Articoli

Impresa pubblica, perché. di A. Benzoni

Postato il

Alberto Benzoni

.

Quando, agli inizi degli anni sessanta stava per passare, tra ferocissime opposizioni, la nazionalizzazione dell’energia elettrica, noi socialisti ci mobilitammo per spiegarne le ragioni.
C’erano quelle proprie di Lombardi e della sinistra socialisti – ideologicamente più forti ma anche meno largamente condivise – secondo la quali la nazionalizzazione era una tappa lungo la via del socialismo. Perché colpivano uno dei centri di potere più forti e più arroganti del capitalismo italiano; perché mettevamo nelle mani dello stato uno strumento funzionale alla programmazione economica; e perché questa stessa programmazione avrebbe, di per sé, alimentato un circuito virtuoso, funzionale all’avanzata del socialismo nel nostro paese.
E c’erano, anche, quelle più terra terra, secondo le quali la presenza di un’impresa pubblica nel settore dell’elettricità avrebbe garantito migliori condizioni di lavoro e stipendi più adeguati ai lavoratori del settore.
In mezzo, la convinzione, largamente diffusa e potenzialmente maggioritaria, secondo la quale la nazionalizzazione avrebbe favorito, non solo lo sviluppo dell’economia italiana ma anche, e soprattutto, la più equa ripartizione dei suoi benefici tra i cittadini italiani: tariffe più basse per i più deboli e per le piccole e medie imprese, possibilità di accesso garantita a tutti.
Era, in certo qual modo, la riproposizione di un dibattito che aveva accompagnato lo sviluppo del riformismo socialista, prima dell’avvento del fascismo. Quando le Camere del lavoro e le leghe erano impegnate, insieme, nella periodica battaglia dei contratti e nel controllo dello stesso mercato del lavoro. E quando le cooperative e le municipalizzate venivano viste non solo come istituzioni che anticipavano la futura società socialista ma anche, e direi soprattutto, perché la loro offerta era qualitativamente migliore e a costi più bassi di quella dei monopolisti privati. Ed è, per inciso, su questo ultimo aspetto che il “liberale costituzionale” Nathan e i suoi collaboratori ultrariformisti, come Montemartini impostano e vincono lo scontro con la destra romana.
Oggi, la discussione sull’impresa pubblica ha mutato completamente segni e contenuti. Ed è totalmente governata dagli “ordoliberisti”, nella versione casareccia del pubblico inefficiente e del privato efficiente. Mentre, a difendere un fortino sempre sotto assedio, non ci sono più né i politici né i cittadini ma soltanto i suoi dipendenti.
Una combinazione che è foriera di pressoché certa sconfitta.
Per evitarla occorre uscire dal fortino e cambiare il soggetto/oggetto dello scontro. In chiaro definire l’impresa pubblica – e, nel contesto di riferimento quella municipalizzata – e il suo ruolo in modo completamente diverso da quello attuale.
Oggi, a definire la natura pubblica di un’azienda è soltanto la natura dell’azionista di controllo. I cui obbiettivi spesso sono in conflitto con quelli della controllata. Per il resto, si tratta di società per azioni in tutto e per tutto comparabili alle società private concorrenti, tanto più in quanto soggetti allo stesso regime concessionario. Il loro obbiettivo primario sarà oggi la riduzione dei costi e il corrispettivo taglio dei servizi. Queste aziende apparterranno così ai loro azionisti, liberi da qualsiasi vincolo politico o di mercato e caratterizzati da una comune visione corporativa e clientelare ma non agli utenti e tanto meno alla collettività.
Occorre allora ripartire. E da basi totalmente diverse. E precisamente dall’idea, comune ai riformisti di un secolo ma anche ai keynesiani e ai fondatori dell’Iri, secondo la quale “scopo dell’impresa pubblica” (e dello stato che la crea) è di fare le cose che i privati non vogliono o non possono fare”.
Stiamo parlando in chiaro di progetti il cui beneficio per la collettività fa premio sulla loro ricaduta economica per l’impresa.
Da questi progetti chiaramente definiti anche in termini di obbiettivi da raggiungere occorrerà dunque partire. Prima, individuando un modello di “azienda speciale” funzionale allo scopo. Poi definendoli con chiarezza davanti ai cittadini; e al termine di un dibattito pubblico. Poi scegliendo, con lo stesso metodo, i responsabili della loro realizzazione, con i percorsi e i tempi necessari e la possibilità di reali verifiche.
Un approccio che ha in sé molti pregi. Perché restituisce all’intervento pubblico la sua ragion d’essere e la sua fisionomia originaria. E al comune una funzione progettuale il cui abbandono è all’origine di tutti i disastri di questi anni. Perché dà a dirigenti e funzionario l’orgoglio necessario per svolgere al meglio il loro compito. E, infine, perché pone su basi nuove e solide il rapporto tra amministratori e amministrati.
Ci si obbietterà che manca il deus-ex machina della volontà politica. Si dà però il caso che da molti anni nessuno l’abbia invocata magari per lamentarne l’assenza. Probabile che questa dimenticanza l’abbia offesa; fino a indurla a disertare il Belpaese. Perché, allora, non proviamo a richiamarla?

Alberto Benzoni

Pubblicità

Il diritto allo Studio, lo Stato sociale e la Costituzione, di M. Foroni

Postato il Aggiornato il

Foroni 1

Se un cittadino ricco e uno povero si presentano, per una emergenza, al pronto soccorso perché bisognosi di cure, non pagano nulla e vengono assistiti allo stesso modo. Tutela della salute, fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività (art. 32 della Costituzione). Come si finanzia la sanità pubblica? Attraverso la fiscalità generale, dove in base al sistema fiscale progressivo chi più ha, più contribuisce. Lo dice, sempre, la Costituzione.

Ciò vale anche per la scuola e l’Università pubblica, ovvero per quell’insieme di prestazioni e servizi pubblici che, insieme ad altre, caratterizzano e definiscono i diritti di cittadinanza. Si chiama Welfare state, ovvero Stato sociale di diritto. Richiamato da numerosi articoli della nostra Costituzione. Lo Stato sociale di diritto si fonda, oltre che sul diritto al lavoro, su tre pilastri fondamentali: il diritto alla salute, il diritto allo studio, il sistema previdenziale/assistenziale.

Il diritto allo studio è uno dei diritti fondamentali ed inalienabili della persona, come enunciato dalla Dichiarazione Universale dei diritti umani dell’ONU (art. 26).

Nell’ordinamento italiano il diritto allo studio è un diritto soggettivo che trova il suo fondamento nell’art. 34, comma 3 e 4, della Costituzione: “I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi. La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso.

Il diritto allo studio si differenzia dal diritto all’istruzione che è il diritto, sancito dai primi due commi dell’art. 34 per i quali “La scuola è aperta a tutti. L’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita.

Il diritto allo studio riguarda dunque il percorso scolastico successivo all’obbligo e quello universitario, canali di formazione non obbligatori che il cittadino ha libertà di intraprendere e di concludere e che lo Stato deve garantire attraverso l’erogazione di borse di studio a coloro che si dimostrano capaci e meritevoli ma privi di mezzi economici.

La Costituzione della Repubblica anticipa e amplia tale diritto rispetto alla Dichiarazione universale dei diritti umani, per quanto riguarda l’istruzione nell’articolo 33 e soprattutto nell’articolo 34, che parla di scuola aperta a tutti e di istruzione inferiore gratuita da impartirsi per almeno otto anni; l’obbligo di frequenza e la gratuità non riguardano, al contrario, l’istruzione superiore e quella di livello universitario.

Appare evidente la concezione dell’istruzione e della cultura come un servizio pubblico necessario ad assicurare il pieno sviluppo della persona umana, rispetto alla condizione di partenza sfavorevole di qualcuno. Ciò secondo il principio democratico della pari opportunità per ogni individuo. Quindi, l’impegno dell’autorità pubblica, come richiesto dall’art. 3, secondo comma della Costituzione, consiste nella rimozione di quegli ostacoli di ordine economico-sociale che caratterizzano il cammino di individui capaci e predisposti allo studio avanzato.

L’art. 33 della Costituzione afferma che la Repubblica detta le norme generali sull’istruzione ed istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi. Secondo precedenti sentenze della Corte Costituzionale il diritto di accedere e di usufruire delle prestazioni, che l’organizzazione scolastica è chiamata a fornire, parte dagli asili nido e si estende sino alle università.

Per quanto riguarda gli studi universitari, il dpr 24 luglio 1977, trasferì le funzioni delle opere universitarie alle Regioni. La normativa che regola i principi del settore è Decreto Legislativo 29 marzo 2012, n. 68 che all’art.1 afferma: “Il presente decreto, in attuazione degli articoli 3 e 34 della Costituzione, detta norme finalizzate a rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitano l’uguaglianza dei cittadini nell’accesso all’istruzione superiore e, in particolare, a consentire ai capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, di raggiungere i gradi più alti degli studi. A tale fine, la Repubblica promuove un sistema integrato di strumenti e servizi per favorire la più’ ampia partecipazione agli studi universitari sul territorio nazionale”.

La promozione di un “sistema integrato di strumenti e servizi” si può effettuare anche attraverso la progressiva riduzione e gratuità delle tasse di accesso, che saranno a carico della fiscalità generale. Per la quale la Costituzione ci dice, art. 53, che tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva, e che il sistema tributario è informato a criteri di progressività: ovvero le tasse si pagano in base al reddito e ai patrimoni e chi più ha, più contribuisce. Regola fondativa, secondo il pensiero dei costituenti, del nostro stare insieme collettivo.

Marco Foroni

Dedicato a chi gioisce per la presenza del simbolo socialista, di A. Potenza

Postato il

Aldo Potenza

.

Ovviamente nessuno sinceramente può pensare che il PSI da solo possa eleggere qualcuno, sarebbe solo un atto di pura testimonianza che non guasterebbe, ma non consentirebbe l’elezione di qualche parlamentare considerata anche in passato la condizione necessaria per esprimere una presenza politica, ma, come i fatti si sono incaricati di dimostrare, non sufficiente a causa delle scelte compiute.
Ciò detto sono altrettanto convinto che se il simbolo fosse presentato a sostegno di FI, Lega e Fratelli d’Italia, nessuno farebbe salti di gioia e lo voterebbe. Quindi oltre alla presenza del simbolo conta l’alleanza politica che si propone.

Fatta questa premessa, ci sono socialisti che hanno contrastato la legge elettorale precedente e quella attuale; che hanno votato NO al referendum confermativo delle modifiche costituzionali; che hanno avversato la così detta buona scuola; che hanno fortemente criticato il job act; che hanno avversato il PD renziano quando ha considerato i corpi intermedi fastidiosi intralci alla politica con la sola esclusione della Confindustria, ed altro ancora.

In altre parole, questi compagni hanno avversato una politica, peraltro sostenuta dall’attuale PSI, frutto della guida renziana del PD che ha portato la sinistra nell’attuale disastrosa condizione.
Mi sia consentito di osservare che proporre ancora l’alleanza con il PD, anche se questa volta viene proposta assieme ad altri e con l’esposizione del simbolo, politicamente altro non è che la continuità di una politica che abbiamo avversato e che con le varie elezioni che si sono succedute è stata ampiamente bocciata anche dall’elettorato (Sicilia etc….). Dove sarebbe la novità?

Non basta la retorica del simbolo, questo deve rappresentare una cesura politica con il passato, altrimenti all’inganno del partito corsaro, mai esistito,si prosegue con l’appello a sostenere un simbolo dietro il quale si nasconde una continuità politica che rappresenta il motivo di tanti abbandoni, di molte divisioni e degli insuccessi elettorali del partito di riferimento ovvero il PD.
Mi dispiace compagni io non gioisco, anzi.

Alla domanda che spesso viene rivolta, ma ora che altro avremmo potuto fare, rispondo mestamente non chiedetelo a noi, ma a chi vi ha ridotto in queste condizioni a partire dal 2013 e alla rinuncia a svolgere una autonoma azione parlamentare.

Aldo Potenza

Appello ai socialisti che si tengono fuori dal Psi, di M. Molinari

Postato il

Maurizio Molinari

.

Se vi è una critica che io, con molti altri, ho rivolto alla politica dell’attuale gruppo dirigente del PSI e’ quella di essere appiattiti sulla politica del PD e troppo ossequienti verso il loro segretario Renzi un segretario ormai inviso a troppi per supponenza , arroganza e superficialità ( chissà se andrà nelle zone terremotate a a parlare di casa Italia, sembrava cosa fatta).
Guardate pero’ che la frantumazione a sinistra del PD, non e’ meno arrogante , superficiale e antisocialista del PD,sono spezzoni di movimenti, ad essere gentili,che hanno come il PD tagliato i ponti con il loro passato, ripudiato la cornice culturale che ne tracciava i limiti ideali, nel contempo incapaci di creare un muovo progetto politico, rifugiandosi in un generico progressismo, invocando un centrosinistra, formula da noi creata nel lontano 1963, che ha finito la sua spinta rinnovatrice a fine anni 80, 30 anni fa.

Voi ora dite che volete influenzare, rendere piu’ riformista quella maionese impazzita che e’ la sinistra al PD, un progetto neanche tanto originale, visto che era lo stesso di quanti aderirono PD e si e’ visto come e’ finita. Mi dite, di grazia, che differenza esiste tra il cercare candidature nel PD e cercarle in Art.1 MDP e simili ?

Se unendo i vari circoli partitini e associazioni che si dicono socialisti (sono decine in Italia) ci si sente tanto forti da influenzare in senso socialista il Pd o altri soggetti di sinistra, tanto piu’ saremmo in grado di influenzare , dare nuovo slancio e un nuovo progetto politico al nostro partito, perche’ non rientrare e riiscriversi, se il partito in Sicilia e’ in mano a Vizzini e Oddo e ci possono non soddisfare nella loro conduzione, lottiamo nell’interno per cambiare, nulla potra’ cambiare se i compagni e le compagne critici verso la conduzione del partito saranno lasciati soli.
Questo non significa , non allearsi, non fare liste insieme ad altre forze ma con un confronto con pari dignita, dove deve essere preminente il carattere socialista, ben visibile la partecipazione del partito non di gruppi sparsi.

Non sta a me entrare nel merito delle scelte circa le prossime regionali io sono di Torino, ma l’ invito e l’appello che vi faccio e quello che facciate ogni sforzo possibile perche’ i socialisti siciliani affrontino unitariamente la prossima sfida elettorale, se ciò sarà possibile il socialismo avrà vinto, differentemente avremo perso tutti. Scusate , lungi da me il voler dare consigli o lezioni , ma volevo esprimervi , con franchezza, quella che e’ una mia grande preoccupazione, a 70 anni e 47 di militanza vorrei rivedere il mio partito a dibattere al suo interno, anche con asprezza, ma tornare unito a difendere i ceti deboli che da 125 anni e’ la sua missione, meditiamo compagne/i la sinistra o tornerà ad essere socialista o semplicemente non esisterà.

Maurizio Molinari

Una riflessione da sinistra sulla Giunta Raggi, di A. Valeri

Postato il Aggiornato il

Andrrea Valeri

.

Spesso quando critico la Giunta Raggi, soprattutto nel campo della Cultura, l’obiezione principale che mi viene mossa è quella di non indicare soluzioni alternative.
Ho deciso quindi di pubblicare uno stralcio di un mio articolo di prossima pubblicazione in cui si delineano in modo organico quelle che dovrebbero essere le misure da adottare in concreto per rilanciare la Cultura in questa città.

E’ un po lungo ma credo che ormai da troppo tempo si affronti la questione della Cultura a Roma solo per slogan. E’ invece necessario un ragionamento approfondito che dedico quindi a tutti coloro i quali avranno la bontà di leggerlo.

In questi giorni il Comune di Roma, per voce del suo Vicesindaco e Assessore alla Crescita culturale Luca Bergamo, ha coniato uno slogan nuovo di zecca con l’obiettivo di ridare slancio all’azione amministrativa e che recita pressapoco cosi: “Per Roma non serve una mano di bianco ma riforme strutturali alle quali stiamo lavorando”.

Un’enunciazione che, al di là dei toni roboanti ed ambiziosi, risulta essere assolutamente vacua visto che non è dato di sapere né come si voglia procedere né quale siano questi interventi strutturali.
La sensazione che si è avuto sin dal principio è invece esattamente opposta: quella di una gestione schizofrenica in cui l’agenda di governo è stata sino ad ora più dettata dalle emergenze anziché essere improntata ad una vera nuova visione di asset che da troppo tempo manca per questa città.
Proviamo quindi a mettere nel piatto qualche elemento per dare un po’ più di concretezza alla discussione su come “non dare mani di bianco” ma rilanciare strategicamente le politiche culturali a Roma.
Innanzitutto, ci sarebbe bisogno di un reale luogo di incontro tra amministrazione e operatori culturali e non la solita passerella, né l’ennesimo seminario, ma uno spazio in cui discutere e decidere assieme le priorità di intervento.

Al di là di qualche convegno o assemblea, infatti, in questa città non vi è mai stato un luogo permanente per una gestione partecipativa delle politiche culturali, basato su un nuovo patto sociale che preveda, da una parte, una cessione di sovranità di chi amministra nel decidere le priorità e dall’altra un impegno degli operatori di uscire dalla singola visione della propria condizione personale e lavorare a soluzioni che riformino il settore nel suo complesso.
Trasparenza, partecipazione e corresponsabilità nelle scelte sono oggi gli unici elementi per uscire insieme da una situazione di crisi cronica che colpisce in egual misura amministrazione e mondo della cultura.

Da un confronto come questo uno dei primi problemi ad emergere sarebbe sicuramente quello dell’eccessiva burocratizzazione legata all’organizzazione degli eventi.
Una giungla di leggi, norme, permessi, pareri, controlli, costi, divieti, che costituiscono una zavorra insopportabile al decollo e allo sviluppo culturale sul territorio.
Ci sarebbe bisogno di una “cultura da slegare”, che al pari di quanto fatto per le imprese, possa contare su una reale sburocratizzazione e una forte defiscalizzazione in grado di liberare energie e creatività.
Mi chiedo infatti perché, in tempi di crisi, con tagli draconiani alla cultura, oltre a portare avanti una fondamentale battaglia di civiltà per l’aumento dell’allocazione delle risorse sulla cultura contemporaneamente non si metta mai mano a tutte quelle misure che un amministrazione ha il potere di introdurre per ridurre i costi di chi lavora o vuole intraprendere l’attività culturale.

Quando si affronta questa questione, come alibi si agita lo spauracchio “del mancato introito e della Corte dei Conti” , palesando così l’incapacità politica di intervenire in un nuovo quadro normativo: si preferisce amministrare lo status quo anzi che assumersi la responsabilità di governare introducendo riforme innovative che abbattano questo “cultural divide”. Naturalmente defiscalizzare non basta ed occorre sviluppare nuove politiche di accesso al credito.
Innanzitutto aumentando le voci di bilancio, abbandonando una visione della cultura come qualcosa di superfluo rispetto ad altri servizi essenziali ma elevandola a settore strategico per il benessere, la vitalità, il lavoro e l’offerta turistica della città. Poi facendo un serio e strutturato ricorso alle opportunità che l’Europa ci consente, sia in termini di fondi che di beni e servizi.
Infine un diverso rapporto con il capitale privato, non più basato su una visione di mecenatismo commerciale ma come vero e proprio finanziamento a supporto dell’impresa culturale e della tutela del patrimonio, rivendicando una superiorità del pubblico rispetto al privato e salvaguardando l’interesse collettivo sull’ interesse del singolo. Altra questione cruciale su cui bisognerebbe avere parole chiere e azioni concrete e quello della rigenerazione e fruizione degli spazi. Una questione talmente urgente da non poter più continuare a far finta di nulla.
Non si può neanche parlare di nuova visione culturale della città prescindendo da una ridefinizione complessiva delle necessità dei diversi territori e dei diversi filoni culturali e creando degli spazi che servano a realizzarli in modo organico. Un enorme patrimonio di luoghi chiusi ed abbandonati, di proprietà pubblica e privata, che si vorrebbero alienare per una mera esigenza di cassa o per qualche speculazione legata alla rendita e che prioritariamente dovrebbero invece essere affidati per l’erogazione di quei servizi culturali e sociali che l’amministrazione non è in grado di garantire.
Per fare ciò occorrerebbe attuare un vero e proprio decentramento amministrativo, che superi la duplicazione dei ruoli e degli interventi tra Comune e territori e che affidi poteri specifici agli enti di prossimità e alla periferia, snellendo il carico di lavoro dell’amministrazione centrale che manterrebbe in questo modo i la sola funzione di coordinamento delle attività e controllo e la gestione di grandi eventi.

Personalmente penso che lo strumento più adatto a rispondere a queste necessità sia quello del distretto culturale evoluto, in grado di connettere il tessuto culturale e imprenditoriale di un territorio, creando un’offerta progettuale in grado di attrarre capitale privato e che trasformerebbe le municipalità in veri enti di crescita culturale in grado di dare risposte più immediate al territorio.
Quest’anno ricorre il quarantesimo anniversario dell’Estate Romana e tutti noi possiamo avere in mente cosa significhi una vera rinascita culturale per questa città.
Senza risposte concrete alle questioni fin qui poste l’affermazione di “riforme strutturali” non rappresenterà un processo virtuoso di riscatto collettivo, ma solamente due parole prive di senso per uno slogan già dimenticato.

Andrea Valeri

Omaggio della Francia a Jean Moulin, di N. Corrado

Postato il Aggiornato il

nicolino-corrado-2  Jean Moulin

Discorso pronunciato da André Malraux, il 19 dicembre 1964, in occasione della traslazione della salma di Jean Moulin al Panthéon.

Jean Moulin, eroe della Resistenza francese (Béziers, 20 giugno 1899 – Metz, 8 luglio 1943), nel 1937 diventa il più giovane prefetto di Francia. Dopo lo scoppio della Seconda guerra mondiale, il 17 giugno 1940, viene torturato dai tedeschi e tenta il suicidio perchè si rifuta di arrestare alcuni soldati di colore francesi, accusati ingiusta mente di crimini di guerra. Rimosso dalla carica dal governo collaborazionista di Pétain per le sue simpatie politiche all’inizio del mese di novembre 1940, Jean Moulin lascia Parigi per Londra. Il suo incontro con il generale De Gaulle, il 25 ottobre 1941, è decisivo. Incaricato di una triplice missione di propaganda, unificazione militare e federazione dei movimenti della Resistenza nella Francia di Vichy, il suo operato porta alla nascita dell’Armata Segreta (AS) nell’ottobre del 1942, e poi, all’inizio del 1943, alla creazione dei Movimenti Uniti della Resistenza (MUR). Il primo Consiglio Nazionale della Resistenza (CNR) si riunisce sotto la sua presidenza il 27 maggio del 1943 a Parigi. Ma il 9 giugno il generale Delestraint, capo dell’Esercito segreto unificato, viene catturato a Parigi. Il 21 giugno Jean Moulin, che ha convocato i delegati per garantire la sua sostituzione, viene catturato a Caluire dalla Gestapo di Lione, diretta da Klaus Barbie. Brutalmente torturato, rimane in silenzio e muore sul treno che lo sta deportando in Germania l’8 luglio del 1943.

Il discorso pronunciato da Andrè Malraux, il 19 dicembre 1964, in occasione della traslazione della salma di Jean Moulin al Panthéon: Comme Leclerc entra aux Invalides, avec son cortège d’exaltation dans le soleil d’Afrique, entre ici, Jean Moulin, avec ton terrible cortège. Avec ceux qui sont morts dans les caves sans avoir parlé, comme toi ; et même, ce qui est peut-être plus atroce, en ayant parlé ; avec tous les rayés et tous les tondus des camps de concentration, avec le dernier corps trébuchant des affreuses files de Nuit et Brouillard, enfin tombé sous les crosses ; avec les huit mille Françaises qui ne sont pas revenues des bagnes, avec la dernière femme morte à Ravensbrück pour avoir donné asile à l’un des nôtres. Entre, avec le peuple né de l’ombre et disparu avec elle – nos frères dans l’ordre de la Nuit” (…) “C’est la marche funèbre des cendres que voici. À côté de celles de Carnot avec les soldats de l’an II, de celles de Victor Hugo avec les Misérables, de celles de Jaurès veillées par la Justice, qu’elles reposent avec leur long cortège d’ombres défigurées. Aujourd’hui, jeunesse, puisses-tu penser à cet homme comme tu aurais approché tes mains de sa pauvre face informe du dernier jour, de ses lèvres qui n’avaient pas parlé ; ce jour-là, elle était le visage de la France.

Come Leclerc entrò agli Invalides, con il suo corteo di esaltazione sotto il sole africano, entra qui, Jean Moulin, con il tuo terribile corteo. Con coloro che sono morti nelle segrete senza parlare, come te; e anche, il che è forse più straziante, dopo aver parlato; con tutti coloro con la divisa a strisce e con la testa rasata dei campi di concentramento, con il corpo per ultimo barcollante per le code terribili di ‘Nacht und Nebel’, e infine, caduto sotto il calcio dei fucili; con le ottomila donne francesi che non sono ritornate dalla prigionia; con l’ultima donna morta a Ravensbrück per aver dato rifugio a uno dei nostri. Entra, con il popolo nato dall’ombra e scomparso con essa – i nostri fratelli nell’ordine della notte “(…) “Questa è la marcia funebre delle ceneri. Accanto a quelle di Carnot con i soldati dell’Anno Secondo, a quelle di Victor Hugo con i Miserabili, a quelle di Jaurès vigilate dalla Giustizia, che esse riposino con la loro lunga processione di ombre sfigurate. Oggi, gioventù, possa tu pensare a quest’uomo come se avvicinassi le tue mani al suo povero volto informe del suo ultimo giorno, alle sue labbra che non avevano parlato: quel giorno, esso era il volto della Francia.”

Nicolino Corrado

Riflessioni a sinistra sul Brancaccio, di R. Achilli

Postato il

achilli riccardo

.

Quando Montanari dice “mai con il Pd e con il centrosinistra” è in buona fede. D’altra parte, dietro di lui c’è D’Alema, che non potrà più costruire alcun rapporto umano e politico con Renzi.

In verità, sono gli assetti politici del prossimo Parlamento ad escludere, per inutilità, SI/Lista Falcone-Montanari da qualsiasi schema coalizionale. Un Berlusconi che non potrà più fare alleanze con Salvini, che chiede lo scalpo della leadership di centrodestra, potrebbe mettersi insieme al Pd renziano ed alle fronde centriste alfaniane, perché questa è, numericamente, l’unica ipotesi di maggioranza parlamentare fra “sistemici” che possa essere costruita. In questo caso, Pisapia finirà nell’insignificanza, se l’operazione di ricucitura di Prodi e D’Alema non avesse successo, oppure, più probabilmente, si alleerà con questa larga coalizione, facendone la coscienza critica (di facciata). Risucchiando nuovamente tutta o parte di Mdp, e lasciando all’opposizione il resto della sinistra.

Ovviamente, nel caso ipotetico in cui M5S, Lega e Fratelli d’Italia riuscissero a fare una coalizione di antisistemici, a maggior ragione non ci sarebbe alcuna alleanza con il Pd, visto che tutti starebbero all’opposizione per conto loro.

Ma il punto vero è un altro. Il punto vero è sul programma e sulla capacità organizzativa di costruirlo ed imporlo. I temi dell’Europa, delle politiche economiche, della verticalizzazione oligarchica imposta alla politica, che la svuota di senso, tramite il progressivo stravolgimento delle istituzioni rappresentative, e la parallela verticalizzazione oligarchica in campo sociale, che allarga le diseguaglianze e, aumentando le barriere alla mobilità, le congela, sono i temi sui quali concentrare la proposta. Sono i temi che hanno consentito a Sanders, a Mélenchon ed a Corbyn di ottenere risultati straordinari, rimettendo in campo una proposta di politica economica e sociale di tipo socialista, tradizionale, pre-blairiana.

Sul secondo punto, occorre una struttura partitica robusta, fatta di classi dirigenti preparate culturalmente e di quadri intermedi, nazionali e territoriali, in grado di riportare verso l’alto la domanda sociale e costruire una sintesi. Non è concepibile affidare la costruzione della proposta ad una società civile devastata da oltre 25 anni di assenza politica, caduta di rappresentanza, perdita di coscienza di classe, atomizzata nell’individualismo metodologico del neoliberismo. La società va ricostruita, perché non esiste più., o per meglio dire, esiste ma non è in grado di darsi una autorappresentazione politica che non sia l’immaginario liberista.

Senza queste due cose, i discorsi sull’unificazione delle liste elettorali e sul posizionamento nell’arco parlamentare, Pd sì/Pd no, centrosinistra sì/centrosinistra no, non portano alcun consenso, sono letti come un farfugliamento autoreferenziale di apparati dirigenti alla ricerca di una sopravvivenza, non costruiscono politica. Non costruiscono nemmeno un popolo, dopo che l’entusiasmo per i 1.600 accalcati davanti al Brancaccio si esaurisce. Perché il popolo non si costruisce con gli eventi mediatici, ma con un paziente lavoro di ricostruzione di basi culturali e politico-programmatiche, e di luoghi fisici ed organizzativi dove far lievitare la passione.

E allora mi dispiace, ma nell’evento di ieri, non essendo ancora stato colto il punto vero della questione, non posso che leggere il tentativo di “fare qualcosa”, di fare movimento e quindi muovere un po’ di aria, nella speranza di far passare la nottata, di trovare un/una leader spendibile mediaticamente ed una aritmetica additiva in vista del 3%. Un grande stratega del calcio, che è un ruzzino per alcuni versi istruttivo, ovvero Liedholm, diceva sempre che la squadra vincente è quella che fa muovere il pallone più dei giocatori. Se si muovono i giocatori ma il pallone non viaggia, si gira a vuoto e si sprecano energie.

E siccome credo che D’Alema, il vero organizzatore dell’evento di ieri, non sia uno sciocco, ma anzi una intelligenza fine e perfida, da vent’anni impegnata a sterilizzare ogni energia di sinistra dentro schemi centristi e liberali, mi viene da pensare che l’ennesimo richiamo all’orizzontalismo civico e agli slogan buonisti non sia altro che un tentativo di rientrare in gioco (essendo lo spazio vicino al Pd precluso a D’Alema fintanto che Renzi sarà in vita) costruendosi una sinistra innocua e priva di capacità di esprimere una alternativa reale, di sistema.

Riccardo Achilli

La governabilità non dipende solo dal sistema elettorale, di V. Russo

Postato il

Vincenzo Russo

.

In un suo articolo sul Corriere della Sera del 5-06-2017, il prof. Angelo Panebianco facendo eco a tutti quelli che come lui sono aprioristicamente favorevoli al maggioritario lancia l’allarme sul fatto che verosimilmente l’adozione di un sistema “proporzionale” favorirà l’ingovernabilità del Paese. Evidentemente AP ha la memoria corta. Con il sistema proporzionale la DC ha governato per 44 anni anche in situazioni più drammatiche di quelle degli ultimi decenni, ossia, come sostiene Giovanni Sabbatucci con il “golpe in agguato”. Si potrà discutere sulla qualità dell’azione di governo e non mi pone nessun problema accedere all’idea che complessivamente e storicamente la Repubblica sia stata mal governata. Ma questo non dipende dal sistema elettorale dipende dalla qualità della classe politica in particolare e dalla classe dirigente in generale. Prova ne sia che con la II Repubblica non abbiamo visto un grande salto di qualità. Anzi i partiti tradizionali della prima, si sono dissolti per via del leaderismo e della personalizzazione della politica. Addirittura sono sparite alcune delle culture politiche più radicate nella società italiana. Con il crollo del Muro di Berlino (1989) e l’implosione dell’URSS (1991) finiva la Guerra Fredda e veniva meno la minaccia esterna che teneva insieme alcune forze politiche minori attorno alla DC. Con il proporzionale e il CAF (la coalizione tra Craxi, Andreotti e Forlani) non si è affrontato il problema del debito pubblico perché nel 1983 l’Italia agganciava la ripresa internazionale, e la “nave andava”. Si perse una occasione storica. In quel periodo, economisti, noti a livello internazionale, sostenevano che era il proporzionale a far lievitare la spesa e il debito pubblici e non il comportamento irresponsabile dei governi in carica. Ma come abbiamo visto, negli ultimi 25 anni, con il maggioritario “coatto” della II Repubblica non si è risolto il problema perché a governi di Centro-Sinistra relativamente virtuosi si sono alternati governi lassisti di Centro-Destra. E poi è arrivata la crisi mondiale che è stata affrontata con politiche economiche sbagliate che in Europa hanno provocata una doppia recessione e, quindi, oggettivamente e in particolare nei Paesi euromed, non c’erano le condizioni per poterlo fare. Allora ragionando in una prospettiva storica, è chiaro che almeno in Italia una sana gestione dei conti pubblici non dipende semplicisticamente dal tipo di sistema elettorale proporzionale o maggioritario ma dai valori che guidano l’azione dei governanti, dai loro comportamenti più o meno responsabili che si alternano alla guida dei paesi, e non ultimo dalle fasi congiunturali che attraversano l’economia mondiale e quelle nazionali. Non sto sostenendo che i sistemi elettorali non c’entrano per niente. Dico che essi concorrono in associazione ad altri fattori che hanno a che fare con l’etica pubblica e l’accountability dei governanti. Purtroppo questi fattori di natura morale in Italia non sono molto apprezzati e praticati nella sfera pubblica né in quella privata della società civile. Purtroppo il debito pubblico italiano è storicamente il frutto del patto criminale (implicito) tra i governi che si sono succeduti alla guida del Paese e gli evasori. Le statistiche ricostruite dalla Banca d’Italia e dall’Istat a partire dall’Unità ci dicono che l’Italia è sempre stato un Paese ad alto debito pubblico prima per via del finanziamento delle Guerre di indipendenza da parte del Piemonte e dei debiti pubblici ereditati dagli Stati preunitari, poi per via delle due Guerre Mondiali e della Grande depressione e, da ultimo, per via dell’ultima depressione. Ma non c’è solo l’evasione fiscale. La corruzione e l’estorsione dilagano nel paese e per debellarla non basta certo la nomina del Commissario straordinario e la creazione dell’ANAC (autorità nazionale anti-corruzione) con risorse umane e materiali limitate.
A proposito di evasione fiscale, ricordo che il Servizio Centrale degli ispettori tributari creato nel 1981 in forza di una legge voluta dai ministri Reviglio e Andreatta è stato sciolto dopo che era stato trasformato in un organo di mera consulenza – come se il problema dell’evasione fosse stato risolto. In vista dell’attuazione del federalismo si sono abrogati controlli esterni ed interni sugli EELL e le Regioni e poi ci si meraviglia che evasione fiscale e corruzione sono stabili e aumentino da 45 anni a questa parte. Nonostante che da cinque anni a questa parte il processo di attuazione del federalismo sia stato bloccato del tutto in concomitanza dell’approvazione della legge di riforma costituzionale poi bocciata dal referendum del 4-12-2016, non c’è stato alcun tentativo di attuare un sistema efficiente ed efficace di controlli interni ed esterni. Non senza menzionare che l’Italia resta la patria delle tre più grandi organizzazioni criminali del mondo che continuano a prosperare nel nostro paese e che si internazionalizzano progressivamente. E continueranno a farlo e, per altro verso, non si capisce che dette associazioni di stampo mafioso, a livello interno, continuano a controllare pacchetti rilevanti di voti qualunque sia il sistema elettorale adottato.
Il Sole 24 Ore nei giorni scorsi ha contato a livello locale 39 simboli di liste per le amministrative e, a livello locale, è vigente un sistema maggioritario, ma possiamo dire che la maggioranza delle Regioni e dei Comuni sono ben governati? E allora alcuni commentatori e politologi dovrebbero capire che la governabilità dipende dall’abilità dei politici al governo di far rispettare le leggi, di risolvere i problemi reali della gente e soprattutto dei più deboli e bisognosi. E questa abilità è tanto più alta quanto più alta è la coesione sociale, quanto più condivisa è l’etica pubblica, quanto più responsabili sono i politici e i funzionari pubblici nei confronti dei loro elettori e dei loro cittadini in generale, quanto più è condivisa è una teoria della giustizia sociale.
Ora è chiaro che in Italia su questo terreno siamo a livelli molto, troppo bassi. E se le principali forze politiche scelgono un sistema elettorale che prevede sue terzi di parlamentari nominati non dai grandi partiti di una volta ma da oligarchie e/o conventicole centralistiche che selezionano i candidati sulla base della fedeltà al leader, è chiaro che il rapporto di agenzia tra elettori ed eletti si allenta e fomenta la deresponsabilizzazione dei politici in generale. Molti si illudono che la risposta potrebbe venire da un leader volitivo e decisionista ma è solo una illusione a cui segue di norma una profonda delusione.
Se il processo legislativo degenera perché il governo ha espropriato all’85% le Camere della loro iniziativa legislativa e più della metà delle leggi viene approvata con il voto di fiducia che riduce al minimo e, alla fine, strozza il dibattito parlamentare, è chiaro che ne consegue la deresponsabilizzazione non solo dei politici ma anche del governo stesso e della PA che il governo dovrebbe controllare nella delicata fase di applicazione della leggi. In questo modo, il governo diventa dominus del tutto e del nulla e se, perversamente, si esercita a dire che è colpa della PA e in fatto la delegittima, non si rende conto che così facendo delegittima se stesso. Anche qualche buona legge resta inattuata e si rimedia proponendo una nuova legge senza aver analizzato i motivi per cui la precedente non è stata attuata e senza una valutazione preliminare dell’idoneità della nuova legge a risolvere il problema. Si consolida la prassi secondo cui i problemi si risolvono con l’approvazione di nuove leggi. Nell’era della sfiducia non solo tra elettori ed eletti ma anche tra i poteri dello Stato, ognuno chiede leggi sempre più precise, casistiche da applicare “burocraticamente” ma non di rado i problemi della gente rimangono irrisolti. Aumenta la sfiducia nei confronti dei politici e delle istituzioni che essi animano. C’è un rischio per la democrazia? Si e qui concordo con il prof. Panebianco ma non è solo un rischio. È una realtà. C’è in corso in Italia, in Europa e nel mondo una deriva autoritaria e tecnocratica che, pur non risolvendo i problemi reali della gente, lavora in tal senso. E la risposta secondo me non è quella del rafforzamento del governo ma delle istituzioni rappresentative.

Vincenzo Russo.

Riferimenti:

Giorgio Galli (1983) L’Italia sotterranea. Storia politica e scandali, Laterza, edizione club degli editori, Mi;a cura di Gianfranco Pasquino, in Paradoxa, anno IX, n. 4, Ott.-Dic. 2015; http://www.novaspes.org/paradoxa/scheda.asp?id=560;
Sabbatucci Giovanni, in Belardelli G., L. Cafagna, E. Galli della Loggia e G. Sabbatucci, Miti e storia dell’Italia unita, Bologna, il Mulino, 1999: 203-216.

tratto dal Blog  http://enzorusso2020.blog.tiscali.it/2017/06/12/la-governabilita-non-dipende-solo-dal-sistema-elettorale/

Reddito di cittadinanza – una ipotesi di lavoro per ritrovare il ruolo della sinistra, di A. Angeli

Postato il Aggiornato il

Alberto Angeli 2

.

“Reddito di cittadinanza, per l’Italia unica speranza. Onestà e dignità subito”: con questo slogan, cantato dalla testa del corteo del M5S, si è svolta sabato 20 maggio la marcia Perugia-Assisi per il reddito di cittadinanza. Questo punto del programma dei cinquestelle non sembra suscitare nella sinistra del nostro paese alcun interesse. Anzi, si coglie una alquanto sorprendente noncuranza, quasi un fastidioso silenzio. In verità alcune voci si sono spinte fino a dichiarare la richiesta poco realistica, se non valutata poco interessante, per la difficile sostenibilità economica. Altri propongo invece, come alternativa, un reddito minimo garantito ( reddito di inclusione) guardato come un indispensabile ampliamento del welfare, a cui associare politiche orientate verso il pieno impiego in una visione di complementarietà dei due temi. Entrambe le proposte partono dalla considerazione che annota il basso tasso di occupazione, la lentezza con cui viaggia l’economia e la forte esposizione debitoria del paese, trascurando il fatto che ciò costituisce un ostacolo molto serio alla introduzione di un reddito minimo garantito di tipo universalistico.

Su questa materia sono varie e articolate le ipotesi alle quali riferirsi, anche se condizionate dal modo con cui è pensato il reddito minimo. Ad esempio:

a) garantire un reddito minimo a chi non ha un lavoro, ovvero risulta indigente;

b) mettere in atto forme di lotta alla povertà mediante una rete di protezione minima, che garantisca la sussistenza, legando gli adeguamenti alla rilevazione dell’ISTAT sui dati del minimo vitale;

c) riorganizzare e ridisegnare il sistema del welfare creando un unico referente per la gestione del sociale e delle risorse economiche.

Ovviamente, cassa integrazione e sussidi di disoccupazione, già esistenti e basati sulla contribuzione obbligatoria, continuerebbero a persistere sotto il Ministero del Lavoro e della Previdenza. Il reddito garantito dovrebbe quindi rivolgersi a chi ha esaurito o non ha accesso ai due strumenti: a) e b), destinandolo alle persone in cerca prima occupazione o indigenti

Seguendo l’andamento della disoccupazione richiamando i dati ISTAT, possiamo rilevare che il tasso di disoccupazione è stabile all’11,9%, mentre risulta in lieve calo quella giovanile. La fotografia dell’Istat effettuata su gennaio 2017 evidenzia che le persone in cerca di occupazione erano 3.097.000, in aumento di 2.000 unità su dicembre 2016 e di 126.000 unità su gennaio 2016. E’ il caso di ricordare che a gennaio 2016 il tasso di disoccupazione era all’11,6%. L’Istat ci spiega che  l’aumento dei disoccupati rispetto all’anno precedente insieme all’aumento degli occupati (236.000 rispetto a gennaio 2016) è dovuto al calo degli inattivi tra i 15 e i 64 anni pari a -461.000.

Sul fronte della disoccupazione giovanile Il tasso cala invece al 37,9% dal 39,2% di dicembre, quindi un -1,3 punti. Ne risulta che l’incidenza dei giovani disoccupati tra 15 e 24 anni, sul totale dei giovani della stessa classe di età, risulta pari al 10,1%, risultando in calo di 0,6 punti rispetto a dicembre. Il tasso di occupazione dei 15-24enni permane stabile, mentre quello di inattività cresce di 0,6 punti.

Dal dato di gennaio si rileva che gli occupati crescono di 30.000 unità rispetto a dicembre, conseguendo quindi un +0,1% in percentuale e di 236.000 unità su gennaio 2016 ( dato assoluto) e +1 in percentuale. Tale aumento mensile, si rileva dalla nota dell’Istat, riguarda gli uomini e considera gli ultracinquantenni. Inoltre, il tasso di occupazione tra i 15 e i 64 risulta pari al 57,5% , cioè un +0,1 punti percentuali rispetto a dicembre. Gli occupati sono a quota 22.856.000. Per completare il dato prendiamo in considerazione quelli forniti dall’Eurostat , sull’andamento della disoccupazione dell’eurozona, che risulta stabile al 9,6% a gennaio 2017 rispetto a dicembre, mentre scende da 8,2% a 8,1% nella UE dei 28 ( includendo l’Inghilterra ) segnando in cifra il miglior risultato da gennaio 2009). Il dato italiano si attesta al quarto posto più alto dopo Grecia (23%), Spagna (18,2%) e Cipro (14,1%). Nel mese di gennaio, seguendo i dati dell’Eurostat, il tasso più basso si è rilevato a favore della Repubblica Ceca (3,4%) e della Germania (3,8%). Un dato positivo è Il calo della disoccupazione giovanile: nella zona euro passa dal 19,3% al 17,7%; mentre nella UE- dei 28 Paesi , passa dal 21,7% al 20%. Vale rilevare al proposito che in Italia resta la terza più alta d’Europa , dopo Grecia (45,7%) e Spagna (42,2%).

I dati ISTAT sulla difficile situazione sociale del Paese rilevata al 2015 stima che il 28,7% delle persone residenti in Italia sia a rischio di povertà o esclusione sociale. Se accettiamo la definizione adottata nell’ambito della Strategia Europa 2020, le persone che si trovano almeno in una delle condizioni adottate , sono indicate secondo il rischio o situazione: di povertà, grave deprivazione materiale, bassa intensità di lavoro.

La quota è sostanzialmente equiparabile a quella rilevata al 2014 (era al 28,3%) che, in sintesi, segnala un aumento degli individui a rischio di povertà (dal 19,4% a 19,9%) e il calo di quelli che vivono in famiglie a bassa intensità lavorativa (da 12,1% a 11,7%); permane invariata stima di chi vive in famiglie gravemente deprivate (11,5%).

Il Mezzogiorno risulta l’area più esposta al rischio di povertà o esclusione sociale: il dato ISTAT segnala che nel 2015 le persone coinvolte sale al 46,4%, dal 45,6% dell’anno precedente; quota che risulta in aumento anche al Centro (da 22,1% a 24%), mentre la cifra che riguarda il Nord si registra un calo dal 17,9% al 17,4%.

Ancora: la rilevazione Istat segnala come le persone che vivono in famiglie con cinque o più componenti, sono quelle più a rischio di povertà o esclusione sociale ( passano al 43,7% del 2015 dal 40,2% del 2014), quota che sale al 48,3% (dal 39,4%) se si tratta di coppie con tre o più figli e raggiunge il 51,2% (da 42,8%) nelle famiglie con tre o più minori.

Nel 2014, escludendo gli affitti figurativi, si stima che il reddito netto medio annuo per famiglia sia di 29.472 euro (circa 2.456 euro al mese). Considerando l’inflazione, il reddito medio rimane per la prima volta sostanzialmente stabile in termini reali rispetto al 2013, dopo il calo registrato dal 2009 (complessivamente -12% che diventa -10% se si considera l’aggiustamento per dimensione e composizione familiare, cioè il reddito equivalente). Inoltre, la metà delle famiglie residenti in Italia percepisce un reddito netto non superiore a 24.190 euro l’anno (circa 2.016 euro al mese), sostanzialmente stabile rispetto al 2013; nel Mezzogiorno scende a 20.000 euro (circa 1.667 euro mensili).

Fra le famiglie che hanno come fonte principale il reddito da lavoro, una su due dispone di non più di 29.406 euro se si tratta di lavoro dipendente e di non più di 28.556 euro nel caso di lavoro autonomo. Per le famiglie che vivono prevalentemente di pensione o trasferimenti pubblici la somma scende a 19.487 euro.

Includendo gli affitti figurativi, si stima che il 20% più ricco delle famiglie percepisca il 37,3% del reddito equivalente totale; il 20% più povero solo il 7,7%. Dal 2009 al 2014 il reddito in termini reali cala più per le famiglie appartenenti al 20% più povero, ampliando la distanza dalle famiglie più ricche il cui reddito passa da 4,6 a 4,9 volte quello delle più povere.

BREVE LETTURA DEGLI GLI AMMORTIZZATORI SOCIALI OPERANTI NELL’ORDINAMENTO ITALIANO

Nella tradizione della famiglia italiana il ruolo preminente del capofamiglia, cioè della figura che con il suo lavoro garantiva all’intero nucleo familiare il reddito necessario al suo sostentamento, ha decisamente influenzato l’evoluzione e l’orientamento giuridico dei sistemi di assistenza alla famiglia. Accadeva così che, se, per varie ragioni, l’unico percettore del reddito si fosse trovato nella condizione di non poter più provvedere a questa funzione, al sistema sociale vigente era affidato il compito di attivarsi secondo le condizioni che il sistema previsto. Questa caratteristica, comune alla maggioranza degli stati occidentali, è andata evolvendo nel corso del tempo, in specie dagli anni 60 in poi, in quanto è andata diffondendosi una cultura più aperta al ruolo della donna nel concorrere all’acquisizione di una parte del reddito familiare.

Con la nascita dello stato democratico e l’adozione della Carta Costituzionale, la struttura della società Italiana si regge quindi sul dettato previsto dall’art. 1 della Carta, che sintetizza inequivocabilmente il nuovo percorso socio-politico sul quale il Paese intende muoversi, affermando che:” che l’Italia è una repubblica democratica, fondata sul lavoro”. La Repubblica riconosce il diritto di ogni cittadino ad avere un lavoro e assume l’impegno affinché possa essere garantito a tutti, favorendo l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese, attraverso l’eliminazione di quegli impedimenti di ordine economico e sociale che ostacolano la libertà dei cittadini e creano ingiuste disuguaglianze tra gli stessi.

Il lavoro, che la Carta riconosce come un diritto, diviene, al contempo, un dovere di ogni cittadino, al quale si richiede di contribuire al progresso materiale e spirituale della società, in specie se lo stesso abbia uno stato psico-fisico con lo renda capace al lavoro. In corrispondenza a tale contributo al lavoratore uomo o donna è previsto sia riconosciuta e assicurata una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro svolto, sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’assistenza libera e dignitosa. Nel caso uno di essi diventi temporaneamente o permanentemente inabile al lavoro a causa di infortunio, malattia, invalidità o vecchiaia, invero, per motivi estranei alla sua volontà, venga meno il rapporto lavorativo, è riconosciuto Il diritto a ricevere l’assistenza dello Stato, in modo da non essere privato dei mezzi adeguati alle proprie esigenze di vita. Serve rilevare come l’ordinamento italiano preveda molteplici forme di assistenza al lavoratore disoccupato sotto forma di ammortizzatori sociali. In genere si tratta di sussidi economici di durata prestabilita per legge e di importo normalmente inferiore alla retribuzione prima percepita.

La dottrina che è venuta formandosi nel tempo in materia sociale, ha riformulato la nozione di “ammortizzatori sociali”, ritenendo estranee a tale sistema le indennità corrisposte in ragione dell’incapacità e inabilità lavorativa secondo le seguenti categorie : ad es. indennità per malattia o infortunio, pensioni di invalidità. Mentre ricomprende, invece, quelle che assistono il lavoratore in caso di interruzione o sospensione involontaria del rapporto lavorativo, erogate per un periodo d tempo ritenuto indispensabile al reperimento di una nuova occupazione o alla ripresa di quella sospesa, affinché il lavoratore non rimanga totalmente privo di risorse di sussistenza.

Il sistema degli ammortizzatori sociali è composto da molteplici strumenti. Nel tempo sono intervenute modifiche legislative che hanno accresciuto le differenze nelle modalità di applicazione di misure a sostegno del reddito e delle indennità. Generalmente gli ammortizzatori sociali sono classificati in tre categorie:

a) In caso di sospensione del rapporto di lavoro: trattamenti di integrazione al reddito (Cassa integrazione guadagni ordinaria

b) CIGO, e cassa integrazione guadagni straordinaria, CIGS) inclusi i trattamenti specifici per il settore agricolo e edile. In questa classe di interventi sono inclusi gli interventi in deroga della CIGS e i contratti di solidarietà nonché l’indennità di disoccupazione per i lavoratori sospesi.

c) b) In caso di cessazione del rapporto di lavoro: indennità di mobilità e indennità di disoccupazione.

d) c) Misure temporanee a sostegno dei lavoratori a tempo determinato, apprendisti e parasubordinati in regime di monocommittenza

Altri strumenti annoverabili come Ammortizzatori Sociali ed i relativi interventi di sostegno al reddito adottati sia a livello nazionale che a livello regionale, come accedere e le novità 2017:

-Assegno familiare (ANF) è una prestazione economica erogata ai lavoratori dipendenti in base a composizione famiglia (almeno due soggetti) e redditi dichiarati, che devono posizionarsi al di sotto dei

-Sussidio SIA, sussidio di inclusione attiva, potenziamento agevolazione per determinate tipologie di nucleo familiare, nuovi modelli di domanda;

-Cassa integrazione erogata dall’INPS e comprende: Sussidi agricoli, CISOA,DMAG e riguarda lavoratori agricoli, ( operai, impiegati, quadri e apprendisti, compresi i soci delle cooperative, apprendisti.

-Reddito Inclusione ( REI ) Al proposito è stato siglato il memorandum d’intesa sul reddito di inclusione (Rei) tra il Presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni, l’Alleanza contro la povertà e il ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali, Giuliano Poletti. Si tratta delle linee guida che definiscono i dettagli della nuova misura di contrasto alla povertà introdotta – in sostituzione di SIA, Carta Acquisti e ASDI – dal disegno di legge n. 2494, ovvero la Delega recante norme relative al contrasto della povertà, in termini di limiti di intervento e i requisiti per l’accesso al sussidio e di misure di supporto a livello…

-Maggiorazione assegno social

-Naspi durante il tirocinio, che non è un’attività lavorativa, di conseguenza il reddito che ne deriva è cumulabile con la Naspi: l’indicazione è contenuta nelle Linee Guida sul tirocinio.

-Pensione sociale e sussidi compatibili

-Sussidi ai terremotati: i beneficiari al sussidio sono i lavoratori delle zone colpite dal terremoto dello scorso anno (24 agosto e 26 ottobre 2016) e che, a causa di tale evento, hanno dovuto interrompere l’attività: Ministero del Lavoro e Regioni hanno siglato la Convenzione che consentirà di erogare fino a 4 mesi di sussidi a dipendenti, lavoratori autonomi, anche titolari di impresa, professionisti iscritti a qualsiasi forma obbligatoria di previdenza e assistenza e collaboratori coordinati e continuativi. Sospensione contributi sisma: domanda INPS L’indennità verrà erogata entro un limite di spesa…

-Reddito di inclusione,

-Ricollocamento disoccupati: si tratta di 30 mila disoccupati italiani, estratti a caso, (tra coloro che percepiscono la NASpI da almeno 4 mesi), stanno arrivando le prime lettere per beneficiare dell’assegno di ricollocamento.

-NASPI è possibile presentare la richiesta dopo aver sottoscritto un accordo di conciliazione non presso la DTL

-Sussidio Fondo integrazione salariale (FIS)

-Sussidi erogati dalle Regioni e dai comuni: i nuovi requisiti restano invariati rispetto al 2015 e 2016. Lo comunica l’INPS, con circolare 55/2017,

-APe Social,

-NASpI 2017, (assicurazione sociale per l’impiego )

-Dis-coll stabile, estesa a ricercatori e dottorati, così Il sussidio di disoccupazione Dis-Coll diventa strutturale:

-Premio alla nascita, la domanda, in via telematica, deve essere rivolta all’INPS e solo dopo il settimo mese di gravidanza

-Lavoratori Socialmente Utili-

-Assegno di natalità

-Assegni Familiari in part-time

-Fondo solidarietà personale del credito

Quelli elencati sono solo alcuni degli strumenti a cui la politica sociale del Paese ricorre, una diffusa e smagliata rete di interventi, che ingloba anche una mini serie di altre provvidenze che sfuggono alla contabilità generale, poiché la fonte di spesa è gestita direttamente dai Comuni o dalle Regioni. Ad esempio: sconti su metano, immondizia, integrazioni o interventi sociali a sostegno delle famiglie impossibilitate a pagare un canone d’affitto, altre iniziative difficili da rendicontare.  Tutto ciò, il sistema del Welfare nel suo complesso, ha una spesa che, direttamente o indirettamente, poggia sul bilancio dello Stato. Una lettura dei conti evidenzia come il Welfare del nostro Paese sia il più caro d’Europa.

Brevemente: la spesa per prestazioni sociali nel 2015 ammonta a 444,396 mld di euro, venendo a gravare per il 54,13% sulla spesa statale comprensiva degli interessi sul debito, rappresentando il 27,34% del PIL; un dato che ci proietta nella prima fila Europea. Una spesa enorme, inimmaginabile la possibilità di sostenerla per il futuro a favore delle giovani generazioni, sulle quali grava già l’enormità del debito pubblico.

Il Ministro Poletti afferma con convinzione che il sistema tiene e prospetta una sostenibilità nel tempo, sia sul versante delle pensioni che dei conti pubblici. Ma se stiamo alle cifre, guardando i dati del welfare del 2014, di cui si può disporre delle entrate tributarie, si replica con le stesse cifre pari a 444,507 mld, per ripetere questa performance occorrono tutti i contributi sociali per pensioni e prestazioni temporanee, quelli dell’Inail, tutta l’rpef, l’ires, lirap e kl 36% dell’Isos. Vale a dire tutte le imposte dirette, così che la restante spesa pubblica si finanzia con le imposte indirette.

Secondo i dati dell’IPNS la spesa pensionistica di tutte le gestioni è stata per il 2015 pari a 217,895 mld di euro, con un incremento rispetto al 2014 dello 0,82%, un dato contenuto dal basso livello dell’inflazione e all’applicazione della sentenza della Consulta in relazione alla rivalutazione, che il Governo Renzi ha applicato in termini riduttivi. C’è poi da considerare l’applicazione dei provvedimenti Fornero, da cui è pervenuta una spinta per le pensioni anticipate, che ha consentito nel 2015 il pensionamento di circa il 74% degli aspiranti sul dato del 2014.

La spesa reale, sottratte le entrate contributive a favore dello Stato da quella effettiva dei lavoratori e datori di lavoro, si attesa a quota 172,214 mld. che scende ulteriormente se si sottrae quanto incassa lo stato direttamente, la spesa totale si attesta a 159,164 mld di euro.

Un altro campo di spesa è quello dell’assistenza che nel 2015 ha riguardato circa 4.040.626 assistiti e 4.265.233 di altri assistiti mediante integrazioni al minimo e maggiorazioni sociali, quindi un totale di 8.305.859 beneficiari, vale a dire il 51,34% dei pensionati. Nella sostanza, il costo totale degli interventi assistenziali vale nel 2015 all’incirca 103,00 mld.

Se volessimo completare la riflessione su questa parte, riportando quanto negli altri Paesi dell’Europa viene fatto per il Welfare e speso per il sostegno alle politiche sociali, sicuramente ciò sarebbe utile ma ci allontanerebbe dal nostro proposito che, in definitiva, resta quello di capire come muoverci nella direzione di una politica a favore del reddito di cittadinanza. A ciò si lega il quadro delle risorse economiche e dove cercarle e a quale fasce di società destinare l’intervento. Un intervento, si badi bene, che si pone in alternativa al reddito di inclusione, su cui l’attuale Governo e la maggioranza che lo sostiene si stanno muovendo con atti decisivi.

D’altro canto una rapida attenzione alla contabilità ci rende immediato l’ordine dei fattori su cui costruire anche una minima ipotesi. Infatti, partendo dall’analisi effettuata finora, è possibile svolgere un calcolo riguardo al costo di un eventuale reddito di base incondizionato e pari a 600,00 Euro mensili, cioè all’anno 7.200,00 Euro netti, pari alla soglia di povertà accettata statisticamente. Si potrebbe poi proseguire per fasce di indigenza, adottando i dati forniti dall’ISTAT, fino all’ultima fascia della povertà assoluta che, a seconda della condizione del calcolo, fornirebbe una cifra che oscillerebbe dai 32,346 mld di euro a quella massima di 46,356 mld.

In conclusione di questa riflessione, sulla base dei calcoli statistici che qui non sono riprodotti, anche per il fatto che in certi casi i dati sono purtroppo approssimati e non aggregabili per mancanza di indagini e analisi ( e anche per non appesantire questa breve nota), è evidente una insostenibilità economica concreta di un eventuale progetto volto ad introdurre il reddito di cittadinanza universalistico. Un rilievo che non è privo di alternative, che potrebbero però profilarsi nel caso di un sistematico e profondo riordino di tutto il Welfare e di una revisione del sistema fiscale, in specie per la parte delle deduzioni e detrazioni che, secondo una linea presente in molti economisti, possono essere riaggiornate con notevoli risparmi per l’erario e lo Stato.

Quindi, la storia non dovrebbe finire qui. Chi scrive ritiene che nonostante le difficoltà del bilancio pubblico, i dati della disoccupazione, la diffusa povertà ed esclusione sociale, la lentezza che l’economia registra e la difficoltà in cui si trova il sistema bancario; insomma nonostante il paese non viva uno dei suoi momenti migliori anche la sola riflessione riguardante l’introduzione del reddito di cittadinanza implica un cambio ideologico e di mentalità, al punto da potersi considerare una svolta rivoluzionaria del pensiero della sinistra.

La sociologia – e la storia della sinistra – ci ricorda come la maggior parte delle persone lavora solamente per guadagnarsi un reddito per vivere; il lavoro non è fine a se stesso ma è finalizzato solo ad ottenere una remunerazione. Sicuramente uno strumento di difesa come quello individuato nel reddito di cittadinanza, conferirebbe coraggio al cittadino, una maggiore fiducia e credibilità verso le istituzioni, e a nessuno verrebbe la tentazione di ottenere profitti a discapito di altri.

Certo, questa prospettiva introduce problemi di grande rilevanza sia sotto l’aspetto dell’equità che di quello della giustizia e della coerenza. Intanto con la parola universalità già si introduce un tema delicato che riguarda una delicata questione relativa alla definizione di cittadino. Sappiamo che  la cittadinanza italiana è regolata dal cosiddetto “ius sanguinis”, letteralmente diritto di sangue. Nella sostanza, tale concetto significa che è cittadino italiano chi nasce da genitori con cittadinanza italiana, o se è nato sul territorio italiano con entrambi i genitori ignoti o apolidi oppure se il figlio non segue la cittadinanza dei genitori secondo la legge dello Stato al quale appartengono. Infine, acquisisce cittadinanza italiana per nascita anche il figlio di ignoti trovato nel territorio italiano nel momento in cui non viene provato il possesso di un’altra cittadinanza. La stessa normativa stabilisce delle eccezioni, dando la possibilità di acquisire la cittadinanza attraverso lo “ius soli”, diritto di territorio; infine, vi è la possibilità di acquisire la cittadinanza tramite il matrimonio se si è in presenza di determinati requisiti il coniuge, che sia straniero o apolide, di cittadino italiano, acquisisce la cittadinanza quando, dopo il matrimonio, risiede legalmente per 2 anni in Italia. Questi sono alcuni casi che presuppongono comunque una presa di coscienza della diversità di normativa, più favorevole, che viene applicata in altri Paesi dell’Europa.

D’altro canto, in un mercato del lavoro sempre più flessibile e precarizzato come l’esperienza del nostro paese ci ricorda, dove diventa sempre più facile perdere anziché trovare un nuovo lavoro, un dispositivo di reddito di cittadinanza permetterebbe al cittadino posto fuori dal mercato di avere una continuità economica per i periodi in cui il mercato non offre possibilità di reimpiego; ciò costituirebbe un aiuto positivo innanzitutto per i lavoratori, ma anche per il mercato stesso. Sempre per quanto concerne il livello sociale, attraverso un dispositivo di questo genere, è possibile prevenire l’esclusione sociale degli individui con un reddito non continuo ed esiguo, ovviamente mantenendo un rigido controllo sugli utenti del beneficio per evitare comportamenti tesi a violare la natura e lo scopo specifico del reddito di cittadinanza

Questo comporta un ‘controllo’ sulla effettiva disponibilità a lavorare e ad accettare le proposte di lavoro che gli Enti preposti alla formazione e assistenza al quel cittadino formuleranno al proposito. Questo rischio è richiamato con forza da coloro che contrastano o sono decisamente contrari all’introduzione del reddito di cittadinanza. I beneficiari potranno quindi decidere se un lavoro è coerente con le proprie competenze, decidere se trasferirsi o meno per lavorare, e non essere obbligati a farlo. Con la presenza di un dispositivo di questo genere, è possibile combattere il lavoro nero, ci sarebbero meno presupposti per incoraggiarlo, in quanto si è dotati di un minimo vitale e anche perché, nel momento in cui si compie il reato, vi è la sospensione del sussidio.

Dopo aver esposto le caratteristiche principali del sistema attuale delle politiche per il sociale del nostro paese e delle sue lacune, dagli ammortizzatori sociali ai fenomeni di precarietà, disoccupazione ed esclusione sociale, senza ignorare le difficoltà politiche e poi quelle economiche, si può concludere sostenendo che il reddito di cittadinanza si prospetta come una variabile politica innovativa e concettualmente ( ed economicamente ) percorribile. Poiché, incamminandosi su questa strada, la sinistra può ritrovare il ruolo che la storia le ha assegnato, essendo questo il terreno del sistema sociale su cui ha costruito la lotta e la prospettiva del cambiamento politico. Qui, può recuperare il suo ruolo e ritrovare il consenso necessario per porsi come l’unica alternativa al populismo .

Alberto Angeli 
————————————————-

NB: i dati sono rilevati da:

INPS, ISTAT, Banca d’Italia, Eurostat, OO.SS., Centro Studi Conf.a

Il 1° Maggio 1947, nel racconto di Serafino Petta, ultimo sopravvissuto alla strage di Portella della Ginestra

Postato il Aggiornato il

Portella della Ginestra

.

Due giorni fa, al “Giornale di Sicilia”, l’ultimo sopravvissuto all’eccidio dei lavoratori avvenuto a Portella della Ginestra il 1° Maggio 1947 ha lasciato la sua testimonianza importante, che vogliamo ricordare anche noi per capire il valore del 1° Maggio che quest’anno CGIL, CISL e UIL hanno deciso di festeggiare uniti proprio in quella località, per non dimenticare. Questo il suo racconto:

“Ci eravamo dati appuntamento per festeggiare il Primo maggio ma anche l’avanzata della sinistra all’ultima tornata elettorale e per manifestare contro il latifondismo. Non era neanche arrivato l’oratore quando sentimmo degli spari”, racconta settant’anni dopo ancora commosso Serafino Pett, l’ultimo sopravvissuto alla strage di contadini di Portella della Ginestra, che fece 12 morti e 27 feriti.

“Avevo 16 anni, pensavo che fossero i petardi della festa, ma alla seconda raffica ho capito – continua -. Ho cominciato a cercare mio padre, non l’ho trovato. Quello che ho visto sono i corpi distesi per terra. I primi due erano di donne: la prima morta, sua figlia incinta ferita. Questa scena ce l’ho ancora oggi negli occhi, non la posso dimenticare”.

“A sparare fu la banda di Salvatore Giuliano, i mandanti non si conoscono ancora ma ad armare la sua mano furono la mafia, i politici e i grandi feudatari – spiega Petta -. Volevano farci abbassare la testa perché lottavamo contro un sistema in cui poche persone possedevano migliaia di ettari di terra e vi facevano pascolare le pecore, mentre i contadini facevano la fame”.

“Un mese dopo successe però una cosa importante – dice con orgoglio – Tornammo qua a commemorare i morti senza paura, “Non ci fermerete”, gridavamo tutti e non ci hanno fermati. Abbiamo cominciato la lotta per la riforma agraria e nel ’52 abbiamo ottenuto 150 assegnatari di piccoli lotti. Ma neanche loro si sono fermati, e a giugno bruciarono sedi di Cgil e partito comunista, poi nel mirino finirono anche i sindacalisti”.

.

La fonte di questo articolo è consultabile al link  http://palermo.gds.it/2017/04/30/portella-della-ginestra-la-strage-negli-occhi-dellultimo-sopravvissuto-ora-la-mafia-e-nei-palazzi_659736/