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L’Afghanistan, una dura lezione per l’arroganza occidentale. di A. Angeli

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Il 15 agosto del 1971, con una dichiarazione del Presidente USA Richard Nixon finì il regime dei cambi fissi di Bretton Woods  mettendo fine alla convertibilità del dollaro in oro. 15 agosto 2021 Kabul viene occupata dai Talebani costringendo ad una fuga umiliante Ashraf Ghani Presidente dell’Afghanistan e quanto rimaneva delle rappresentanze delle forze di occupazione internazionali. Mentre i civili, gli addetti alle ambasciate e quanti hanno collaborato con le forze occidentali, le ONG, e i rappresentanti dei media vivono un avvilente e struggente situazione in attesa di potersi imbarcare su un aereo per la fuga da un Paese ormai nelle mani dei nemici giurati: i Talebani. Qualcuno si chiederà: ma sono due avvenimenti distinti e distanti? La lezione della storia è molto chiara: gli americani non sono fatti per occupare i paesi feudali  di mezzo mondo, come non erano nella condizione di rispettare gli accordi Bretton Woods e  decise di uccidere il sistema dei cambi fissi decidendo di sospendere la convertibilità del dollaro in oro. Anche gli inglesi molto tempo fa dovettero affrontare la follia dell’invasione dei paesi sotto sviluppati, correva l’anno 1842 quando circa 17.000 soldati, mogli e servitori dell’esercito britannico e indiano furono uccisi mentre cercavano di ritirarsi attraverso le montagne innevate verso Jalalabad.

L’idea che i Paesi occidentali,  con la loro rappresentanza di super potenza, cioè gli USA, avrebbero trasformato l’Iraq e l’Afghanistan in una democrazia jeffersoniana si è rilevato un arrogante errore di calcolo, guidato da macho hybris, non dalla sicurezza nazionale. Se per puro caso della storia gli americani e i suoi soci internazionali avessero potuto rimanere in Afghanistan per un secolo – mantenendo in vita i burattini corrotti e ladroni, dando ascolto ai generali USA e ai comandanti dei 300.000 mila soldati Afghani scioltisi come la neve al sole, che hanno sempre mentito impegnando e sprecando trilioni –  beh da oggi non potranno più farlo. Intanto è prioritario impegnare tutti i mezzi necessari per non lasciare le decine di migliaia di afghani che ci hanno aiutato alla tenera misericordia dei talebani. E dare ascolto al rapporto delle Nazioni Unite che ci ricorda il vero volto dei talebani, che stanno dando la caccia a quanti hanno  lavoravato con l’America o la NATO, così come le loro famiglie, e minacciano di ucciderle.

Oggi scopriamo ( invero, lo avevamo già scoperto con Saigon, prima ancora con la Corea ) che il più grande esercito della terra dipende dalla “diplomazia  e dal dialogo aperto con i talebani”,, per salvare le persone che hanno rischiato la vita per gli USA e la NATO.  Non hanno ispirato fiducia  quanti si sono alternati nelle conferenze stampa da Biden alla Merkel, da Di Maio a Johson e gli altri soci,  che sono andate  in onda anche quando alcuni afgani dell’esercito hanno lasciato il loro paese a bordo di aerei americani e i talebani hanno sequestrato armi, elicotteri e camion americani lasciati in dono dall’esercito americano in fuga. Donald Trump avrebbe potuto rendere ( pretendere ) il passaggio più sicuro e ordinato  con quanto da lui negoziato. Il suo “accordo di resa” del 2020, come lo ha definito il suo ex consigliere per la sicurezza nazionale HR McMaster in un’intervista con Bari Weiss, nascondeva proprio questa umiliante fuga di una grande potenza. Eppure, nei lunghi quattro anni di Presidenza abbiamo scoperto come Trump sia un terribile negoziatore. Biden avrebbe potuto muoversi con più competenza e dire ai talebani che non stava rispettando l’accordo fatalmente imperfetto di Trump e rinegoziarlo per evitare questa disgraziata improvvidenza che travolge la vita di migliaia di famiglie e di giovani Afghani. Ma  sia Trump che Biden erano così impazienti di andarsene, che i loro pasticci si sono fusi in una burocrazia strangolante.

Il Dipartimento di Stato ha indugiato per mesi nell’ottenere i visti per gli alleati afghani e, mentre i talebani occupavano città, paesi e capoluoghi di provincia, ha trascurato la pianificazione di emergenza per una possibile evacuazione. Tuttavia, fa rabbia assistere alle parate dei nostri politici responsabili in qualche modo di questo disastro, che si pavoneggiano davanti alle telecamere, o ascoltare i conduttori dei talk show  italiani o di altri paesi che ci “spiegano” i fatti e interpretano ciò che ognuno di noi, se non prevenuto o cieco è in grado di vedere, commentare e giudicare; e questo avviene ormai da oltre 20 anni, dall’Iraq all’Afghanistan. Eppure, ognuno di noi avrebbe dovuto immaginare che un 15 agosto prima o poi sarebbe venuto e che la storia, come ci invita a ricordare Marx, si ripete sempre due volte: la prima volta come tragedia, la seconda come farsa

Alberto Angeli

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La questione delle donne e il socialismo (Marx ed Engels). di A. Angeli

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Un linguaggio nuovo per il cambiamento. di A. Angeli «  caseperlasinistraunita

Un richiamo a Friedrich Engels e al suo contributo nel campo dell’analisi dei rapporti tra genere e classe, in particolare del rapporto tra donne lavoratrici e socialismo.

Il 14 marzo 1883 muore Karl Marx, lasciando nello sconforto l’amico e collaboratore Friedrich Engels, al quale rimaneva in eredità il ricco patrimonio di lettere e appunti rimasti incompiuti. Proprio mentre stava riordinando questa mole di documenti a casa di Marx trova una serie di appunti basati sulla lettura dell’opera dell’antropologo americano Lewis Henry Morgan, il cui ultimo libro, The Ancient Society, era stato pubblicato qualche anno prima. Dalle lettere emerse che tra i due c’era stato un fitto scambio su questo argomento, così Engels si propose di sistematizzare alcune idee in proposito. Utilizzando le note etnologiche di Marx, Engels sviluppa un’analisi storica e materialistica delle organizzazioni sociali, in particolare dei cambiamenti nelle forme di parentela, della famiglia patriarcale, dell’istituzione del matrimonio e della monogamia. Il suo libro “L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato”, fu pubblicato per la prima volta nel 1884 e da allora è stato considerato un’opera chiave per il femminismo socialista.

Engels aveva 24 anni quando fu pubblicato il saggio di Lewis, in cui veniva evidenziata l’oppressione che pesava sulla condizione delle donne lavoratrici in Inghilterra, un testo del 1845, che proseguiva affrontando la situazione della classe operaia Inglese, mettendo in evidenza la reale vita della classe operaia, le sue condizioni di lavoro, del sovraffollamento delle città e dei grandi disagi, che per il sociologo sono l’humus su cui fondare e far crescere le varie correnti socialiste, dal socialismo utopico al comunismo. Per Engels, questo testo, come chiarisce nell’edizione del 1892, costituisce un contributo su cui proseguire nella costruzione del suo lavoro teorico verso il socialismo scientifico, che proseguirà nel corso degli anni anche con l’aiuto di Marx. Il saggio di Engels offre una visione sconvolgente della società capitalista. Racconta lo shock che si prova entrando a Londra, risalendo il Tamigi. Il viaggiatore è affascinato dalla concentrazione urbana e dalle caratteristiche signorili degli edifici, dalle barche, tutti i segni di una fiorente civiltà. Una civiltà raggiunta a caro prezzo e con sacrifici inimmaginabili per gran parte della popolazione, a vantaggio di pochi. Il quadro offerto dall’analisi di Engele evidenzia le brutali disuguaglianze causate dal capitalismo, dove ogni “miracolo di civiltà” è costruito sull’oppressione di gran parte di questa stessa società, di chi non ha nulla, i proletari. Engels ci trasporta nei quartieri popolari, alla scoperta di strade sporche e strette, di case non riscaldate e di scarsità di cibo. Ed è allora che fa particolare riferimento alle donne lavoratrici, che sono la maggioranza nei laboratori tessili, che lavorano 10 o 12 ore al giorno come le loro compagne, ma ricevono salari più bassi, che in tempi di crisi sono le prime ad essere licenziate, e che quando tornano a casa devono occuparsi della cucina, delle pulizie e della cura dei bambini. E anche se ancora non troviamo qui una teorizzazione sul ruolo delle donne della classe operaia nella società capitalista, Engels insiste ripetutamente sul fenomeno sociale che colpisce in particolare le donne. L’ordine sociale capitalista, afferma, disintegra la famiglia della classe operaia, rendendo impossibili le sue condizioni di esistenza:

“Così l’ordine sociale fa quasi impossibile all’operaio e alla vita di famiglia; una casa inabitabile e sporca che è appena sufficiente per il rifugio notturno, male ammobiliata e spesso senza riparo dalla pioggia e non riscaldata, una atmosfera umida in una camera piena di persone, non permettono alcuna vita famigliare; l’uomo lavora tutto il giorno, forse anche la moglie e i ragazzi più vecchi e tutti in luoghi diversi; essi si vedono soltanto alla mattina ed alla sera, da qui le visite continue alle bettole; dove può esistere la vita di famiglia? Tuttavia l’operaio non può sfuggire alla famiglia, egli deve vivere nella famiglia e ne sono conseguenza le continue liti, le discordie che agiscono sui coniugi e specie pei ragazzi nel modo più demoralizzante”

Il saggio mostra come nelle fabbriche tessili lavorino donne di età compresa tra i 15 e i 20 anni, e anche un gran numero di bambini è impiegato in questi lavori. Engels fa notare che spesso le lavoratrici “tornano in fabbrica tre o quattro giorni dopo il parto” e durante le ore di riposo corrono dal lavoro alla casa per nutrire il neonato. Quando passano 12 o 13 ore nelle fabbriche, i bambini vengono lasciati alle cure di un membro della famiglia o di un vicino, oppure vanno in giro a piedi nudi. I luoghi di lavoro sono anche ambienti frequenti per gli abusi sessuali, dal momento che:“il servizio nelle fabbriche, come qualsiasi altro ed ancor più, riserva al padrone il jus primae noctis. Il fabbricante è anche in questo rapporto padrone del corpo e delle attrattive delle sue operaie”. Ecco perché, insiste Engels,“il lavoro delle donne in fabbrica disorganizza inevitabilmente la famiglia e quella disorganizzazione ha, nello stato attuale della società, che poggia sulla famiglia, le conseguenze più demoralizzanti, sia per i mariti che per i figli”.

Su questi temi Marx ed Engels ritornano con il saggio titolato la “ Sacra Famiglia” del 1845, in cui insistono sulla necessità di lottare per l’emancipazione delle donne, approfondendo l’analisi sull’origine storica dell’oppressione e una critica radicale della famiglia patriarcale. E’ questo testo che si ripropongono le idee del socialista utopico Fourier quando sostiene che “il progresso sociale e il cambiamento dei periodi sono operati in ragione diretta del progresso delle donne verso la libertà; e le decadenze dell’ordine sociale sono operati in ragione della diminuzione della libertà delle donne”. Molti socialisti utopici si erano già occupati nel corso degli anni dell’oppressione delle donne, escogitando alternative su come superarla. Nei testi e nei lavori di questi teorici erano state affrontate questioni come la necessità di socializzare il lavoro domestico, di porre fine alla monogamia e di sviluppare l’amore libero, alla necessità di riorganizzare l’architettura delle case unifamiliari, elaborando progetti per piccole società comunitarie. Queste indicazioni di lotta socialista, tuttavia, erano diffusi, come parte di un socialismo pre-scientifico; non dicevano chiaramente né come raggiungere questi obiettivi, né quale forza sociale potesse realizzarli. Le esperienze delle comuni oweniane negli Stati Uniti non ebbero successo, anche se, come ha sottolineato Engels in un’opera successiva, con i loro scritti i socialisti utopici hanno gettato i semi per immaginare la futura società comunista. Anche nel Manifesto comunista Marx ed Engels ripropongono l’idea che sia il capitalismo a distruggere i tradizionali legami familiari della classe operaia, incorporando massicciamente donne e bambini nella forza-lavoro, equiparando i membri della famiglia operaia nello sfruttamento. Ma, allo stesso tempo, denunciano il “doppio standard” della borghesia: mentre i comunisti erano accusati di voler fondare la “comunione delle donne”, in realtà i borghesi in un certo senso già la esercitavano attraverso l’adulterio (socialmente ammesso solo per gli uomini) o la prostituzione, considerando le donne come loro proprietà. Infine, anche se nel Capitale ci sono diversi riferimenti al lavoro delle donne – sia per quanto riguarda la composizione dell’esercito della riserva industriale che per il brutale sfruttamento del lavoro femminile e infantile – l’analisi più sistematica dell’istituzione familiare e delle cause dell’oppressione femminile sarà sviluppata da Engels, come abbiamo già detto, in L’origine della famiglia.

Non è possibile qui affrontare tutto il lavoro teorico elaborato nella storia ad oggi, ma il richiamo ad un passo del Capitale sulla riproduzione sociale che è stato rilanciato negli ultimi anni, è utile per ricordare semplicemente che “comprendere il rapporto tra riproduzione e produzione -e sottolineare la subordinazione della prima alla seconda sotto il capitalismo- è fondamentale per poter articolare una strategia di lotta” da una prospettiva socialista femminista”.

Proseguendo con Engels, “le donne potranno superare l’oppressione patriarcale solo quando le famiglie e il matrimonio cesseranno di esistere come unità di dipendenza economica obbligatoria, quando il lavoro riproduttivo sarà socializzato e anche quando “l’assistenza all’infanzia e l’educazione saranno un affare pubblico”; e, come ancora scrive Engels, in gran parte del mondo le donne continuano a educare i bambini a casa, non esiste un’istruzione pubblica universale diffusa, non ci sono scuole materne. Solo le donne della borghesia potevano liberarsi completamente di parte del lavoro di assistenza all’infanzia, attraverso il lavoro mal pagato delle donne lavoratrici. Al di là delle differenze storiche, la questione è ancora pienamente valida, in specie se si considera il degrado dell’istruzione e della sanità pubblica che è stato portato avanti dai governi capitalisti; quando non ci sono asili nido o scuole materne gratuite garantite fin dai primi mesi e, prende corpo il triplice fardello che molte donne che lavorano devono sopportare: contribuire all’educazione virtuale dei loro figli, in tempi di pandemia.

Lo stesso Engels notava questa prospettiva in una lettera del 1885: “La vera uguaglianza tra uomini e donne può, ne sono convinto, diventare una realtà solo quando lo sfruttamento di entrambi da parte del capitale è stato abolito e il lavoro privato in casa è stato trasformato in un lavoro pubblico”.

Alberto Angeli

Se essere mamma fa a pugni col lavoro. di S. Bagnasco

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L’Ispettorato del lavoro ci informa che nel 2019 le donne che hanno lasciato volontariamente il lavoro sono state 37.611; nel 2011 erano state 17.175 e anno dopo anno aumentano incessantemente.

Il 65% delle donne lasciano per le difficoltà di conciliare il lavoro con la cura dei figli.
La fascia di età è concentrata tra 29 e 44 anni, nel pieno quindi della vita professionale.

La vita familiare si conferma poco paritaria e il gap tra i generi ancora enorme.

C’è poco da farfugliare di natalità, se non si affronta la questione del diritto per una donna di essere lavoratrice e madre e la questione della disoccupazione giovanile. Perché mi pare ovvio che i giovani sono disoccupati in modo impressionante non perché si fanno pochi figli ma perché questo Paese non offre opportunità ai giovani dopo aver chiesto alle donne di rinunciare al lavoro o a essere madre.

Le ragioni di questi insuccessi, che con costanza raccogliamo anno dopo anno, sono sempre gli stessi: carenza dei servizi per la prima infanzia, costi troppo alti per l’assistenza attraverso nidi o baby sitter, mancanza di posti al nido, mancanza di parenti a supporto delle giovani famiglie, questione sempre più stringente considerato che sempre più spesso le giovani coppie si formano lontane dai luoghi di origine perché lontano dalle rispettive famiglie hanno trovato lavoro.

La realtà è quindi ancora quella di decenni fa, nonostante i fiumi di parole su occupazione femminile, parità di genere e natalità: la donna troppo spesso è ancora posta di fronte alla scelta tra diventare mamma o lavorare.

Non ci siamo!

Adesso si profila il Family Act, vedremo come si concretizzerà; certamente un passo avanti, ma al momento mi sembra inidoneo a risolvere i problemi reali perché al primo posto non c’è il nido accessibile a tutti e la scuola a tempo pieno.
L’assegno universale e i congedi parentali non compensano la mancanza di adeguati servizi per l’infanzia.

Sergio Bagnasco

Liberi e libere. Uguali. Lo dice la Costituzione, di M. Foroni

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Basso e Nenni

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Come ci ha indicato Piero Grasso nel suo primo intervento di alcuni giorni fa, un Programma politico si definisce (e non può non definirsi), in un punto solo, quale quadro di riferimento. Unico, essenziale, imprescindibile. Questo:

Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.

E` compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.”

E’ l’articolo 3 della Costituzione, l’articolo di Lelio Basso, socialista, antifascista. E’ l’articolo principio fondamentale della nostra Costituzione democratica, nel quale i costituenti ci indicano le vie.

La via dell’uguaglianza tra le persone, cittadine e cittadini; la via della libertà, spirituale e materiale; la via della giustizia sociale, dello stato sociale di diritto, nella abolizione delle differenze tra le categorie di cittadini; la via dell’internazionalismo, perché l’Italia fa parte del sistema internazionale di protezione dei diritti dell’uomo.

L’articolo 3 è il portato dei valori che si richiamano alla Rivoluzione francese del 1789 (Liberté, égalité et fraternité) e sono propri della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. E’ il principio che afferma l’ uguaglianza formale (tutti i cittadini e le cittadine sono uguali davanti alla legge, nonché titolari dei medesimi diritti e doveri) e quello, ben più pregnante, della uguaglianza sostanziale mirante a rimuovere le differenze di fatto o le posizioni di svantaggio sociale, attraverso le azioni che ne devono conseguire.

Questo il quadro di Programma di riferimento. Da conseguire con l’azione di governo e legislativa del Parlamento, adottando con le idonee politiche economiche, industriali, fiscali, di welfare (scuola, sanità, lavoro, previdenza, servizi sociali).

Azione legislativa che va espressa attraverso quelle azioni positive atte a rimuovere le discriminazioni di genere, nell’adeguare continuamente il quadro dei diritti e dei doveri all’evoluzione economica e sociale del Paese. Attraverso il canone della ragionevolezza, come indicato dalla giurisprudenza della Corte Costituzionale, vero cuore del principio di uguaglianza, i divieti di discriminazioni sono stati estesi agli orientamenti sessuali, all’appartenenza ad una minoranza, all’handicap fisico, all’età.

Il principio di uguaglianza esprime la democrazia compiuta, attraverso la sovranità del popolo. Al quale non appartiene il “potere” (come ben avevano presente i costituenti, nel prevenire possibili derive populistiche) ma, in quanto organo costituzionale (come ci insegnò Paolo Barile), appartiene la sovranità “che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione” (articolo 1).

Liberi e libere. Uguali. Come ci hanno indicato i costituenti. Per una società più giusta.

Marco Foroni

Riprendiamoci il partito, di M. Zanier

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Se c’è un partito della sinistra che è stato realmente aperto ai movimenti sociali ed alle rivendicazioni dei lavoratori è il Partito socialista italiano. Si pensi all’apertura di Anna Kuliscioff verso le lotte delle donne, a Rodolfo Morandi che lavorò all’organizzazione clandestina degli operai durante il fascismo, a Pietro Nenni che sosteneva le legittime richieste dei contadini del dopoguerra, a Giacomo Mancini aperto al dialogo coi movimenti studenteschi degli anni ’60, a Michele Achilli che voleva un PSI che facesse sue alcune istanze del movimento degli anni ’70.

Il nostro partito è stato in origine la forma politica necessaria ad organizzare il primo movimento operaio ed artigiano nato alla metà dell’Ottocento dalle società di mutuo soccorso. E il socialismo è stato per tantissime persone per tutto il secolo scorso una speranza di cambiamento profondo della società. Quando parliamo di socialismo parliamo però di qualcosa di ancora più grande. E Vittorio Foa che affermava che una storia del socialismo è pensabile solo come storia globale dei problemi della classe operaia, cioè come storia della società e delle lotte toccava perciò secondo me un punto importante da cui ripartire.

C’è ancora molto bisogno di socialismo, lo diciamo sempre. Ma perché, ditemi, dovremmo avere un posto nello scenario politico italiano se non per proporre una strada davvero praticabile per trasformare profondamente gli equilibri sociali che oggi sono tutti sbilanciati verso alcune classi sociali ed i poteri forti? Se non per dare una speranza alle nuove generazioni che non avranno una pensione perché non hanno la certezza di un posto di lavoro stabile col quale costruirsi una famiglia, comprarsi una casa e poter fare dei figli? Ci stanno portando via il futuro e la speranza del cambiamento.

La politica attuale, compagni, è solo da condannare perché distrugge quotidianamente le poche certezze dei lavoratori che con grande fatica abbiamo contribuito a costruire nei veri governi di centro-sinistra, quelli degli anni ’60, quando la nostra guida si chiamava Pietro Nenni.

A noi fare delle riforme generiche non può e non deve bastare, perché, come diceva Filippo Turati al Congresso di Imola del PSI del 1902: “Tutti noi non vogliamo altre riforme se non quelle che si conquistano colla lotta di classe, che rinforzano il proletariato nella sua difesa di classe per i fini del socialismo. […] Il nostro non è riformismo, perché questa parola indica la ricerca filantropica della riforma per la riforma, non la riforma conquistata colla lotta di classe. […]. Cos’allora è il socialismo se non l’organizzazione in un partito delle lotte e delle aspirazioni delle classi sociali che vivono con estrema difficoltà, che non hanno mezzi di sussistenza ed hanno molta difficoltà ad immaginare un futuro per sé e per le generazioni a venire? Noi dobbiamo essere con loro, compagni, dobbiamo rinascere ma con un partito strutturato e fortemente orientato a sinistra, conseguente con le nostre radici per dare le risposte che gli altri non danno o non possono dare.

Per il nostro ideale sono stati incarcerati e uccisi nel dal fascismo e dai nazisti tanti compagni coraggiosi: penso a Giacomo Matteotti che disse Uccidete pure me ma l’idea che è in me non la ucciderete mai, a Carlo Rosselli per cui il socialismo era in primo luogo rivoluzione morale, e in secondo luogo trasformazione materiale, ma anche al padre delle Europa unita Eugenio Colorni ed al grande sindacalista Bruno Buozzi, solo per fare alcuni esempi. Per questo dobbiamo continuare orgogliosamente sulla nostra strada.

Eppure, se mi guardo intorno, da troppo tempo in campo socialista vedo emergere alcuni personaggi poco propensi rilanciare davvero il socialismo italiano, più interessati purtroppo a costruire deboli alleanze tattiche e preoccupati soprattutto di assicurarsi un seggio personale.

Ma il socialismo è un’altra cosa: è  l’orizzonte necessario, l’unico rimasto per le nuove generazioni, per i disoccupati, i pensionati al minimo, i precari e per chiunque chieda con forza un futuro migliore. Per questo il movimento che abbiamo costruito a marzo e chiamato orgogliosamente “Socialisti in movimento” va bene ma non basta, compagni.

La grande manifestazione del marzo scorso che ha dato vita ai “Socialisti in movimento” e questa nostra prima Assemblea nazionale se da un lato ci fanno capire quanto serva dare una forma fluida alle molte espressioni dei movimenti socialisti, dall’altre pone con urgenza di far confluire quanto prima queste nostre energie nella ricostruzione di un partito, il nostro: per contare, per far sentire la nostra voce, per tentare davvero di aprire la strada della trasformazione profonda e graduale della nostra società. Abbiamo bisogno del nostro simbolo, delle nostre tante sezioni sparse nella Penisola delle Federazioni, delle nostre feste, del nostro giornale storico e delle Fondazioni socialiste per costruire davvero una politica migliore.

Nencini ci ha fatto sparire dai sondaggi, ci ha appiattito su questo o quel segretario del PD, ha seguito i diktat di Monti, contribuito a distruggere lo Statuto dei Lavoratori, ad attaccare la Scuola pubblica, mettendo seriamente in pericolo la nostra Costituzione.

Il tempo delle incertezze è finito, compagni. Riprendiamoci il PSI, ce la possiamo fare.

 

Marco Zanier.

Quel giorno che le donne scelsero la Repubblica, di G. Bellentani

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Finalmente quel 2 giugno era arrivato. La guerra era finita da un anno e dopo tanto tempo si poteva votare in libertà. In quel Referendum si chiedeva agli italiani di scegliere tra Monarchia e Repubblica, e da questa scelta sarebbe dipeso il futuro del Paese. Erano stati mesi di campagna referendaria pieni di discorsi e di slogan. I favorevoli alla Monarchia ricordavano che l’Unità d’Italia era stata fatta dai Savoia e che scegliere la Repubblica era un salto nel buio, visto che tante erano ancora le disuguaglianze economiche, culturali e sociali che esistevano tra Nord e Sud. Gli italiani, da sempre divisi, si sarebbero potuti ritrovare uniti sotto lo stesso progetto di democrazia? I favorevoli alla Repubblica ricordavano i comportamenti dei Savoia, i quali avevano portato l’Italia in due guerre, causa di centinaia di migliaia di morti, ma che soprattutto avevano permesso che nel Paese si instaurasse una feroce e sanguinaria dittatura, per poi scappare a Brindisi come i più pavidi dei codardi, lasciando i propri sudditi alla mercé dei nazifascisti.

Nelle strade e nelle osterie, ormai non si parlava d’altro. Ciò che invece sembrava irreale era che in quella domenica di giugno del 1946 anche le donne potessero votare. L’Italia, come tanti altri Paesi, avrebbe avuto finalmente il Suffragio Universale. Già nel 1919, le deputate Anna Maria Mozzoni e Anna Kuliscioff avevano portato in Parlamento questa mozione per estendere il voto alle donne, mozione che era passata alla Camera, ma che poi non ebbe il tempo di passare al Senato, in quanto vennero indette nuove elezioni. Anche Benito Mussolini, quello che considerava le donne alla stregua di serve del marito e fattrici, con la Legge Acerbo, conferì alle donne il diritto di voto, a condizione che dovessero essere mogli di caduti o decorati in guerra, in possesso di titolo di studio e contribuenti per 40 lire annue. Quindi, praticamente pochissime.

Già nel 1944, mentre l’Italia era ancora divisa in due, con le Forze Alleate al Sud e tedeschi e Partigiani al Nord, si pensava al futuro, tant’è che un comunicato luogotenenziale diceva espressamente che Le forze istituzionali saranno espresse dal popolo italiano, che a tal fine eleggerà a Suffragio Universale un’Assemblea Costituente”.

Sia De Gasperi che Togliatti, avevano grosse perplessità riguardo al voto alle donne. Lo stesso Segretario del PCI dichiarava ai suoi che “le donne di solito optano nelle loro scelte per un passato reazionario”.

Il 10 marzo del 1946 c’erano state le Elezioni Amministrative a suffragio universale per eleggere i Sindaci di duemila comuni e per la prima volta vennero elette due Sindaci donna, Ada Notari e Ninetta Bartoli. Questa volta però si trattò di una scelta a carattere nazionale e non solo locale.

Già di primo mattino le strade erano piene di donne. Le vecchie, coi fazzoletti in testa, sorrette dai figli, andavano ai seggi, per fare una cosa che mai avevano fatto in tutta la loro vita. Prima di morire, erano curiose di fare questa nuova esperienza. Le giovani, col vestito buono e le scarpe della festa, truccate, andavano in gruppo ai seggi, cantando canzoni. Appena la prima delle giovani ricevette la scheda di voto, fu informata che nel caso il documento fosse stato sporcato, il voto sarebbe stato invalidato. La voce corse subito fuori e tutte quelle giovani donne tirarono fuori dalla tasca i fazzoletti, per togliersi il rossetto. Alla sera a casa, padri e mariti non chiesero nulla alle loro donne: sapevano che nella cabina elettorale, ognuna di loro aveva votato come le pareva, senza lasciarsi influenzare da consigli o imposizioni.

Votò l’89,08 % degli aventi diritto e vinse nettamente la Repubblica. Il voto delle donne, che erano circa un milione più degli uomini, si rilevò in termini proporzionali decisivo per la scelta repubblicana. Furono 21 le donne elette alla Costituente. Esse lavorarono assieme agli uomini per scrivere la Costituzione. Una di queste, Teresa Mattei, del PCI, al discorso per il suo insediamento, pronunciò queste belle e semplici parole: Dall’emancipazione delle donne, tutta la società ne trarrà giovamento, quindi anche gli uomini”.

A queste donne che hanno combattuto al fianco dei Partigiani o che si sono sobbarcate tutto il lavoro domestico mentre i loro uomini erano in montagna o nei campi di prigionia, va tutta la nostra gratitudine. A loro che hanno voluto un futuro migliore per i loro e i nostri figli, a loro che hanno lottato per un Paese fatto di democrazia e diritti, a loro che hanno contribuito a scrivere la Costituzione più bella del mondo, noi diciamo grazie. Il vostro diritto al voto, giusto e inequivocabile, l’avete conquistato e meritato sul campo.

Gianluca Bellentani

Tratto dal Blog     https://mimmomirarchi.wordpress.com/2017/05/31/quel-giorno-che-le-donne-scelsero-la-repubblica/

 

Con l’ANPI il 10 Febbraio a Roma per difendere gli spazi sociali e culturali

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Venerdì 10 marzo alle ore 16 in Campidoglio, si terrà una manifestazione sulla tristemente famosa delibera 140/2015 che ha portato in questi giorni alle minacce di sgombro di moltissime realtà sociali e culturali della città di Roma quali la Casa delle donne, la scuola popolare di musica di Testaccio, l’associazione Cielo, la Casa dei diritti sociali e molti altri centri di aggregazione con funzioni sostanzialmente pubbliche sono già state private dei loro locali, pensiamo al Circolo Gianni Bosio di tradizione orale sgombrato dal Rialto.

Conformemente al nostro deliberato congressuale, che avrete presente, e in continuità e coerenza con la nostra battaglia per la difesa e l’attuazione dei principi fondamentali della Costituzione, che prevede il libero sviluppo della persona umana quale singoli e nelle formazioni sociali, la presidenza provinciale invita tutti gli iscritti ad essere presenti in piazza per sollecitare una soluzione positiva e ragionevole, che non può essere dettata da principi economici. La nuova delibera comunale n.19/2017 é peraltro del tutto insufficiente non portando alcuna sostanziale modifica alla 140. Invitiamo pertanto tutti gli associati a partecipare e ad essere presenti, rivendicando il nostro impegno per la realizzazione di un ordinamento costituzionale impegnato alla giustizia sociale, impegno che dovrà caratterizzare anche le manifestazioni celebrative della vittoria sul nazifascismo e della Liberazione.

Presidenza ANPI Roma

8 Marzo: non è la festa della donna ma una ricorrenza!, di M. Saridachi

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La giornata dell’8 marzo viene da tempo definita come Festa della Donna, un termine ormai distorto in cui non ci si ricorda più il vero significato. L’8 marzo, infatti, non è una festa, ma bensì una ricorrenza.

In principio serviva a ricordare tutte le battaglie fatte dalle donne in campo sociale, economico e politico e a tenere viva l’attenzione sulla violenza e la discriminazione che non si possono dire superate.

Una giornata che ha origini americane, negli Stati Uniti esiste dal 1909 e in Italia dal 1922 e che nasce quindi con fine nobile e lontano dalla connotazione consumistica in cui si è trasformata. E’ in quest’ottica che la Festa della donna non ha più senso, perché di certo non serve una data celebrativa per sentirsi donne.

Se la si vede da un’altra prospettiva, ovvero che l’8 marzo non è un giorno di festa, ma una celebrazione per le donne che riuscirono con forza e coraggio ad ottenere gli stessi diritti degli uomini, la parità quindi dei sessi, l’uguaglianza sul lavoro e via dicendo, potrebbe invece averne.

Perché l’8 marzo? E’ ormai versione fantasiosa diffusa che in questa data venga ricordato un incendio in una fabbrica di New York, in cui morirono un centinaio di donne. La disgrazia di certo ci fu, ma il 12 marzo e soprattutto molti anni dopo che la Giornata della donne veniva celebrata.

In realtà, il Woman’s Day negli Stati Uniti, nasce dopo qualche tempo dal VII Congresso della II Internazionale socialista, tenuto a Stoccarda dal 18 al 24 agosto 1907. Durante la conferenza, in mancanza dell’oratore ufficiale, prese la parola la socialista e attivista dei diritti delle donne Corinne Brown, che non perse occasione per parlare dello sfruttamento delle operaie, delle discriminazioni sessuali e della possibilità del suffragio universale.

Non ci furono ovviamente grandi trasformazioni, se non quella di creare consapevolezza nel potere delle donne. Iniziarono battaglie e manifestazioni, fino alla celebrazioni della prima giornata della donna il 28 febbraio 1909

Una svolta significativa si ebbe nel 1910 quando 20mila operaie scioperarono per tre mesi a New York. Da qui, la Conferenza internazionale delle donne socialiste di Copenaghen, istituì la giornata di rivendicazione dei diritti femminili. Piano piano anche l’Europa aderì alle celebrazioni fino alla Prima guerra mondiale.

La scelta dell’8 marzo, ha invece origine russe. In quella data, nel 1917 a San Pietroburgo le donne si riunirono in una grande manifestazione per rivendicare diritti e la fine della guerra, un appello inascoltato che sfociò nella rivoluzione russa.

La prima Giornata internazionale della donna per quanto riguarda l’Italia è stata celebrata nel 1922. Ora a quasi un secolo di distanza da quella ricorrenza vogliamo ricordare alcune delle donne che ora non sono più in vita ma che durante la loro esistenza si sono impegnate davvero per cambiare il mondo e per migliorarlo.

Si tratta in questo caso di donne i cui nomi sono piuttosto noti, ma non dobbiamo dimenticare nello stesso tempo tutte le altre donne che nel completo anonimato, sia in passato che ai giorni nostri, continuano a portare avanti missioni importanti per proteggere tutta l’umanità e il Pianeta.

È per tutte loro che dovremmo recuperare la memoria storica delle reali origini della manifestazione, che non è solo un giorno in cui regalare o ricevere cioccolatini e mimose.

Margherita Hack
Nel 2013 Margherita Hack è volata tra le stelle ma nessuno di noi la dimenticherà mai soprattutto chi ha avuto l’occasione di incontrarla dal vivo e di intervistarla. Margherita Hack ha dedicato tutta la sua vita allo studio dell’astrofisica e alla scoperta dei misteri delle stelle e dell’universo. Era vegetariana dalla nascita e ha dimostrato un grande amore per gli animali. Ha sempre praticato sport fin da giovane e anche con l’avanzare degli anni non ha mai abbandonato la sua passione per la bicicletta. Leggi qui la nostra intervista a Margherita Hack.

Nadine Gordimer

ci ha lasciati nel 2014, quando aveva 91 anni. La ricordiamo come scrittrice e come donna bianca che ha lottato in prima linea contro il regime dell’apartheid in Sudafrica. Ha combattuto a lungo in nome dell’uguaglianza di tutti gli uomini e ha trattato di questo tema nelle sue opere letterarie. Ha vinto il Nobel per la Letteratura nel 1991 per aver sfidato gli stereotipi e per essersi opposta a qualsiasi forma di oppressione, razziale o religiosa.

Berta Cáceres

L’attivista Berta Cáceres, che da anni lottava per difendere i diritti delle popolazioni indigene dell’Honduras e che nel 2015 aveva ricevuto il prestigioso Goldman Environmental Prize, da molti considerato il Nobel per l’ambiente, è stata uccisa nella notte tra il 2 e il 3 marzo 2016. L’omicidio è stato collegato al suo attivismo. Era infatti impegnata da anni contro la costruzione di una diga e contro lo sfruttamento dei territori indigeni in Honduras.

Dorothy Stang

Sono passati 11 anni dalla morte di Dorothy Stang. Per tutta la vita si era battuta a fianco dei contadini dell’Amazzonia brasiliana per difendere la loro Terra. Era una suora missionaria di origini statunitensi e un personaggio scomodo per via delle sue lotte a tutela dell’ambiente e delle popolazioni brasiliane. Il 12 febbraio 2005 fu uccisa con sei colpi di pistola, quando aveva 73 anni, mentre si trovava nella città di Anapu, nello Stato del Parà.

Masika Katsuva

Masika Katsuva si è battuta per anni per difendere le donne in Congo fino a quando un infarto l’ha scontrata. Masika è stata violentata più volte durante la sua vita come se in Congo fosse la normalità. Qui infatti sono ben 400 mila le donne che ogni anno subiscono una violenza sessuale, con una media di 48 all’ora. Purtroppo nella Repubblica Democratica del Congo, lo stupro è regolarmente praticato come arma di guerra e come uno strumento per mettere a tacere l’universo femminile. Ora che Masika non c’è più, speriamo che altre donne possano lottare in difesa dei propri diritti.

Maria Montessori

Maria Montessori fu tra le prime donne a laurearsi in medicina in Italia. Fu un medico, un’educatrice e una pedagogista diventata famosa in tutto il mondo per il proprio metodo. Fin da bambina aveva mostrato interesse per le materie scientifiche, come matematica e biologia. Sì laureò alla Sapienza di Roma e si impegnò a favore dei bambini che vivevano nei quartieri poveri della capitale. Dalle sue numerose esperienze di lavoro e di vita elaborò un metodo educativo che ancora oggi viene utilizzato nelle scuole e dalle famiglie di tutto il mondo.

La nostra speranza è che le donne di tutto il mondo possano unirsi per lottare in difesa dei propri diritti e di quelli di tutta l’umanità oltre che per proteggere il Pianeta. Crediamo che l’unione faccia davvero la forza quando si tratta di arginare la violenza e di cambiare il mondo migliorandolo.

Marcello Saridachi

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