerazioni dal mio punto di vista non secondarie.
Questa “vittoria” è stata comprata svincolando di fatto gli aiuti finanziari dal rispetto dello “stato di diritto” e dei principi fondativi dell’UE, con grande soddisfazione soprattutto di Ungheria e Polonia.
Con questo accordo è altamente probabile che il quantitative easing, di cui l’Italia è il primo beneficiario, non sarà rinnovato e questo deve indurci a grande cautela perché se non operiamo con equilibrio tra assistenza, rilancio dell’economia e risanamento della macchina statale, rischiamo di far schizzare lo spread e di conseguenza i tassi di interesse.
L’altro punto da tenere presente è che adesso in nome della pandemia è stato abbandonato il cosiddetto “capital key”, vale a dire la regola secondo cui la BCE può acquistare titoli dei paesi membri rispettando le quote di partecipazione di ogni Paese al capitale della BCE. Se dovesse essere ripristinato questo principio, l’Italia perderebbe un vantaggio di cui sinora ha goduto.
Si tenga infine presente che la contribuzione di ogni Paese alla BCE è in relazione a due parametri: popolazione e PIL. Anche il bilancio dell’UE è basato per il 70% sulle contribuzioni di ciascun paese con riferimento alla quota di PIL nazionale sulla somma dei PIL dei paesi membri.
Ne consegue che un cittadino lussemburghese contribuisce in misura doppia rispetto a un cittadino italiano; anche un cittadino olandese, finlandese e austriaco contribuisce più di un italiano. Quindi, finiamola di stupirci per la giusta attenzione che questi Paesi hanno per l’utilizzo dei soldi europei.
Abbiamo una grande opportunità, ma non parliamo di vittoria perché la partita deve ancora iniziare e la vera vittoria ci sarà quando ci metteremo alle spalle atavici comportamenti.
Non trasformiamo una non-vittoria in una vera e pesante sconfitta.
Sergio Bagnasco
Cara sinistra non è sufficiente Keynes ma ci vuole Marx. di S. Valentini
Si riduce spesso la globalizzazione al commercio su scala planetaria di prodotti industriali, agricoli, materie prime e beni legati alle nuove tecnologie. Spesso si scorda l’altro aspetto fondamentale della globalizzazione: la moneta, divenuta essa stessa merce, da acquistare e vendere, e non più solo strumento di scambio delle merci e beni. Questo “commercio” oggi costituisce un mercato otto volte più grande rispetto ai mercati legati alla ricchezza prodotta da ogni singolo paese. Si è creata una gigantesca bolla finanziaria, moneta volatile il cui valore è determinato da oligarchie che ne stabiliscono la quotazione. Una enorme massa di denaro che si sposta rapidamente tramite Internet. Siamo ormai alle cripto-valute, cioè ha una moneta non emessa da uno Stato, ai credit default, allo swap, allo spread, ai paradisi fiscali, ecc. Tutto questo ha devastanti effetti su interi Paesi. Se i rendimenti dei titoli di Stato salgono troppo per i governi diventa difficile o addirittura impossibile rifinanziare il proprio debito. E se i governi non riescono più a collocare titoli di Stato, vanno in default perché non possono più rimborsare i debiti in scadenza. Se i titoli in Borsa precipitano, il problema diviene molto serio per le imprese e di conseguenza il paese perde ricchezza: i consumi calano, le imprese fatturano meno e dunque di conseguenza licenziano.
Le borse non sono più espressione di economie reali. Gli Usa sono attraversati con il corona virus da una profonda crisi economica e sociale ma Wall Street si mantiene stabile, addirittura spesso chiude in positivo. Un’analisi tramite gli strumenti della dottrina economica novecentesca non aiuta a comprendere la situazione. I mercati finanziari si muovono ormai indipendentemente dall’andamento dell’economia reale. Ma i mercati finanziari non sono delle entità sconosciute, astratte o “gli investitori che valutano”, ma dei ristrettissimi gruppi di potere, legati a una potenza imperialistica, che conducono operazioni speculative aumentando a dismisura le loro ingenti rendite e profitti a discapito dell’economia reale, cioè della produzione e del commercio.
Il capitale finanziario dunque con l’acquisto e la vendita di valuta sempre più volatile si insinua nell’economia reale fino a controllarla. Per questo attraverso tanti meccanismi condiziona pesantemente il mondo reale. E chi soprattutto ne fa le spese di questa “globalizzazione finanziaria” sono i paesi emergenti di nuova industrializzazione la cui economia si rifà al tradizionale capitalismo industriale o quei paesi dell’Occidente, come quelli dell’area mediterranea, che hanno fragilità economiche e sociali storiche, la cui borghesia capitalistica è sempre stata ancella e stracciona delle grandi potenze imperialistiche. Ma pur se servile sotto la protezione di questi potentati si è arricchita.
La stessa nozione di imperialismo pertanto deve essere aggiornata. L’imperialismo è mutato poiché è mutata la forma del capitale, che non è più in Occidente quello della fase industriale studiata da Marx e del capitalismo monopolistico di Stato analizzato da Lenin. Non siamo insomma più né al tradizionale neocolonialismo né a una forma di imperialismo solo predatorio delle risorse e materie prime di altri paesi. Oggi una parte sempre più importante dello sfruttamento e della rapina imperialistica avviene attraverso i meccanismi di mercato del capitale finanziario.
Il primo significativo passo della formazione di un mercato finanziario del tutto autonomo dall’economia reale è stato la messa in discussione degli accordi di Bretton Woods nel 1971 da parte dell’amministrazione Nixon. Il sistema monetario globale siglato nel 1944 prevedeva la convertibilità del dollaro in oro. Alla conferenza di Bretton Woods collaborarono i più autorevoli economisti dell’epoca. Keynes fu uno degli artefici degli accordi. Si fissò un valore di conversione tra oro e dollaro in modo da stabilizzare il sistema: disincentivare le speculazioni impedendo gli eccessivi movimenti di capitali al fine di evitare altre crisi sistemiche simili a quella del ’29. In pratica possedere un dollaro significava possedere oro. Alla conferenza aderirono molti paesi, anche quelli poveri e i cosiddetti paesi in via di sviluppo. Le banche centrali di ciascun paese erano tenute ad intervenire per mantenere le parità stabilite. La convertibilità oro dollaro impediva agli Stati Uniti e a ogni paese di creare moneta a proprio piacimento, per farlo dovevano possedere oro in proporzione alla nuova moneta emessa.
La decisione di Nixon di mettere in discussione gli accordi di Bretton Woods fu presa per finanziare la guerra del Vietnam. Gli americani bruciarono 12 mila tonnellate d’oro con grave rischio per le riserve auree. Fu così che fu abbandonata la corrispondenza oro-dollaro passando alla politica di stampare moneta senza vincoli allo scopo di finanziare la guerra in Indocina. Il sistema valutario da organizzato e sicuro per il capitalismo iniziò a trasformarsi in un sistema senza certezze, con un dollaro sempre più volatile. Oltre ai cambi fissi, gli accordi istituirono il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale, enti a cui fu affidato il compito di vigilare sul sistema monetario e concedere prestiti ai paesi in disavanzo.
La messa in discussione della convertibilità fra oro e dollaro rappresenta quindi la prima principale causa che ha condotto alle crisi finanziarie dei nostri tempi. Le libere fluttuazioni valutarie, la fine del riferimento aureo del dollaro hanno determinato un mercato valutario e finanziario senza limiti, senza vincoli e senza regole. Un mercato dove l’unica legge è quella del massimo profitto. La fine di Bretton Woods ha segnato l’inizio di un periodo di grande instabilità valutaria, di mostruose speculazioni finanziarie.
Il secondo decisivo passaggio è avvenuto nel 1995 con la nascita dell’Organizzazione mondiale del commercio, Wto, che ha assunto il ruolo precedentemente svolto dal Gatt. Il Wto promuove la liberalizzazione commerciale e la libera circolazione dei capitali in tutto il mondo prescindendo dalle ricadute occupazionali. L’obiettivo dichiarato del Wto è quindi quello dell’abolizione o della riduzione delle barriere tariffarie al commercio internazionale. Tutti i paesi membri sono tenuti a garantire verso gli altri membri dell’organizzazione lo “status” di “nazione più favorita”. Le condizioni applicate al paese più favorito (vale a dire quello cui vengono applicate il minor numero di restrizioni) sono applicate a tutti gli altri Stati.
Molte sono le critiche al Wto. Le più importanti: la prima che è una organizzazione settoriale che pone attenzione solo agli aspetti commerciali ed è indifferente e insensibile alle tematiche ambientali; la seconda è che promuove la globalizzazione dell’economia, la liberalizzazione commerciale, la libera circolazione dei capitali in tutto il mondo senza considerare le ricadute occupazionali; infine la terza è che gli Stati del Nord del mondo, cioè gli Stati occidentali e imperialistici, privilegiano le proprie multinazionali e i propri interessi nazionali invece di promuovere lo sviluppo su scala mondiale. A conferma dello squilibrio di potere che il Wto determina tra gli stati membri dell’organizzazione, sta il fatto che la liberalizzazione del commercio dei prodotti agricoli ha favorito soprattutto le produzioni commerciabili degli Stati nel Sud del mondo e non viceversa, in quanto le derrate del Sud rimangono tagliate fuori dai mercati settentrionali. Non a caso il processo decisionale dell’organizzazione è dominato dai “tre grandi” poli imperialistici: Stati Uniti, Unione europea e Giappone, accusati di utilizzare il Wto per esercitare un eccessivo potere sugli stati membri più deboli che sono obbligati a ratificare le convenzioni sottoscritte dal Consiglio generale, pena l’applicazione di sanzioni e l’imposizione dell’obbligo di recepire gli accordi. Prima l’ingresso della Russia, avvenuto nel 2011, e successivamente di un gigante economico come la Cina ha modificato in parte i rapporti di forza.
Da qui anche la guerra dei dazi di Trump: tentare di riacquistare quel ruolo predominante messo oggi in discussione dal colosso cinese e dalle contraddizioni inter imperialistiche ormai insanabili e che gli Usa non riescono più a governare. A tale proposito occorre dire che l’ascesa economica della Cina negli ultimi trent’anni è stata sottovalutata. L’Occidente ha sempre avuto l’idea che potesse esserci un modello unico e che potesse esserci un modello diverso che aveva successo non rientrava negli schemi del pensiero unico dominante. L’autorevolissimo Economist dava per finita la Cina nel 1990, mentre tardivamente ci si è accorti che sta diventando la più grande potenza economica del mondo. Se si mette a confronto il modello Occidentale liberale con il modello cinese, in quest’ultimo l’equilibrio fra Stato e mercato è profondamente diverso. In Occidente è il mercato del capitale finanziario che regola lo Stato mentre i cinesi hanno mantenuto la prerogativa che sia lo Stato ad avere la capacità di guida dei processi economici. Il modello cinese è stato considerato anomalo e perdente, prossimo al crash, invece ha funzionato e ha consentito al paese di avere una crescita straordinaria che non ha uguali nella storia della umanità. La Cina alla fine degli anni ottanta rappresentava il 2% del Pil del mondo, nel frattempo il Pil è cresciuto quattro volte, ed ora la Cina rappresenta il 20 %. È cresciuta da 2 a 80 ed è una cosa che non ha precedenti! La parte più miope della cultura occidentale considera la Cina come una variante del modello sovietico. Questa è una lettura superficiale perché non tiene conto della storia cinese e di quanto il marxismo cinese si sia ibridato con il confucianesimo. Di fatto il sistema cinese ha delle flessibilità che il modello sovietico non aveva. Il modello sovietico era poco duttile e quindi a un certo punto si è spezzato.
Certamente anche la Cina deve fare i conti con la pandemia e il rischio della deglobalizzazione poiché la sua economia è stata fortemente proiettata verso le esportazioni. Ma chi pensa che la Cina pagherà più di tutti il rallentamento del commercio mondiale non prende in esame che il paese sta cambiando. Negli ultimi anni, sotto la guida di Xi Jinping, sta avvenendo un mutamento radicale del tipo di sviluppo. La politiche dell’industrializzazione e dell’esportazioni hanno subito un netto ridimensionamento. La Cina oggi investe molto di più sulla innovazione e sulla ricerca, anziché soltanto sulla produzione di beni a basso valore aggiunto. È stata la fabbrica del mondo, ma oggi non è più così. Una parte di queste produzioni si sono trasferite in altri paesi asiatici, mentre i cinesi hanno investito sull’innovazione superando gli USA in produzione di brevetti. E poi hanno investito sul recupero ambientale, anche per avere più consenso interno e quindi meno inquinamento e hanno puntato sulla ricerca e hanno aumentato i salari. Ciò ha consentito al mercato interno di diventare, rispetto al passato, un volano più importante nel sostegno dell’economia e della crescita.
Quando affermo quindi la necessità di una “scelta di campo” a favore dell’asse Pechino-Mosca (come ho sostenuto in altri articoli) non penso alla riesumazione del vecchio campo socialista contro l’imperialismo statunitense, bensì a un campo scaturito dalla caotica fase multipolare, che è andata nell’ultimo ventennio affermandosi. Vi è una oggettiva convergenza tra paesi socialisti o di orientamento socialista, paesi con forme di capitalismo monopolistico di Stato, paesi capitalistici di nuova industrializzazione e paesi che lottano per uscire da una condizione di povertà assoluta, nel contrastare la volontà di dominio assoluto del capitale finanziario, espressione che contraddistingue l’Occidente e le sempre più aspre sue contraddizioni inter-imperialistiche.
In questo contesto meglio si comprende il ruolo di potenze come l’Iran e il Messico e altri paesi che non sono certamente campioni di democrazia o portatori di visioni socialiste. La battaglia storica dei cinesi, ma anche dei russi, non è contro la globalizzazione, cioè la libera circolazione di merci (e anche di manodopera), ma contro la “globalizzazione finanziaria” che produce un più sofisticato sfruttamento dei popoli, instabilità, corsa al riarmo e guerre. La distensione, la pace e la cooperazione sono alla base di questa politica che non attua odiose interferenze nella politica interna dei paesi loro alleati. Gli unici che si ergono gendarmi del mondo e hanno basi militari in ogni angolo del pianeta (anche perché gli altri poli imperialistici, giapponese e tedesco, non dispongono di arsenali militari) sono gli Usa. Non vi è una sola base militare cinese – mi risulta – fuori dal paese.
Se la sinistra europea non coglie questo nuovo aspetto geopolitico non va da nessuna parte, è destinata ad andare a rimorchio di altri, magari dietro a un rozzo atlantismo che si schiera sempre e comunque con gli Stati Uniti anche se sono governati da un presidente pericoloso e inquietante come Trump, o appresso alle intenzioni e ai sogni dei centri di potere franco-tedesco che vorrebbero un’Europa politicamente e militarmente autonoma in grado di competere in termini imperialistici con tutti, a Est come a Ovest. E non è sufficiente, come auspica D’Alema, che nel prossimo futuro si affermino di qua e al di là dell’Atlantico forze liberaldemocratiche in grande sintonia tra loro per ricostruire un ordine mondiale dove l’Europa possa svolgere un ruolo decisivo.
È un’analisi politicistica poiché non affronta la questione vera: come imbrigliare e sconfiggere il capitale finanziario. Oggi tutto parlano (anche a sproposito) che dopo la sbornia neoliberista degli anni ’80 e ’90 con la pandemia si torna a Keynes, al protagonismo dello Stato. Il neoliberalismo ha fatto il suo tempo. Occorrono non politiche di rigore per contenere l’inflazione ma politiche di d’investimenti pubblici attraverso un nuovo protagonismo dello Stato. Ma se il neoliberalismo in politica è stato il quadro dentro il quale si è costruito il libero mercato della compravendita di moneta come merce oggi il problema non è tornare a Keynes e superare conseguentemente il neoliberalismo. Il punto è sempre il solito. Prendiamo ad esempio l’Italia: manca un prestatore di ultima istanza, che garantisca acquisti senza limiti dei titoli di Stato, contenendo l’aumento dei tassi d’interesse. L’Italia ha un debito di circa il 135% del Pil e paga interessi più alti rispetto a quelli tedeschi e olandesi che hanno un debito tra il 50 e 60% del Pil. Quindi, per fare più spesa pubblica bisogna emettere titoli di debito, aumentando il debito in percentuale del Pil. Si prevede che il debito italiano possa salire oltre al 150% del Pil. Dunque, in mancanza di un prestatore di ultima istanza, lo spread tra i titoli di Stato italiani e quelli tedeschi aumenterà e con esso la spesa per interessi, che rischia di creare problemi di sostenibilità molto gravi del debito. Il problema perciò è di come estirpare il capitale finanziario che del neoliberalismo è il figlio legittimo molto potente e può permettersi di essere pure un po’ meno rigorista del padre.
Keynes avanzava le sue proposte in un quadro capitalista nel pieno del suo sviluppo industriale. Siamo in questa fase in Occidente? Se gli Stati devono fare i conti con i rendimenti dei titoli di Stato e con il mercato finanziario, se non riescono a rifinanziare il proprio debito quali politiche di crescita e di sviluppo possono fare? Vanno comunque in default o in grande difficoltà, nonostante le buone intenzioni riformiste. La lotta contro il capitale finanziario e le sue espressioni imperialistiche non è questione nazionale e solo in certa misura è europea: è questione globale. La “scelta di campo” non è una scelta ideologica ma una precisa scelta politica per fronteggiare il ruolo deleterio e inumano del capitale nella sua forma più devastante: quella finanziaria. Non si tratta dunque di imitare modelli altrui, di fare come la Cina o come la Russia, bensì di costruire un largo e vincente schieramento di forza e di paesi alternativo al capitale finanziario. Questa è la posta in gioco in questo squarcio del XXI secolo. Ecco perché Keynes non è sufficienti ma occorre tornare a Marx lottando per la realizzazione di strumenti internazionali alternativi (ed è quello che stanno facendo i cinesi), iniziando a riportare i sistemi bancari sotto il controllo pubblico, a smantellare i paradisi fiscali, a creare istituzioni internazionali che non siano, come il Fondo monetario internazionale o la Banca mondiale, organismi che rispondano ai mercati finanziari, ma all’economia reale. Occorre insomma introdurre “elementi di socialismo” e per dirla con Berlinguer, di cui ricorre l’anniversario della nascita, lavorare per “un nuovo ordine mondiale”.
Riscoprire inoltre lo strumento della programmazione democratica, concetto considerato vetusto, in disuso. Lo Stato dovrebbe entrare nella produzione di beni e servizi, anche in settori dove ci sono i privati. Ma soprattutto ci sarebbe bisogno di una pianificazione dell’economia e, più precisamente, di una produzione sociale. Dare pertanto un senso progressista alla programmazione come faceva il Pci. Però è evidente che questo non è possibile in una economia basata sul dominio del capitale finanziario. Richiede il ribaltamento del paradigma del libero mercato. Tutto ciò dimostra la totale inadeguatezza dell’attuale forma di mutazione del capitale insensibile a soddisfare i bisogni sociali, anche quelli più elementari, come la sicurezza sanitaria. Ecco, di nuovo, non è sufficiente Keynes, ma ci vuole Marx.
Occorrerebbe rilanciare una programmazione promossa e coordinata dallo Stato solo così le politiche riformiste alla Keynes hanno un senso per diventare parte del processo di trasformazione della società, per lottare contro le abnormi diseguaglianze, per un modello di sviluppo ecocompatibile, per tendere alla piena occupazione, per un welfare più robusto e qualificato. Ma se il pubblico non espropria il capitale finanziario del suo immenso potere, se le rendite finanziarie non vengono mortalmente colpite in una lotta senza quartiere, qualsiasi prospettiva riformista è destinata al fallimento. L’Unione europea è in grado di ricostruirsi prendendo questa direzione, cioè di mettere al bando le oligarchie finanziarie? E la sinistra che fa?
La “scelta di campo” implica anche un riposizionamento e un riavvicinamento della sinistra europea alla sinistra del resto del mondo. Il divario è oggi grande, profondo. Ricuperare il valore politico dell’internazionalismo favorisce la crescita di un vasto schieramento di forze e di paesi e soprattutto rafforza il ruolo della stessa sinistra europea, troppo timida e molto poco incisiva. Una “scelta di campo” che potrebbe nuovamente farle svolgere un peso di primo piano a livello universale, come quando Marx e Engels scrissero “uno spettro si aggira per l’Europa” come memorabile inizio del loro Manifesto. Uno spettro dunque che preoccupi davvero il capitale finanziario e non dei zombi sopravvissuti al Novecento.
PS.
Le riflessioni contenute in questo articolo non hanno niente a che fare con il vecchio e ozioso dibattito che negli anni passati ha attraversato la sinistra sui margini di riformismo di un sistema neoliberista. La risposta negativa (cioè che non vi erano margini) era tesa a negare qualsiasi accordo di governo con forza riformiste, progressiste e socialdemocratiche. Eravamo dunque in un’altra fase, quella unipolare dominata dagli Usa dopo l’89, in cui la sinistra doveva condurre una battaglia difensiva e modulare la sua azione politica in base ai rapporti di forza dati. Oggi la situazione è molto diversa, siamo in un mondo multipolare con un “campo”, quello cinese-russo, di cui la sinistra mondiale è parte integrante. Il confronto quindi avviene in termini del tutto inediti. Superare l’attuale mutazione del capitale in capitale finanziario è il primo e fondamentale compito della sinistra. È in atto uno scontro durissimo in cui anche la sinistra europea dovrebbe dire la sua. Vi sono forze liberaldemocratiche legate a una parte delle borghesie nazionali che vorrebbero in Europa svincolarsi dal dominio del capitale finanziario. In questa contraddizione tentiamo di inerirci e dire la nostra o ci proclamiamo estranei a tutto ciò in nome di ideologismi di diverse tendenze: marxista-leninista, movimentista e radicale erede del ‘68 o come risultato di visioni espressione dei cosiddetti nuovi soggetti antagonisti che molto spesso però strizzano l’occhio alle correnti socialdemocratiche più avanzate o a quelle ambientaliste? O a chi semplicemente è orfano della “democrazia dell’alternanza”? Possibile che alcune timide aperture a un dialogo costruttivo con la Cina le fanno i soli Di Maio e D’Alema? Di che cosa si discute a sinistra? Nulla di veramente importante, di strategico.
Sandro Valentini
Il paradosso di Keynes. di A. Angeli
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Non siamo ancora alla catastrofe, e tuttavia i segnali sono evidenti e incontrovertibili. Tutti gli indici economici sono al negativo e sicuramente nella immediata prospettiva, senza l’aiuto dell’Europa, con la quale dobbiamo trattare e concludere un accordo, ci troveremmo al default economico e sociale e nel breve volgere di tempo, costretti ad accettare un’austerity pesantissima o usciere dall’Europa, con tutte le immaginabili conseguenze sociali alle quali seguirebbero sicuramente ricadute sulla tenuta democratica del paese. Due dati: quello della disoccupazione e a seguire della domanda aggregata, scandiscono il tempo di questa crisi alla quale il governo può sopperire indebitandosi oltre ogni immaginazione, senza indugiare su MES si o MES no, una volta accertata la caduta di ogni condizionalità. D’altro canto, la crisi epidemica ha scansioni temporali di diffusione non coincidenti con le necessità del paese di riavviare la macchina produttiva, e l’esperienza vissuta in questi sessanta giorni di lockdown ha spinto il paese ad adottare difese che hanno inciso fortemente su tutti i settori della produzione e quindi nella formazione della ricchezza.
Tuttavia, ora si tratta di ripartire e puntare alla ripresa, allo sviluppo della produzione e alla creazione della ricchezza, dentro un disegno e un progetto di sviluppo che porti il paese nella modernità, nella green economy, nella digitalizzazione, nei nuovi processi informatizzati, insomma nella società dei Big data. Le condizioni ci sono tutte. Infatti, una volta superata l’epidemia, sarà come se il paese dovesse ripartire da zero. Spetta quindi al governo dimostrare intelligenza e lungimiranza, proprio ora che l’Europa ha accantonato molti vincoli, deliberato sostegni finanziari di diverso tipo e natura, e sembra orienta ad adottare i recovey bond, dopo che sarà costituito il recovey fund; spetta, quindi, al governo e alle forze di maggioranza dare prova di volontà, di lucidità, di coerenza.
Tuttavia non dobbiamo nasconderci che ci sono ostacoli non indifferenti a trovare tutte le risorse necessarie, questo perché il governo non ha messo a punto alcun progetto sia per la parte che riguarda la linea di sviluppo che intende seguire per la difesa delle aziende fondamentali e delicate per lo sviluppo del paese, che per quantificare lo stock di risorse finanziarie delle quali indicare presuntivamente il fabbisogno al fine di costruire un quadro macroeconomico affidabile e perseguibile. Nel frattempo ci sarà l’imperativo categorico del lavoro che manca e della necessaria riorganizzazione del welfare, puntando convintamente al superamento della povertà, della precarietà, del lavoro nero o sottopagato, anche inventando un nuovo sistema di redistribuzione della ricchezza. Magari anche rivedendo gli astrusi strumenti finora messi in campo ( quota cento, reddito cittadinanza, e tanto altro ) senza un significativo ritorno di risultati sul fronte del lavoro e della diminuzione della povertà. Certo, questa non è la classica congiuntura economica, che si caratterizza per mancanza d’investimenti e disoccupazione. E’ qualcosa di più e, per l’ordine di grandezza del disastro economico, è di più difficile.
Per questo un breve richiamo a Keynes, il quale aveva ben presente che, in antitesi a quanto ritenuto dai teorici a lui precedenti, la situazione d’insufficienza della domanda è un duraturo fenomeno di squilibrio tra risparmi e investimenti (pensiamo alle enormi disparità di reddito e all’abbondanza di ricchezza privata, pari questa a quattro volte il debito pubblico). Nella Teoria generale del 1936, scriveva: Se il Tesoro si mettesse a riempire di biglietti di banca vecchie bottiglie, le sotterrasse ad una profondità adatta in miniere di carbone abbandonate, e queste fossero riempite poi fino alla superficie con i rifiuti della città, e si lasciasse all’iniziativa privata… di scavar fuori di nuovo i biglietti…, non dovrebbe più esistere disoccupazione e, tenendo conto degli effetti secondari, il reddito reale e anche la ricchezza in capitale della collettività diverrebbero probabilmente assai maggiori di quanto sono attualmente”. Insomma, anche scavare buche, per poi riempirle, potrebbe essere di stimolo alla ripresa. Uscendo dalla metafora, si pensi alle difficoltà per la nostra agricoltura, la quale presto si troverà a fare i conti con la mancanza di manodopera per provvedere ai raccolti; si pensi alla formazione dei lavoratori, alla quale il paese dovrà ricorre nel breve tempo e che sarà giocoforza determinata dalla fase post covid19: trasporti, scuola, luoghi di lavoro, servizi, commercio, industrie, poiché il nuovo paradigma del lavoro sarà il distanziamento, la protezione, la salvaguardia della salute. E ciò comporterà una rivalutazione delle condizioni di lavoro e degli stessi processi, delle stesse procedure, del modello organizzativo. Ecco, scavare buche per poi riempirle ci serve per capire che nessuno deve essere di peso, che il momento nel quale tutti siamo chiamati a dare il nostro contributo e a fare la nostra parte è ora. Altrimenti, nella buca, ci cadremo tutti.
Alberto Angeli