renzi
Io voglio ancora il PSI, col simbolo e la sua lista, di G. Martinelli
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Quando nel 2007 decisi di partecipare alla Costituente socialista mi fu principalmente chiara una cosa . Ripartecipare ad un Partito il PSI che doveva ritornare ad essere importante nella vita politica e sociale in Italia . Io dopo il 1992 , in particolare, sono stato da socialista laburista nei Democratici di Sinistra e in SEL ma quando decisi di ritornare lo feci in modo chiaro e deciso non fidandomi più di loro . Il tutti questi anni ho cercato con tutte le mie forze di costituire insieme ad altri una vera e forte Comunità Socialista che per primo avesse il compito di riportare il nostro simbolo Socialista o di Area Socialista alle elezioni europee e nazionali. E’ da dopo il 2009 che un simbolo ed una lista socialista o di area non è stata più vista sulle schede elettorali . Non ne parliamo del Patto federativo con il PD renziano . Io ora dico che la speranza di vedere una nostra lista ed un nostro simbolo socialista riformista non l’ho ancora persa anche alleata ad altri Partiti e Movimenti della Sinistra Riformista e di Governo ! Io sono sempre stato chiaro sia nelle riunioni del PSI e sia in quelle di Socialisti in Movimento . Se qualcuno crede che quella prospettiva non è attuabile lo dica apertamente . Io già da ora non sono d’accordo con lui senza se e senza ma !
Gabriele Martinelli
Con il voto delle primarie il Pd ha rottamato se stesso. Non è più il partito fondato 10 anni fa. Ha perso valori, forma, storia e ambizione maggioritaria, di C. Maltese
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Con il voto delle primarie il Pd ha rottamato se stesso. Non è più il partito fondato dieci anni fa. E non solo perché oltre la metà dei 45 padri fondatori se ne sono già andati e altri seguiranno. Di quel partito ha perso i valori, la forma, il forte ancoraggio alla storia della sinistra italiana e infine l’ambizione maggioritaria. Nei fatti il Pd è diventato da unico partito strutturato d’Italia a ultima lista personale, il PdR, simile a Forza Italia di Berlusconi o alla Lega di Salvini. Si è convertito al personalismo proprio quando questo modello sembra superato dalla storia. La mutazione genetica del Pd si è dunque compiuta, come temeva Eugenio Scalfari ai tempi del duello Bersani-Renzi. Il Pd è ora un partito di centro che guarda a destra. Alle prossime elezioni sarà alleato, sia pure non dichiarato, del diavolo in persona, Silvio Berlusconi, del quale del resto Renzi condivide in pieno il programma sociale, la visione d’Italia, la retorica ottimista e finanche la posizione sull’Europa.
La leadership, lo stile, la politica e le alleanze del PdR sono del tutto chiare. Meno chiaro è il peso elettorale del nuovo soggetto. I sondaggi lo accreditano di un 25-30 per cento, sopra o sotto di poco al Movimento 5 Stelle. I dati del voto reale raccontano un’altra storia. Nella storia del Pd la partecipazione al voto delle primarie ha sempre annunciato il risultato elettorale delle elezioni successive. Le primarie del Pd di Veltroni portarono ai gazebo 3,5 milioni di persone e il partito ottenne l’anno dopo il 33,4. Con Bersani segretario il Pd scese sotto i tre milioni di voti alle primarie e ben sotto il 30 per cento alle politiche. Se questo calcolo ha un senso, e forse ne ha uno più autentico dei sondaggi, oggi il Pd di Renzi faticherebbe a toccare il 20 per cento. Naturalmente i renziani sono troppo furbi per non aver sparso alla vigilia stime talmente basse da poter festeggiare oggi il milione e 800 mila votanti. Ma si tratta di un dato assai deludente, in una fase in cui in Italia e in Europa, come testimoniano tutte le elezioni e i referendum, i popoli hanno riscoperto l’arma del voto.
Un Pd a immagine e somiglianza di Matteo Renzi, con un peso elettorale ridotto e un’alleanza organica col berlusconismo, pone le condizioni perché anche in Italia nasca un’ampia area di sinistra alternativa, com’è stato prima nella Grecia di Syriza, quindi nell’Irlanda del Sinn Fein, nella Spagna di Podemos e ora nella Francia Insoumise di Jean-Luc Mélenchon.
Occorre che a sinistra del Pd i molti leader e partitini facciano un passo indietro, mettendo da parte i narcisismi, e due in avanti, convocando una grande assemblea unitaria, aperta alla società, alle associazioni, ai sindacati e soprattutto ai milioni di cittadini di sinistra che oggi non hanno più una casa politica. Non c’è molto tempo per i distinguo. Renzi sta per staccare la spina al governo e si rischia di andare alle prime elezioni della storia repubblicana senza una vera sinistra. Fate presto.
Curzio Maltese
Tratto dal Blog dell’ Huffington Post del 1° Maggio 2017 http://www.huffingtonpost.it/curzio-maltese/con-il-voto-delle-primarie-il-pd-ha-rottamato-se-stesso_a_22063615/
L’insostenibile leggerezza della Seconda Repubblica, di A. Valenzi
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In tutta coscienza, dopo quanto accaduto dal 2011 in poi (ma dovrei scrivere dal 1992), non sarà per Gentiloni che mi straccio le vesti.
La richiesta del voto subito è suggestiva, ma insensata.
Senza una legge elettorale equivarrebbe a votare a vuoto, sprofondando di nuovo nel caos, che stavolta sarebbe totale. Votare dopo il parere della Consulta sull’Italicum significherebbe dare ogni risoluzione di controversia politica alla Magistratura. Ed è un principio discutibile.
Gentiloni sarà alla guida di un Governo a scartamento ridotto.
Non potrà durare più di un anno (al massimo) e sarà un anno di campagna elettorale permanente, quindi non avrà la piena libertà di manovra di un Monti, di un Letta o di un Renzi che erano alla guida di Governi con prospettive di durata molto più lunghe.
Sempre ammesso poi che riesca a ottenere la fiducia in Parlamento.
Il quadro in cui si muove è fragile. Il partito di cui fa parte, il Pd, è depotenziato rispetto al Pd del 2013 e se andasse a Congresso entro quest’anno (come ci andrà, ne ha tutto l’interesse) dovrà fare i conti con quella minoranza che ha vinto al referendum.
Il Pd non è più dunque quel perno aggregativo del 2013, e questo vorrà dire che molti abbandoneranno la barca, soprattutto tra gli alleati, che cominceranno a fare i conti su come presentarsi alle prossime elezioni.
Non è una situazione “Gentiloni al posto di Renzi e tutto è come prima”. L’onda d’urto del referendum è stata dirompente, e se ne sono accorti.
Piuttosto bisognerà richiamare alla ragione il M5S, che ora più che mai ha bisogno di dotarsi di quella struttura che fino ad oggi ha rifiutato di darsi, ma che adesso diventa imprescindibile. E a situazione mutata, che cambi anche la tattica: l’isolazionismo in cui si è chiuso e che è servito in un momento in cui aprirsi non aveva senso (lo aspettavano cinque anni di opposizione), oggi il senso non lo ha più.
La coalizione referendaria del No deve ora spostarsi sulla tutela della sovranità nazionale, la cui minaccia è oltre Gentiloni.
Fermarsi alla sola vittoria, significa aver fatto un lavoro a metà.
Il Comitato del No non ha sciolto i suoi comitati territoriali, e bene ha fatto. Perché la guerra continua anche dopo la brillante vittoria nella battaglia referendaria. Sono più deboli, ma non sono finiti. Siamo più forti, ma non abbiamo ancora vinto.
Antonio Valenzi
Brevi riflessioni su la proposta di Pisapia, di S. Valentini
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A me pare che Pisapia ponga una questione giusta ma si rivolge all’uomo sbagliato, a Renzi.
C’è la necessità di ricostruire un campo largo delle forze democratiche e progressiste alternativo a tutti gli altri schieramenti. Il centro sinistra deve marciare almeno su due gambe, e su questo sono d’accordo.
Ma la strategia neocentrista di Renzi va in questa direzione? Mi pare di no. Il progetto di Pisapia passa quindi solo se la strategia neocentrista del Pd, oggi dominante, sarà sconfitta. Attenzione, il renzismo non è solo Renzi, al di la delle sue varianti è una strategia che ha molti sostenitori. E’ la vocazione del maggioritario, su cui il Pd è nato, dunque è in continuità con il veltronismo.
Per un Pd che guardi a sinistra occorre sperare nella forza di persuasione di altre figure, anche tra loro molto diverse, come Bersani e la Bindi, che dicono cose molto giuste, quasi di “rifondazione” del Pd. Saranno in grado di spostare l’area dorotea di Franceschini verso tale progetto, insomma di dar vita a una nuova maggioranza dentro il Pd? L’operazione è possibile ma non certa. Questi dovrebbero essere gli interlocutori del progettodi Pisapia dentro il Pd.
Seconda interrogativo. Chi ricostruirà la gamba di sinistra di questo progetto?
Bersani? La Bindi, Cuperlo? A me pare che questi vedano solo come orizzonte il Pd, anche se Bersani mi pare molto attento affinché il partito tessa rapporti per costruire il campo largo. A meno di una iniziativa avventuristica (da non escludere di Renzi, ma Mattarella e Franceschini sono pronti a stopparla) non mi pare che la sinistra del Pd, nel suo insieme, sia proiettata ad abbandonare il Pd.
Infine, il dato più drammatico: la sinistra è divisa in tanti rivoli, non si muove unitariamente nella direzione che chiede Pisapia. Gli arroccamenti, le visioni identirarie, i piccoli interessi di bottega la spingono ancora una volta, nonostante il potenziale del bacino a due cifre offerto dal voto referendario sul No, sulle rive del minoritarismo. Occorre allora che si affermi nelle prossime settimane una leadership forte a sinistra, in grado di portare avanti il progetto di Pisapia e nel contempo favorire, dall’esterno, un ricollocamento del Pd sul versante che chiede Bersani. Per fare questo il ruolo di Pisapia è insufficiente. È importante ma troppo poco. Occorre altro!
E qui vado al punto. È necessario che scendano coraggiosamente in campo, come ha fatto Pisapia, altre figure, in particolare mi riferisco a De Magistris e a D’Alema con il sostengo in qualche misura riconoscibile della Cgil. Non è la mia una eresia o una burla da “scherzi a parte”. Se se vuole un nuovo soggetto politico della sinistra che incida, occorre unire e non dividere. Unire senza pregiudizi.
De Magistris è portatore di una visione fondamentale per la sinistra, una visione non politicistica. Egli è attento a tutto ciò che viene dai territori: le grandi lotte per la pace, il lavoro, i beni comuni e la tutela dell’ambiente. Insomma è portatore di una visione per cui la sinistra non è solo la sommatoria di ceti politici ma un movimento ampio capace di rappresentare i conflitti, di movimenti che partecipano da protagonisti al processo costituente di un nuovo e autonomo soggetto politico. Senza un robusto insediamento sociale non vi sarà mai un un uovo soggetto politico della sinistra convincente.
D’Alema, poiché in questa fase, come ha mostrato in tutta la campagna referendaria, è il dirigente più autorevole che la sinistra dispone; ha legami internazionali e rapporti forti con personalità del mondo della cultura.
Qualcuno prenderà l’iniziativa di porsi sulla strada proposta da Pisapia ma aggiustando il tiro?
Non ne ho idea ma so che bisognerebbe fare qualcosa e subito.
Alessandro Valentini
La legge di bilancio ignora le politiche abitative, di M. Pasquini
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La legge di Bilancio che sarà approvata oggi al Senato con il voto di fiducia (ad un governo dimissionario) ci consegna una legge di bilancio che a mia memoria, per la prima volta non contempla nessuna, nessuna, nessuna norma che abbia anche solo superficialmente a che fare con le politiche abitative.
Zero euro per programmi di aumento di offerta di alloggi a canone sociale. Zero euro per il fondo contributo affitto, in assoluta continuità con la legge di stabilità per il 2016. Fondo morosità incolpevole che dai circa 60 milioni di euro del 2016 viene ridotto a 36 milioni di euro (ovvero un contributo, per i soli sfrattati per morosità del 2015, pari a circa 50 euro mensili).
In questo modo il Governo condanna per i prossimi tre anni le 700.000 famiglie collocate nelle graduatorie a continuare ad abitare le graduatorie, senza alcuna prospettiva.
In questo modo si condannano le 350.000 famiglie che avevano diritto al contributo affitto al baratro dello sfratto per morosità per l’azzeramento del contributo affitto.
In questo modo si condannano le circa 60.000 famiglie che ogni anno subiscono lo sfratto per morosità, e che avrebbero il diritto a ricevere un contributo di 12.000 euro per stipulare un nuovo contratto ed uscire dallo sfratto, a subire l’onta di poter, al massimo e per una parte minoritaria di loro ad avere un contributo medio mensile di circa 50 euro per uscire dallo sfratto per morosità.
Quanta miserevole e sciatta politica vedo in Italia.
Ma non è solo il Governo che segna una assoluta indifferenza sulla questione abitativa e sul livello di precarietà raggiunta, a ruota Regioni e Comuni, nessuno escluso, perseguono la stessa strada.
Avanti con l’ipocrisia sparsa a piene mani l’importante è fare il presepe con due palestinesi, coppia di fatto e baraccati che esprimevano una speranza, che oggi le amministrazioni, centrali e locali, fanno morire.
Massimo Pasquini (Segretario nazionale dell’Unione Inquilini)
Poche considerazioni sul referendum, di R. Achilli
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Questo voto ha una rilevanza sotto numerosi aspetti, ci consegna la lettura di un Paese che forse non conoscevamo granché. E’ evidentemente un voto di classe, il No è stato portato avanti, oltre che da una piccola élite intellettuale illuminata (penso ad esempio ai costituzionalisti schierati per il No, ai tanti appelli venuti dal mondo accademico) soprattutto da quel largo schieramento sociale che i “benefici” delle riforme renziane non lo hanno visti, o hanno addirittura visto peggiorare le loro condizioni: disoccupati di lungo periodo e giovani inoccupati ben lontani dagli illusori bricolage delle politiche per il lavoro fai-da-te: ti do’ un voucher e poi te la vedi tu come spendertelo in un mondo di squali come quello del sistema formativo; ceti medi che sprofondano verso la povertà e vivono l’assillo della minaccia quotidiana di perdere il lavoro, piccola borghesia in parziale proletarizzazione ed angariata da un carico fiscale tutt’altro che in riduzione, insegnanti deportati in puro stile titino in giro per l’Italia ed umiliati dal Rondolino di turno, dipendenti pubblici che non si sono accontentati della mancetta degli 85 euro, perché non vedono valorizzato il loro lavoro quotidiano e sono umiliati dalla retorica della burocrazia soffocante, precari sempre più precarizzati e partite IVA prese in giro con la modesta riformicchia a loro dedicata.
Non è un caso, ed è la cartina di tornasole del connotato di classe di questo voto, che i risultati più netti arrivino dal Mezzogiorno, dall’area territoriale, cioè, che più di tutte raccoglie la sofferenza sociale del nostro Paese. E che ci insegna una grande lezione di dignità e riscatto. Tutti noi pensavamo che il voto al Sud sarebbe stato manovrato ed inquinato dai feudatari del voto, quando non addirittura dalle organizzazioni criminali. Il 67% del No in Calabria, i risultati di province come Salerno e Napoli ci parlano di un Sud ben più autonomo ed arrabbiato di quanto pensassimo. I meccanismi consociativi affogano nella progressiva riduzione delle risorse finanziarie necessarie per ungere le ruote. La spending review diventa il killer di una classe politica notabiliare meridionale che da sempre garantiva di attaccare il ciuccio dove voleva il padrone. Abbandonato a sé stesso dal Governo Renzi, che prima ha svuotato il Fondo Sviluppo e Coesione per altri fini, e poi ha rivenduto banali riprogrammazioni dei fondi strutturali già assegnati come miracolistici Masterplan, il Sud lancia la sua voce di dolore, ma anche di dignità. E ricorda alla politica che niente, in questo Paese, può essere fatto senza dedicare sforzi e progettualità vera al grande malato.
Dentro questo voto soffiano molti venti: sicuramente il vento della stanchezza, di un Paese allo stremo, per otto anni di crisi alternata a stagnazione, e di assenza di prospettive di riscatto a breve. Questo Paese non ha accettato la retorica del cambiamento continuo, dell’innovazione per l’innovazione, proposta dai renziani. A Bagnoli, ad esempio, servono condizioni di abitabilità decenti, ambiente, lavoro e legalità, non le futuristiche strutture immaginate da Renzi per chiudere l’infinita storia della riconversione dell’ex polo siderurgico. E così in tutte le Bagnoli che ricoprono questo Paese, anche in un Nord che ha perso il suo connotato mitico di locomotiva economica, e che oggi lotta fra aziende che chiudono, condizioni lavorative sempre più disastrose, disgregazione di quel tessuto di coesione sociale che era garantito dal vecchio modello distrettuale, oggi preso letteralmente a mazzate dalla concorrenza dal lato dei costi esercitata dai Paesi emergenti (spesso operanti addirittura dentro la casa distrettuale, vedi Prato ed il distretto parallelo e clandestino dei cinesi) e dall’incapacità morale e progettuale dei rampolli odierni dell’imprenditoria settentrionale nel proporre un patto sociale e produttivo fatto di coesione, compartecipazione, innovazione e qualità. La disgregazione dell’impianto contrattuale, per inseguire un modello americano di competitività aziendale, non rilancia la produttività perché scarica semplicemente sul salario i mancati guadagni di redditività dell’azienda. La burocrazia confindustriale è fra i principali sconfitti di questo voto, perché ha creduto, attraverso la riforma costituzionale, di trasferire alle istituzioni pubbliche il modello padronale-efficientistico ed accentratore, oramai obsoleto, che rappresenta la base culturale della nostra borghesia. Questo modello di governance, che esclude la cogestione e il dialogo organizzativo interno, è il principale responsabile, insieme ad un sistema creditizio asfittico e politicizzato ed allo smantellamento della grande impresa pubblica che faceva innovazione radicale, della spoliazione industriale del Paese e dell’asfissia del nostro processo di accumulazione. Non è stato permesso, a questo modello perdente, di trasferirsi nella sfera costituzionale.
Se soffia il vento della stanchezza, soffia anche quello della rabbia e del rancore, e la nostra classe dirigente farebbe bene a stare molto attenta, perché gonfia le vele del populismo, e preannuncia rese dei conti ben più violente di quelle di un voto referendario. Nei tanti renziani che oggi sfogano la delusione per la sconfitta richiamando il modello-Renzi e prendendosela con un Paese che non lo avrebbe capito, o che non avrebbe il coraggio di seguirlo, è assente ogni consapevolezza razionale minima circa ciò che sta montando dentro il Paese reale. I sistemi politici ed ideologici che spingono popolazioni intere verso miti futuristici e mete gloriose, incuranti delle sofferenze sociali ed individuali che tale processo innesca, sono destinati al crollo. E’ vero per gli Khmer Rossi ed è vero anche per il renzismo.
L’unico modo per sconfiggere il populismo è quello di scendere al livello delle ansie, delle paure, delle frustrazioni, delle sofferenze che lo alimentano. Sapendo dare a queste la priorità rispetto al disegno generale ed agli obiettivi futuri. Dicendo che Ventotene, che il multiculturalismo dell’immigrazione, che il pareggio strutturale di bilancio, che la crescita della curva di produttività, sono meno importanti della cura del bene comune, della preoccupazione per dare lavoro al giovane di Polistena, della tutela dell’ospedale pubblico dal rischio di chiusura, della garanzia di condizioni di sicurezza pubblica per chi vive nelle tante Tor Bella Monaca delle nostre città devastate e “americanizzate”, dove i meno abbienti vengono ghettizzati in periferie sempre più lontane e squallide. Arroccarsi su una presunta superiorità del progetto sulle persone (quand’anche essa fosse reale, e non è il caso del renzismo) su una spinta ad andare avanti per andare avanti, a riformare per riformare (quale che sia il costo da pagare) e su una politica fatta di oscuro tecnicismo ed opacità nella gestione del potere (opacità che la deforma-Boschi, con le sue cervellotiche procedure legislative, avrebbe accresciuto) consegnerà il Paese a Grillo, forse ad un Grillo alleato con Salvini.
Per questo serve un progetto collettivo, che sia però basato sull’analisi delle condizioni di vita dei singoli, in grado di restituire speranze rispetto ai loro obiettivi esistenziali. Per tale progetto, il tecnicismo oligarchico renziano è chiaramente inadeguato. Il populismo lo è altrettanto. Solo la sinistra è in grado di recuperare, nella sua tradizione culturale che vede nel partito e nel sindacato gli aggregatori della domanda sociale, e i produttori di una élite politica in grado di produrre coscienza di classe (rimettendo insieme i pezzi di classe frammentati attorno ad un progetto di rinascita comune) e dare una indicazione sul “che fare”, una speranza per il futuro.
Riccardo Achilli
Un NO in difesa dello spirito repubblicano. Scritto soprattutto per i più giovani, di S. Valentini
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Che la seconda parte della Costituzione dovesse essere modificata, mentre la prima parte – quella dei principi fondamentali – dovrebbe finalmente essere completamente attuata, è fuori discussione.
Dovrebbe essere modificata per riordinare i rapporti tra Stato e Regioni (comprese le cinque Regioni a Statuto speciale, che sono divenute sempre più un pozzo senza fondo di spreco enorme di risorse pubbliche) e per razionalizzare e rendere più veloce ed efficace il momento legislativo con la costruzione dell’Unione europea e la elezione a suffragio popolare del suo Parlamento. Occorre avere solo tre livelli legislativi: europeo, nazionale e regionale. Per questa ragione il Senato dovrebbe essere trasformato in Camera delle autonomie come nel modello istituzionale tedesco, mettendo così fine al bicameralismo paritario, con una riduzione drastica del numero dei parlamentari, non più di 500 Deputati e 200 Senatori.
Ma le proposte di modifica costituzionale approvate a maggioranza dal Parlamento (la stessa che sostiene a colpi di voto di fiducia l’esecutivo) su iniziativa e impulso del governo non prevede tutto ciò. È a voler essere buoni sono un pasticcio che determina confusione e una pericolosa instabilità delle istituzioni, rischiando di favorire l’onda montante in corso nel Paese di ogni genere di populismo; a voler essere cattivi riducono gli spazi di democrazia in quanto modifiche costituzionali e combinato disposto dell’Italicum (la legge elettorale definita da Renzi la migliore del mondo), consegnerebbero a una minoranza anche del solo 30 per cento dei votanti – si badi – una maggioranza parlamentare del 51 per cento.
La questione non scandalizza più di tanto Sabino Cassese, autorevole costituzionalista del Sì, che candidamente ha detto che la democrazia è il governo della minoranza più forte perché questo è ciò che emerge dai cosiddetti sistemi liberaldemocratici con un’economia di mercato. Alla malora dunque la conquista del “principio una testa un voto”, realizzata con lacrime e sangue a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento dal movimento democratico, socialista e comunista, tramite il suffragio universale (comprese le donne) per attuare pienamente un regime democratico effettivamente rappresentativo.
Una proiezione dei 100 senatori che dovrebbero comporre il nuovo Senato (95 dei quali saranno eletti dai Consigli regionali, di cui 21 Sindaci e 74 Consiglieri regionali e 5 nominati a vita dal capo dello Stato) mostra che il Pd avrebbe quasi la maggioranza, la quale sarebbe ottenuta con i Consiglieri regionali Senatori eletti dai partiti locali delle Regioni a Statuto speciale (si capisce così il senso del voto di scambio sancito dalle modifiche costituzionali per cui i due Senatori della Valle D’Aosta rappresenteranno 40.000 elettori ciascuno mentre i Senatori delle Marche rappresenteranno 700.000 elettori ciascuno! ) e dai senatori a vita.
Lo scenario a questo punto sarebbe semplice: maggioranza parlamentare schiacciante al partito che ha appena un terzo dei voti dei votanti, cioè al Pd, Presidente della Repubblica sempre allo stesso partito (eleggibile tra l’altro con la maggioranza dei votanti presenti), Corte Costituzionale monopolio sempre del Pd. Non male come progetto del governo della minoranza più forte!
Nel merito poi non è vero che si supera il bicameralismo, il Senato continuerebbe ad avere importanti poteri: partecipare alla elezione del Presidente della Repubblica, eleggere la sua quota di componenti nella corte Costituzionale, ratificare i trattati internazionali e richiedere di valutare le proposte di legge della Camera se un terzo ne farà richiesta, con buona pace per chi sostiene che sarebbe abolita la famosa “navetta” tra le due camere! Dalle modifiche costituzionali si comprende solo che i Senatori saranno eletti dai singoli Consigli regionali tra i loro membri, mentre 21 saranno i Sindaci, che dovranno essere scelti tra gli oltre 8.000 Sindaci degli altrettanto 8.000 Comuni italiani.
Dunque ci tolgono la possibilità di votare i Senatori per cui la composizione di questa Camera sarà totalmente nelle mani delle trattative nei e tra i partiti, a livello locale e nazionale, come già avviene con la Composizione dei Consigli delle aree metropolitane e oggi per le Province decostituzionalizzate, ma non soppresse. Infine saranno nominati Senatori, con tanto di immunità parlamentare e probabilmente con lauti rimborsi quei Consiglieri regionali che non troveranno spazio nella giunta come assessori, nel governo del Consiglio e della Presidenza o come Presidenti delle Commissioni. Sarà quindi il personale politico meno qualificato dei Consigli regionali, spesso quello inquisito, che andrà a comporre il cosiddetto Senato delle regioni e delle autonomie.
Anche nel rapporto tra Stato e Regione le modifiche costituzionali presentano una forte negatività. Si attua con queste proposte una nuova centralizzazione dei poteri in mano dello Stato senza tra l’altro una riforma vera della pubblica amministrazione. Un processo forte di accentramento (non è questo un ulteriore segnale di riduzione degli spazi di democrazia?) mettendo sostanzialmente in discussione l’ordinamento della Repubblica che si articola in Stato, Regioni e autonomie locali.
Il paradosso è che si affida ai Consigli regionali il compito di comporre il Senato ma gli stessi sono privati di poteri importanti per realizzare le politiche territoriali. Ovviamente le 5 Regioni a Statuto speciale resteranno fuori da questo processo accentratore. Potranno impunemente continuare a spendere e sperperare risorse pubbliche!
Si dice che questa riforma è un primo passo per modernizzare il Paese, per cambiare. Non si comprende però perché non siano state poste tra le modiche costituzionali alcune questioni di grande importanza per il futuro del Paese.
Prima di tutto sopprimere la norma della parità di bilancio voluta in Costituzione dal centrodestra e avallato dal Pd. Renzi vuole fare un braccio di ferro con l’Unione europea per avere meno austerità e più politiche per la crescita, però nulla dice e ha fatto per togliere dalla Costituzione una norma che sancisce in termini costituzionali proprio le politiche di austerità.
Si dice di voler maggiore stabilità di governo ma non si è voluto introdurre la norma della fiducia costruttiva alla tedesca con la quale si evitano crisi al buio riducendo il trasformismo e il malcostume del cambio di casacca passando da un gruppo parlamentare all’altro o con la nascita di gruppi il cui unico scopo è sostenere una maggioranza non espressione del voto popolare per avere qualche poltrona ministeriale.
Si dice infine di voler ridurre i costi della politica, ma non si riducono il numero dei deputati e soprattutto non si mette mano al riordino della miriade di enti intermedi non elettivi che prosperano tra Comune e Regione (Comunità montane, Consorzi, ect), come non s’intende rimuovere quell’istituto napoleonico a-democratico del Prefetto.
L’aspetto però più grave e persino pericoloso di queste modifiche è che hanno messo in discussione quello spirito repubblicano che animò i padri costituente nella stesura della Carta: la Costituzione è di tutti, non di una parte e le sue eventuali modifiche non possono assolutamente essere ridotte come attuazione di un programma di governo su cui formare una maggioranza parlamentare.
La contrapposizione tra la Dc e il Pci era forte, tra l’altro in una situazione internazionale caratterizzata dalla divisione del mondo in due sfere d’influenza, quella Usa e quella Sovietica. Ma i padri costituenti seppero dar vita, nonostante ciò, a una Costituzione da tutti pienamente condivisa, considerata tra le migliori del mondo e della storia dell’umanità; ma soprattutto si evitarono crisi istituzionali e momenti di tensione tali da mettere in pericolo la convivenza civile e democratica di un popolo ideologicamente diviso da profondi solchi e alti steccati.
Con questo referendum sta passando l’idea invece che una maggioranza parlamenta può modificare profondamente la Costituzione. Avevamo già avuto esperienze negative del genere, sia da parte del centrosinistra sia del centrodestra; ma le corpose modifiche che il Pd di Renzi vorrebbe introdurre rappresentano un pesante e pericoloso salto di qualità non solo per porre in soffitta la Carta costituzionale, ma anche lo spirito con cui i costituenti avevano con grande impegno lavorato nello scrivere la Costituzione, prolungando quell’unità democratica realizzatasi con la Resistenza. Renzi avrebbe dovuto muoversi con maggiore cautele e prudenza anche perché il Parlamento è stato in parte delegittimato dalla Corte Costituzionale che lo ha considerato eletto da una legge non del tutto conforme ai principi costituzionali.
È vero la prima parte, quella dei principi fondamentali, non è stata toccata da queste modifiche, però l’aver brutalmente rimosso lo spirito repubblicano, anche in modo plastico, con il Presidente del Consiglio, ministri e sottosegretari impegnati a sostegno del Sì, fino a legare l’esito del referendum con la tenuta del governo, sviliscono la Carta costituzionale anche in quella parte sulle grandi enunciazioni di principio. L’aver cosparso questo veleno nel Paese è la più grave delle responsabilità politiche e storiche del Pd di Renzi. Solo se fosse per questo, per le lacerazioni e nuove divisioni che si stanno introducendo e producendo nel Paese, occorre votare No.
Alessandro Valentini