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Campo largo? di D. Lamacchia

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Lo ammetto non ho seguito molto il congresso di Articolo Uno (a proposito dove si poteva seguire? Anche colpa dei media che lo hanno parecchio snobbato). Un paio di cose però le ho capite: Roberto Speranza è stato rieletto segretario e che il congresso ha accettato la proposta di Letta (PD) del cosiddetto “campo largo”. Poco cenno si è fatto ai contenuti della proposta politica venuta dal congresso. Probabile responsabilità dei media anche su questo. Comunque pare che tra le proposte ci sia una maggiore attenzione alle dinamiche salariali. Siano ben venute. Ciò che emerge con forza però è la proposta politica del “campo largo”. Una proposta che intende avvicinare se non proprio unire le forze “non di centrodestra” per fronteggiare al meglio la coalizione avversaria sempre più evidentemente a guida Fratelli d’Italia. Che si provi, in vista delle elezioni, a formulare proposte di aggregazione mi sembra abbastanza normale. Ciò che non mi convince sono i contenuti programmatici. Infatti non se ne parla. Mi viene allora da dire, va bene pensare ad un “bus” più grande per allargare il numero di partecipanti alla gita ma vorrei sapere anche chi è proposto alla guida, quel è la meta e qual è il percorso che si intende seguire. Per esempio cosa si pensa della proposta del Prof. Carlo Rovelli di inserire nei programmi finanziari una diminuzione annuale delle spese militari e di sostituirle con investimenti in attività di interesse pubblico? Alla sinistra servono parole, messaggi chiari che rendano credibili l’offerta politica. Servono uomini credibili. Non bisogna diventare “un po’ più di centro” per conquistare elettorato di centro. Uomini come Pisapia, Zedda, Vendola hanno dimostrato in passato di poter conquistare ampi strati di elettorato non di sinistra pur essendo chiaramente di sinistra. Cosa avevano di così “magico” se non la credibilità della loro persona e delle proposte? La mancanza di credibilità ha negli anni creato sfiducia. Prima conquistata dal populismo e ora dalla pratica dell’astensionismo e della rinuncia. Non serve un “campo largo”, serve un Partito Democratico di Sinistra che faccia del lavoro e delle libertà “nuove” (Jus soli, parità di genere, lotta alle discriminazioni di identità, ecc.) il suo “campo di battaglia” identitario. Al primo posto la Pace e un nuovo internazionalismo. L’internazionalismo dei popoli oppressi e non garantiti a cui i benefici dell’era digitale non arrivano. Quei popoli che alla democrazia arrivino attraverso la lotta per i diritti e non per “esportazione” della stessa. Non serve un nuovo partitino che tenta di sfruttare il “mercato aperto” dell’astensionismo come sembra stia facendo De Magistris, sull’onda del risultato elettorale francese. Non ci serve un Melenchon italiano, serve una forza politica radicata nella tradizione del lavoro e delle lotte per la sua nobilitazione e liberazione.

Così si esprime Il neo segretario generale Fiom Cgil, Michele De Palma,

“Il mondo degli operai è radicalmente cambiato rispetto a 50 anni fa, allontanandosi sempre più dalla sinistra. Come può essere recuperato?

Mettendo  al  centro  il  lavoro  e  ripartendo  dalle  persone, a cominciare dalle donne e dalle giovani generazioni,  che  per  vivere  devono  lavorare.  La crisi della democrazia che stiamo attraversando in maniera  così esplicita è causata dal fatto che i partiti, più che preoccuparsi della disaffezione degli elettori, guardano solamente a quante sono le percentuali di coloro che ancora votano. In questo periodo gli operai sono diffidenti, e lo sono giustamente, perché nel corso di questi anni  gli  si  è  chiesto  di  sacrificarsi  per  il  bene  del  Paese.  Loro  hanno  pagato  quei  sacrifici  e  questo  ha  significato  molto  spesso  non  salvare  né  loro  né  il  Paese che nel frattempo ha perso un asset fondamentale per sedersi fra i Paesi del G7, cioè l’industria. In questo  momento  i  metalmeccanici,  ma  anche  tutti  i  lavoratori, hanno fatto di necessità virtù perché sono stati lasciati soli. I partiti popolari usciti dalla Seconda guerra mondiale avevano i lavoratori come interlocutori e non solo le imprese. Oggi dobbiamo recuperare quel rapporto, tornando a discutere dei problemi veri dei cittadini e dei lavoratori.”

Il primo Maggio, questo, lo ricordiamo con forza!

Donato Lamacchia

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I 50 anni de “Il Manifesto” di G. Benvenuto

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50 anni di storia della sinistra sono racchiusi nella “memoria” della esperienza de Il Manifesto e questo basterebbe per un augurio di buon compleanno. È stata una lunga stagione di confronti anche accesi, di scontri culturali e politici talvolta duri ma sempre di spessore, mentre l’uscita de Il Manifesto “obbligava” chi faceva vita sindacale a documentarsi su quanto vi era scritto anche a prezzo di solenni arrabbiature. Ma era comunque sempre uno scenario nel quale ci si muoveva da “compagni”. E questo confronto rifletteva un mondo variegato della sinistra vitale, aperto, combattivo, pronto comunque a scommettere e lottare per un cambiamento.

La data è nota: il primo numero del quotidiano uscì il 28 aprile 1971. Ci si era appena lasciati alle spalle le grandi lotte dell’Autunno caldo. Si stava scivolando verso un periodo di restaurazione politica, annunciato dalla famosa e tragica strategia della tensione, con le elezioni del 1972. In quella occasione si registrò il fallimento di proposte politiche nuove a sinistra, molto innovative, come l’Mpl di Labor e, appunto, Il Manifesto. Esperienze che avevano un tratto in comune che oggi siamo portati a sottovalutare: ruppero due monolitismi, quello del voto dei cattolici destinato immancabilmente alla Dc, quello del centralismo del Pci che aveva generato la “cacciata” dei fondatori de Il Manifesto. In quel momento persero, ma in realtà avevano dimostrato che quel modo di intendere la politica non reggeva più, era superato. Ed ebbero, storicamente, ragione.

Quella data, il 29 aprile, suscita in chi ha militato nel sindacato dell’industria suggestioni ancora forti. Due anni prima, nel 1968, nasceva la piattaforma contrattuale dei metalmeccanici, unitaria e sancita poi da una consultazione di massa come mai si era vista, che apriva una stagione fondamentale di conquiste contrattuali volte a restituire dignità e diritti ai lavoratori. In quel periodo il gruppo de Il Manifesto, da Rossana Rossanda a Luciana Castellina, da Aldo Natoli a Valentino Parlato, da Luigi Pintor a Lucio Magri e tanti altri, era già una delle anime più vivaci del risveglio sociale e politico che attraversava la nostra società, dagli studenti agli operai.

E divenne presto una realtà che otteneva grande simpatia nel mondo sindacale e non solo perché… vittima dell’ultima condanna di frazionismo nel Pci. Ma anche perché si sforzava di cogliere quegli aspetti di novità che già erano presenti nelle lotte operaie e nelle manifestazioni studentesche presentando il conto ad una politica, ad un costume, ad un modo di pensare che ormai appariva anacronistico rispetto alla evoluzione del Paese.

Quando uscì Il Manifesto quotidiano nella Flm appena costituita divenne subito di casa. Sporgeva da molte tasche dei sindacalisti, ma era soprattutto oggetto di discussione sui tavoli delle riunioni appassionate di quel tempo. Quel gruppo poteva, ed aveva, idee diverse dal riformismo sindacale e politico ma si esprimeva con una passione ed una curiosità verso i nuovi fenomeni dell’Italia di allora che lo rendeva comunque vicino alla sensibilità di una parte consistente del movimento sindacale, ovvero quella più determinata a realizzare il sogno dell’unità. Unità sindacale che sembrava a portata di mano ma che poi, come si sa, rifluì nella costituzione della Federazione unitaria Cgil, Cisl, Uil.

Il Manifesto si propose nel periodo nel quale la stampa sindacale acquisiva per merito di tanti bravi giornalisti un rilievo ed una attenzione mai avuta prima di allora. Si andò ben oltre le pagine di cronaca nelle quali i grandi media dell’epoca confinavano scioperi e contratti. Il Manifesto partecipò attivamente a questa opera di rinnovamento del giornalismo, anche sul piano del linguaggio. E divenne una scuola di giornalismo controcorrente, molto attenta all’evoluzione sociale, come dovrebbe fare sempre una sinistra che non vuol perdere il contatto con la realtà.

Giorgio Benvenuto

(Presidente della Fondazione Bruno Buozzi)

Reddito di cittadinanza – una ipotesi di lavoro per ritrovare il ruolo della sinistra, di A. Angeli

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Alberto Angeli 2

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“Reddito di cittadinanza, per l’Italia unica speranza. Onestà e dignità subito”: con questo slogan, cantato dalla testa del corteo del M5S, si è svolta sabato 20 maggio la marcia Perugia-Assisi per il reddito di cittadinanza. Questo punto del programma dei cinquestelle non sembra suscitare nella sinistra del nostro paese alcun interesse. Anzi, si coglie una alquanto sorprendente noncuranza, quasi un fastidioso silenzio. In verità alcune voci si sono spinte fino a dichiarare la richiesta poco realistica, se non valutata poco interessante, per la difficile sostenibilità economica. Altri propongo invece, come alternativa, un reddito minimo garantito ( reddito di inclusione) guardato come un indispensabile ampliamento del welfare, a cui associare politiche orientate verso il pieno impiego in una visione di complementarietà dei due temi. Entrambe le proposte partono dalla considerazione che annota il basso tasso di occupazione, la lentezza con cui viaggia l’economia e la forte esposizione debitoria del paese, trascurando il fatto che ciò costituisce un ostacolo molto serio alla introduzione di un reddito minimo garantito di tipo universalistico.

Su questa materia sono varie e articolate le ipotesi alle quali riferirsi, anche se condizionate dal modo con cui è pensato il reddito minimo. Ad esempio:

a) garantire un reddito minimo a chi non ha un lavoro, ovvero risulta indigente;

b) mettere in atto forme di lotta alla povertà mediante una rete di protezione minima, che garantisca la sussistenza, legando gli adeguamenti alla rilevazione dell’ISTAT sui dati del minimo vitale;

c) riorganizzare e ridisegnare il sistema del welfare creando un unico referente per la gestione del sociale e delle risorse economiche.

Ovviamente, cassa integrazione e sussidi di disoccupazione, già esistenti e basati sulla contribuzione obbligatoria, continuerebbero a persistere sotto il Ministero del Lavoro e della Previdenza. Il reddito garantito dovrebbe quindi rivolgersi a chi ha esaurito o non ha accesso ai due strumenti: a) e b), destinandolo alle persone in cerca prima occupazione o indigenti

Seguendo l’andamento della disoccupazione richiamando i dati ISTAT, possiamo rilevare che il tasso di disoccupazione è stabile all’11,9%, mentre risulta in lieve calo quella giovanile. La fotografia dell’Istat effettuata su gennaio 2017 evidenzia che le persone in cerca di occupazione erano 3.097.000, in aumento di 2.000 unità su dicembre 2016 e di 126.000 unità su gennaio 2016. E’ il caso di ricordare che a gennaio 2016 il tasso di disoccupazione era all’11,6%. L’Istat ci spiega che  l’aumento dei disoccupati rispetto all’anno precedente insieme all’aumento degli occupati (236.000 rispetto a gennaio 2016) è dovuto al calo degli inattivi tra i 15 e i 64 anni pari a -461.000.

Sul fronte della disoccupazione giovanile Il tasso cala invece al 37,9% dal 39,2% di dicembre, quindi un -1,3 punti. Ne risulta che l’incidenza dei giovani disoccupati tra 15 e 24 anni, sul totale dei giovani della stessa classe di età, risulta pari al 10,1%, risultando in calo di 0,6 punti rispetto a dicembre. Il tasso di occupazione dei 15-24enni permane stabile, mentre quello di inattività cresce di 0,6 punti.

Dal dato di gennaio si rileva che gli occupati crescono di 30.000 unità rispetto a dicembre, conseguendo quindi un +0,1% in percentuale e di 236.000 unità su gennaio 2016 ( dato assoluto) e +1 in percentuale. Tale aumento mensile, si rileva dalla nota dell’Istat, riguarda gli uomini e considera gli ultracinquantenni. Inoltre, il tasso di occupazione tra i 15 e i 64 risulta pari al 57,5% , cioè un +0,1 punti percentuali rispetto a dicembre. Gli occupati sono a quota 22.856.000. Per completare il dato prendiamo in considerazione quelli forniti dall’Eurostat , sull’andamento della disoccupazione dell’eurozona, che risulta stabile al 9,6% a gennaio 2017 rispetto a dicembre, mentre scende da 8,2% a 8,1% nella UE dei 28 ( includendo l’Inghilterra ) segnando in cifra il miglior risultato da gennaio 2009). Il dato italiano si attesta al quarto posto più alto dopo Grecia (23%), Spagna (18,2%) e Cipro (14,1%). Nel mese di gennaio, seguendo i dati dell’Eurostat, il tasso più basso si è rilevato a favore della Repubblica Ceca (3,4%) e della Germania (3,8%). Un dato positivo è Il calo della disoccupazione giovanile: nella zona euro passa dal 19,3% al 17,7%; mentre nella UE- dei 28 Paesi , passa dal 21,7% al 20%. Vale rilevare al proposito che in Italia resta la terza più alta d’Europa , dopo Grecia (45,7%) e Spagna (42,2%).

I dati ISTAT sulla difficile situazione sociale del Paese rilevata al 2015 stima che il 28,7% delle persone residenti in Italia sia a rischio di povertà o esclusione sociale. Se accettiamo la definizione adottata nell’ambito della Strategia Europa 2020, le persone che si trovano almeno in una delle condizioni adottate , sono indicate secondo il rischio o situazione: di povertà, grave deprivazione materiale, bassa intensità di lavoro.

La quota è sostanzialmente equiparabile a quella rilevata al 2014 (era al 28,3%) che, in sintesi, segnala un aumento degli individui a rischio di povertà (dal 19,4% a 19,9%) e il calo di quelli che vivono in famiglie a bassa intensità lavorativa (da 12,1% a 11,7%); permane invariata stima di chi vive in famiglie gravemente deprivate (11,5%).

Il Mezzogiorno risulta l’area più esposta al rischio di povertà o esclusione sociale: il dato ISTAT segnala che nel 2015 le persone coinvolte sale al 46,4%, dal 45,6% dell’anno precedente; quota che risulta in aumento anche al Centro (da 22,1% a 24%), mentre la cifra che riguarda il Nord si registra un calo dal 17,9% al 17,4%.

Ancora: la rilevazione Istat segnala come le persone che vivono in famiglie con cinque o più componenti, sono quelle più a rischio di povertà o esclusione sociale ( passano al 43,7% del 2015 dal 40,2% del 2014), quota che sale al 48,3% (dal 39,4%) se si tratta di coppie con tre o più figli e raggiunge il 51,2% (da 42,8%) nelle famiglie con tre o più minori.

Nel 2014, escludendo gli affitti figurativi, si stima che il reddito netto medio annuo per famiglia sia di 29.472 euro (circa 2.456 euro al mese). Considerando l’inflazione, il reddito medio rimane per la prima volta sostanzialmente stabile in termini reali rispetto al 2013, dopo il calo registrato dal 2009 (complessivamente -12% che diventa -10% se si considera l’aggiustamento per dimensione e composizione familiare, cioè il reddito equivalente). Inoltre, la metà delle famiglie residenti in Italia percepisce un reddito netto non superiore a 24.190 euro l’anno (circa 2.016 euro al mese), sostanzialmente stabile rispetto al 2013; nel Mezzogiorno scende a 20.000 euro (circa 1.667 euro mensili).

Fra le famiglie che hanno come fonte principale il reddito da lavoro, una su due dispone di non più di 29.406 euro se si tratta di lavoro dipendente e di non più di 28.556 euro nel caso di lavoro autonomo. Per le famiglie che vivono prevalentemente di pensione o trasferimenti pubblici la somma scende a 19.487 euro.

Includendo gli affitti figurativi, si stima che il 20% più ricco delle famiglie percepisca il 37,3% del reddito equivalente totale; il 20% più povero solo il 7,7%. Dal 2009 al 2014 il reddito in termini reali cala più per le famiglie appartenenti al 20% più povero, ampliando la distanza dalle famiglie più ricche il cui reddito passa da 4,6 a 4,9 volte quello delle più povere.

BREVE LETTURA DEGLI GLI AMMORTIZZATORI SOCIALI OPERANTI NELL’ORDINAMENTO ITALIANO

Nella tradizione della famiglia italiana il ruolo preminente del capofamiglia, cioè della figura che con il suo lavoro garantiva all’intero nucleo familiare il reddito necessario al suo sostentamento, ha decisamente influenzato l’evoluzione e l’orientamento giuridico dei sistemi di assistenza alla famiglia. Accadeva così che, se, per varie ragioni, l’unico percettore del reddito si fosse trovato nella condizione di non poter più provvedere a questa funzione, al sistema sociale vigente era affidato il compito di attivarsi secondo le condizioni che il sistema previsto. Questa caratteristica, comune alla maggioranza degli stati occidentali, è andata evolvendo nel corso del tempo, in specie dagli anni 60 in poi, in quanto è andata diffondendosi una cultura più aperta al ruolo della donna nel concorrere all’acquisizione di una parte del reddito familiare.

Con la nascita dello stato democratico e l’adozione della Carta Costituzionale, la struttura della società Italiana si regge quindi sul dettato previsto dall’art. 1 della Carta, che sintetizza inequivocabilmente il nuovo percorso socio-politico sul quale il Paese intende muoversi, affermando che:” che l’Italia è una repubblica democratica, fondata sul lavoro”. La Repubblica riconosce il diritto di ogni cittadino ad avere un lavoro e assume l’impegno affinché possa essere garantito a tutti, favorendo l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese, attraverso l’eliminazione di quegli impedimenti di ordine economico e sociale che ostacolano la libertà dei cittadini e creano ingiuste disuguaglianze tra gli stessi.

Il lavoro, che la Carta riconosce come un diritto, diviene, al contempo, un dovere di ogni cittadino, al quale si richiede di contribuire al progresso materiale e spirituale della società, in specie se lo stesso abbia uno stato psico-fisico con lo renda capace al lavoro. In corrispondenza a tale contributo al lavoratore uomo o donna è previsto sia riconosciuta e assicurata una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro svolto, sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’assistenza libera e dignitosa. Nel caso uno di essi diventi temporaneamente o permanentemente inabile al lavoro a causa di infortunio, malattia, invalidità o vecchiaia, invero, per motivi estranei alla sua volontà, venga meno il rapporto lavorativo, è riconosciuto Il diritto a ricevere l’assistenza dello Stato, in modo da non essere privato dei mezzi adeguati alle proprie esigenze di vita. Serve rilevare come l’ordinamento italiano preveda molteplici forme di assistenza al lavoratore disoccupato sotto forma di ammortizzatori sociali. In genere si tratta di sussidi economici di durata prestabilita per legge e di importo normalmente inferiore alla retribuzione prima percepita.

La dottrina che è venuta formandosi nel tempo in materia sociale, ha riformulato la nozione di “ammortizzatori sociali”, ritenendo estranee a tale sistema le indennità corrisposte in ragione dell’incapacità e inabilità lavorativa secondo le seguenti categorie : ad es. indennità per malattia o infortunio, pensioni di invalidità. Mentre ricomprende, invece, quelle che assistono il lavoratore in caso di interruzione o sospensione involontaria del rapporto lavorativo, erogate per un periodo d tempo ritenuto indispensabile al reperimento di una nuova occupazione o alla ripresa di quella sospesa, affinché il lavoratore non rimanga totalmente privo di risorse di sussistenza.

Il sistema degli ammortizzatori sociali è composto da molteplici strumenti. Nel tempo sono intervenute modifiche legislative che hanno accresciuto le differenze nelle modalità di applicazione di misure a sostegno del reddito e delle indennità. Generalmente gli ammortizzatori sociali sono classificati in tre categorie:

a) In caso di sospensione del rapporto di lavoro: trattamenti di integrazione al reddito (Cassa integrazione guadagni ordinaria

b) CIGO, e cassa integrazione guadagni straordinaria, CIGS) inclusi i trattamenti specifici per il settore agricolo e edile. In questa classe di interventi sono inclusi gli interventi in deroga della CIGS e i contratti di solidarietà nonché l’indennità di disoccupazione per i lavoratori sospesi.

c) b) In caso di cessazione del rapporto di lavoro: indennità di mobilità e indennità di disoccupazione.

d) c) Misure temporanee a sostegno dei lavoratori a tempo determinato, apprendisti e parasubordinati in regime di monocommittenza

Altri strumenti annoverabili come Ammortizzatori Sociali ed i relativi interventi di sostegno al reddito adottati sia a livello nazionale che a livello regionale, come accedere e le novità 2017:

-Assegno familiare (ANF) è una prestazione economica erogata ai lavoratori dipendenti in base a composizione famiglia (almeno due soggetti) e redditi dichiarati, che devono posizionarsi al di sotto dei

-Sussidio SIA, sussidio di inclusione attiva, potenziamento agevolazione per determinate tipologie di nucleo familiare, nuovi modelli di domanda;

-Cassa integrazione erogata dall’INPS e comprende: Sussidi agricoli, CISOA,DMAG e riguarda lavoratori agricoli, ( operai, impiegati, quadri e apprendisti, compresi i soci delle cooperative, apprendisti.

-Reddito Inclusione ( REI ) Al proposito è stato siglato il memorandum d’intesa sul reddito di inclusione (Rei) tra il Presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni, l’Alleanza contro la povertà e il ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali, Giuliano Poletti. Si tratta delle linee guida che definiscono i dettagli della nuova misura di contrasto alla povertà introdotta – in sostituzione di SIA, Carta Acquisti e ASDI – dal disegno di legge n. 2494, ovvero la Delega recante norme relative al contrasto della povertà, in termini di limiti di intervento e i requisiti per l’accesso al sussidio e di misure di supporto a livello…

-Maggiorazione assegno social

-Naspi durante il tirocinio, che non è un’attività lavorativa, di conseguenza il reddito che ne deriva è cumulabile con la Naspi: l’indicazione è contenuta nelle Linee Guida sul tirocinio.

-Pensione sociale e sussidi compatibili

-Sussidi ai terremotati: i beneficiari al sussidio sono i lavoratori delle zone colpite dal terremoto dello scorso anno (24 agosto e 26 ottobre 2016) e che, a causa di tale evento, hanno dovuto interrompere l’attività: Ministero del Lavoro e Regioni hanno siglato la Convenzione che consentirà di erogare fino a 4 mesi di sussidi a dipendenti, lavoratori autonomi, anche titolari di impresa, professionisti iscritti a qualsiasi forma obbligatoria di previdenza e assistenza e collaboratori coordinati e continuativi. Sospensione contributi sisma: domanda INPS L’indennità verrà erogata entro un limite di spesa…

-Reddito di inclusione,

-Ricollocamento disoccupati: si tratta di 30 mila disoccupati italiani, estratti a caso, (tra coloro che percepiscono la NASpI da almeno 4 mesi), stanno arrivando le prime lettere per beneficiare dell’assegno di ricollocamento.

-NASPI è possibile presentare la richiesta dopo aver sottoscritto un accordo di conciliazione non presso la DTL

-Sussidio Fondo integrazione salariale (FIS)

-Sussidi erogati dalle Regioni e dai comuni: i nuovi requisiti restano invariati rispetto al 2015 e 2016. Lo comunica l’INPS, con circolare 55/2017,

-APe Social,

-NASpI 2017, (assicurazione sociale per l’impiego )

-Dis-coll stabile, estesa a ricercatori e dottorati, così Il sussidio di disoccupazione Dis-Coll diventa strutturale:

-Premio alla nascita, la domanda, in via telematica, deve essere rivolta all’INPS e solo dopo il settimo mese di gravidanza

-Lavoratori Socialmente Utili-

-Assegno di natalità

-Assegni Familiari in part-time

-Fondo solidarietà personale del credito

Quelli elencati sono solo alcuni degli strumenti a cui la politica sociale del Paese ricorre, una diffusa e smagliata rete di interventi, che ingloba anche una mini serie di altre provvidenze che sfuggono alla contabilità generale, poiché la fonte di spesa è gestita direttamente dai Comuni o dalle Regioni. Ad esempio: sconti su metano, immondizia, integrazioni o interventi sociali a sostegno delle famiglie impossibilitate a pagare un canone d’affitto, altre iniziative difficili da rendicontare.  Tutto ciò, il sistema del Welfare nel suo complesso, ha una spesa che, direttamente o indirettamente, poggia sul bilancio dello Stato. Una lettura dei conti evidenzia come il Welfare del nostro Paese sia il più caro d’Europa.

Brevemente: la spesa per prestazioni sociali nel 2015 ammonta a 444,396 mld di euro, venendo a gravare per il 54,13% sulla spesa statale comprensiva degli interessi sul debito, rappresentando il 27,34% del PIL; un dato che ci proietta nella prima fila Europea. Una spesa enorme, inimmaginabile la possibilità di sostenerla per il futuro a favore delle giovani generazioni, sulle quali grava già l’enormità del debito pubblico.

Il Ministro Poletti afferma con convinzione che il sistema tiene e prospetta una sostenibilità nel tempo, sia sul versante delle pensioni che dei conti pubblici. Ma se stiamo alle cifre, guardando i dati del welfare del 2014, di cui si può disporre delle entrate tributarie, si replica con le stesse cifre pari a 444,507 mld, per ripetere questa performance occorrono tutti i contributi sociali per pensioni e prestazioni temporanee, quelli dell’Inail, tutta l’rpef, l’ires, lirap e kl 36% dell’Isos. Vale a dire tutte le imposte dirette, così che la restante spesa pubblica si finanzia con le imposte indirette.

Secondo i dati dell’IPNS la spesa pensionistica di tutte le gestioni è stata per il 2015 pari a 217,895 mld di euro, con un incremento rispetto al 2014 dello 0,82%, un dato contenuto dal basso livello dell’inflazione e all’applicazione della sentenza della Consulta in relazione alla rivalutazione, che il Governo Renzi ha applicato in termini riduttivi. C’è poi da considerare l’applicazione dei provvedimenti Fornero, da cui è pervenuta una spinta per le pensioni anticipate, che ha consentito nel 2015 il pensionamento di circa il 74% degli aspiranti sul dato del 2014.

La spesa reale, sottratte le entrate contributive a favore dello Stato da quella effettiva dei lavoratori e datori di lavoro, si attesa a quota 172,214 mld. che scende ulteriormente se si sottrae quanto incassa lo stato direttamente, la spesa totale si attesta a 159,164 mld di euro.

Un altro campo di spesa è quello dell’assistenza che nel 2015 ha riguardato circa 4.040.626 assistiti e 4.265.233 di altri assistiti mediante integrazioni al minimo e maggiorazioni sociali, quindi un totale di 8.305.859 beneficiari, vale a dire il 51,34% dei pensionati. Nella sostanza, il costo totale degli interventi assistenziali vale nel 2015 all’incirca 103,00 mld.

Se volessimo completare la riflessione su questa parte, riportando quanto negli altri Paesi dell’Europa viene fatto per il Welfare e speso per il sostegno alle politiche sociali, sicuramente ciò sarebbe utile ma ci allontanerebbe dal nostro proposito che, in definitiva, resta quello di capire come muoverci nella direzione di una politica a favore del reddito di cittadinanza. A ciò si lega il quadro delle risorse economiche e dove cercarle e a quale fasce di società destinare l’intervento. Un intervento, si badi bene, che si pone in alternativa al reddito di inclusione, su cui l’attuale Governo e la maggioranza che lo sostiene si stanno muovendo con atti decisivi.

D’altro canto una rapida attenzione alla contabilità ci rende immediato l’ordine dei fattori su cui costruire anche una minima ipotesi. Infatti, partendo dall’analisi effettuata finora, è possibile svolgere un calcolo riguardo al costo di un eventuale reddito di base incondizionato e pari a 600,00 Euro mensili, cioè all’anno 7.200,00 Euro netti, pari alla soglia di povertà accettata statisticamente. Si potrebbe poi proseguire per fasce di indigenza, adottando i dati forniti dall’ISTAT, fino all’ultima fascia della povertà assoluta che, a seconda della condizione del calcolo, fornirebbe una cifra che oscillerebbe dai 32,346 mld di euro a quella massima di 46,356 mld.

In conclusione di questa riflessione, sulla base dei calcoli statistici che qui non sono riprodotti, anche per il fatto che in certi casi i dati sono purtroppo approssimati e non aggregabili per mancanza di indagini e analisi ( e anche per non appesantire questa breve nota), è evidente una insostenibilità economica concreta di un eventuale progetto volto ad introdurre il reddito di cittadinanza universalistico. Un rilievo che non è privo di alternative, che potrebbero però profilarsi nel caso di un sistematico e profondo riordino di tutto il Welfare e di una revisione del sistema fiscale, in specie per la parte delle deduzioni e detrazioni che, secondo una linea presente in molti economisti, possono essere riaggiornate con notevoli risparmi per l’erario e lo Stato.

Quindi, la storia non dovrebbe finire qui. Chi scrive ritiene che nonostante le difficoltà del bilancio pubblico, i dati della disoccupazione, la diffusa povertà ed esclusione sociale, la lentezza che l’economia registra e la difficoltà in cui si trova il sistema bancario; insomma nonostante il paese non viva uno dei suoi momenti migliori anche la sola riflessione riguardante l’introduzione del reddito di cittadinanza implica un cambio ideologico e di mentalità, al punto da potersi considerare una svolta rivoluzionaria del pensiero della sinistra.

La sociologia – e la storia della sinistra – ci ricorda come la maggior parte delle persone lavora solamente per guadagnarsi un reddito per vivere; il lavoro non è fine a se stesso ma è finalizzato solo ad ottenere una remunerazione. Sicuramente uno strumento di difesa come quello individuato nel reddito di cittadinanza, conferirebbe coraggio al cittadino, una maggiore fiducia e credibilità verso le istituzioni, e a nessuno verrebbe la tentazione di ottenere profitti a discapito di altri.

Certo, questa prospettiva introduce problemi di grande rilevanza sia sotto l’aspetto dell’equità che di quello della giustizia e della coerenza. Intanto con la parola universalità già si introduce un tema delicato che riguarda una delicata questione relativa alla definizione di cittadino. Sappiamo che  la cittadinanza italiana è regolata dal cosiddetto “ius sanguinis”, letteralmente diritto di sangue. Nella sostanza, tale concetto significa che è cittadino italiano chi nasce da genitori con cittadinanza italiana, o se è nato sul territorio italiano con entrambi i genitori ignoti o apolidi oppure se il figlio non segue la cittadinanza dei genitori secondo la legge dello Stato al quale appartengono. Infine, acquisisce cittadinanza italiana per nascita anche il figlio di ignoti trovato nel territorio italiano nel momento in cui non viene provato il possesso di un’altra cittadinanza. La stessa normativa stabilisce delle eccezioni, dando la possibilità di acquisire la cittadinanza attraverso lo “ius soli”, diritto di territorio; infine, vi è la possibilità di acquisire la cittadinanza tramite il matrimonio se si è in presenza di determinati requisiti il coniuge, che sia straniero o apolide, di cittadino italiano, acquisisce la cittadinanza quando, dopo il matrimonio, risiede legalmente per 2 anni in Italia. Questi sono alcuni casi che presuppongono comunque una presa di coscienza della diversità di normativa, più favorevole, che viene applicata in altri Paesi dell’Europa.

D’altro canto, in un mercato del lavoro sempre più flessibile e precarizzato come l’esperienza del nostro paese ci ricorda, dove diventa sempre più facile perdere anziché trovare un nuovo lavoro, un dispositivo di reddito di cittadinanza permetterebbe al cittadino posto fuori dal mercato di avere una continuità economica per i periodi in cui il mercato non offre possibilità di reimpiego; ciò costituirebbe un aiuto positivo innanzitutto per i lavoratori, ma anche per il mercato stesso. Sempre per quanto concerne il livello sociale, attraverso un dispositivo di questo genere, è possibile prevenire l’esclusione sociale degli individui con un reddito non continuo ed esiguo, ovviamente mantenendo un rigido controllo sugli utenti del beneficio per evitare comportamenti tesi a violare la natura e lo scopo specifico del reddito di cittadinanza

Questo comporta un ‘controllo’ sulla effettiva disponibilità a lavorare e ad accettare le proposte di lavoro che gli Enti preposti alla formazione e assistenza al quel cittadino formuleranno al proposito. Questo rischio è richiamato con forza da coloro che contrastano o sono decisamente contrari all’introduzione del reddito di cittadinanza. I beneficiari potranno quindi decidere se un lavoro è coerente con le proprie competenze, decidere se trasferirsi o meno per lavorare, e non essere obbligati a farlo. Con la presenza di un dispositivo di questo genere, è possibile combattere il lavoro nero, ci sarebbero meno presupposti per incoraggiarlo, in quanto si è dotati di un minimo vitale e anche perché, nel momento in cui si compie il reato, vi è la sospensione del sussidio.

Dopo aver esposto le caratteristiche principali del sistema attuale delle politiche per il sociale del nostro paese e delle sue lacune, dagli ammortizzatori sociali ai fenomeni di precarietà, disoccupazione ed esclusione sociale, senza ignorare le difficoltà politiche e poi quelle economiche, si può concludere sostenendo che il reddito di cittadinanza si prospetta come una variabile politica innovativa e concettualmente ( ed economicamente ) percorribile. Poiché, incamminandosi su questa strada, la sinistra può ritrovare il ruolo che la storia le ha assegnato, essendo questo il terreno del sistema sociale su cui ha costruito la lotta e la prospettiva del cambiamento politico. Qui, può recuperare il suo ruolo e ritrovare il consenso necessario per porsi come l’unica alternativa al populismo .

Alberto Angeli 
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NB: i dati sono rilevati da:

INPS, ISTAT, Banca d’Italia, Eurostat, OO.SS., Centro Studi Conf.a

Il 1° Maggio 1947, nel racconto di Serafino Petta, ultimo sopravvissuto alla strage di Portella della Ginestra

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Portella della Ginestra

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Due giorni fa, al “Giornale di Sicilia”, l’ultimo sopravvissuto all’eccidio dei lavoratori avvenuto a Portella della Ginestra il 1° Maggio 1947 ha lasciato la sua testimonianza importante, che vogliamo ricordare anche noi per capire il valore del 1° Maggio che quest’anno CGIL, CISL e UIL hanno deciso di festeggiare uniti proprio in quella località, per non dimenticare. Questo il suo racconto:

“Ci eravamo dati appuntamento per festeggiare il Primo maggio ma anche l’avanzata della sinistra all’ultima tornata elettorale e per manifestare contro il latifondismo. Non era neanche arrivato l’oratore quando sentimmo degli spari”, racconta settant’anni dopo ancora commosso Serafino Pett, l’ultimo sopravvissuto alla strage di contadini di Portella della Ginestra, che fece 12 morti e 27 feriti.

“Avevo 16 anni, pensavo che fossero i petardi della festa, ma alla seconda raffica ho capito – continua -. Ho cominciato a cercare mio padre, non l’ho trovato. Quello che ho visto sono i corpi distesi per terra. I primi due erano di donne: la prima morta, sua figlia incinta ferita. Questa scena ce l’ho ancora oggi negli occhi, non la posso dimenticare”.

“A sparare fu la banda di Salvatore Giuliano, i mandanti non si conoscono ancora ma ad armare la sua mano furono la mafia, i politici e i grandi feudatari – spiega Petta -. Volevano farci abbassare la testa perché lottavamo contro un sistema in cui poche persone possedevano migliaia di ettari di terra e vi facevano pascolare le pecore, mentre i contadini facevano la fame”.

“Un mese dopo successe però una cosa importante – dice con orgoglio – Tornammo qua a commemorare i morti senza paura, “Non ci fermerete”, gridavamo tutti e non ci hanno fermati. Abbiamo cominciato la lotta per la riforma agraria e nel ’52 abbiamo ottenuto 150 assegnatari di piccoli lotti. Ma neanche loro si sono fermati, e a giugno bruciarono sedi di Cgil e partito comunista, poi nel mirino finirono anche i sindacalisti”.

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La fonte di questo articolo è consultabile al link  http://palermo.gds.it/2017/04/30/portella-della-ginestra-la-strage-negli-occhi-dellultimo-sopravvissuto-ora-la-mafia-e-nei-palazzi_659736/

Dopo il referendum, come ripartire dal lavoro?, di V. Russo

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Vincenzo Russo

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Su Repubblica del 18-01-2017, Nadia Urbinati sostiene che alla sinistra manca innanzitutto la credibilità trovandone la prova nel risultato del 4 dicembre scorso. Non credendo nei suoi leader e nei progetti che portano avanti, in una fase di grande incertezza, gli elettori si sarebbero rifugiati nell’unica certezza rappresentata dalla Carta costituzionale del 1948 che contiene il contratto sociale tra gli italiani.
Da una politologa mi sarei aspettato: a) un discorso sulle cause per le quali, a distanza di 70 anni, tale patto è stato attuato solo parzialmente e persino le parti attuate sono messe in discussione; b) su come una forza di centro-sinistra come il Partito Democratico abbia fatto un tentativo determinato di manipolazione della Carta per ridurre la rappresentanza e le sedi partecipazione; c) un accenno alla situazione post referendum per verificare se esso abbia al margine cambiato i reali rapporti di potere, alias, modificato l’effettività dell’ordinamento costituzionale previsto dalla Carta del 1948 ed il suo effettivo funzionamento. No, inizia il suo pezzo su quello che Renzi nel momento in cui scalava il suo partito, pensava dovesse essere il progetto della nuova sinistra in un mondo in cui sarebbe finita la diade libertà/eguaglianza. Non voglio perdere tempo a fare l’esegesi del pensiero di Renzi 1000 giorni fa trattandosi di soggetto che parla a ruota libera e scrive poco, e vengo direttamente all’idea largamente condivisa anche dalla Urbinati di ripartire dal lavoro.

Certo ripartire dalla Costituzione, dal suo art. 1, cioè, dal lavoro su cui, a parole, è fondata la Repubblica va bene ma la nostra politologa non analizza bene il problema. Perché sul lavoro c’è da fare un discorso di breve termine e uno ben più serio di medio lungo termine. Nel breve bisognerebbe accelerare la ricostruzione delle zone terremotate, riparare le strade statali e comunali, ridurre i rischi del dissesto idrogeologico, mettere in sicurezza le scuole, altri edifici pubblici, investire di più in ricerca e sviluppo e nel capitale umano, alias, nella istruzione e formazione permanete, ecc.. Servirebbero 50 miliardi all’anno per almeno cinque anni. Il governo ha trovato prontamente 20 miliardi per salvare alcune banche e la Commissione europea non ha profferito parola. Il governo non pensa neanche a trovare altri trenta miliardi per i lavori pubblici menzionati sopra ma si diletta a duellare a parole sui 3-4 miliardi di manovra correttiva, secondo la Commissione, necessaria per rispettare il vincolo del deficit.
Per il medio-lungo termine il discorso sul lavoro è molto più complicato perché bisogna tener conto degli effetti delle nuove tecnologie sul futuro del lavoro oltre che delle politiche fiscali deflattive portate avanti dal Consiglio e dalla Commissione europea. Al riguardo ci sono da un lato le visioni catastrofiste sulla fine del lavoro e, dall’altro, quelle ottimistiche, secondo cui le nuove tecnologie (i robot) mentre distruggono vecchi posti di lavoro ne creano altri anche se con sfasamenti temporali più o meno ampi, anche se richiedono anticipati e consistenti investimenti nel capitale umano. Sul futuro del lavoro è stato interessante un Convegno di due giornate, organizzato dal M5S che ha presentato e valutato una ricerca indipendente affidata al Prof. Domenico De Masi. In sintesi, si tratta di questioni fondamentali di politica economica e di programmazione della crescita e dello sviluppo su cui gravano i vincoli europei del Fiscal Compact e annessi regolamenti.

La Urbinati non si occupa di questi problemi e concentra il suo discorso sulla diade libertà/uguaglianza certo importante. Ma non ci aiuta a capire la situazione né le sue tendenze evolutive/involutive. Non ci aiuta a disegnare scenari futuri e a elaborare strategie idonee per contrastare e correggere le tendenze in atto.
Intendiamoci le crescenti diseguaglianze all’interno dei Paesi ricchi e di quelli in via di sviluppo confermano la fine e/o accantonamento del discorso sull’eguaglianza ma non la fine della libertà dei ricchi se 8 miliardari – secondo il recente Rapporto Oxfam – posseggono la ricchezza (o povertà) di 3,6 miliardi di esseri umani. Quindi francamente trovo che il discorso sulla fine della diade libertà/eguaglianza – analogo a quello sulla fine delle ideologie che Bobbio negava decisamente – non ci porti da nessuna parte. Non è un discorso utile al rilancio di una sinistra italiana, europea e mondiale in grado di affrontare i problemi che stanno sul tappeto e che invece dovrebbero stare sul tavolo. Non so poi dove ha trovato il discorso di Renzi che voleva recuperare gli ultimi per avvicinarli ai primi. In fatto, poi sappiamo che la misura più costosa adottata in termini di riduzione delle diseguaglianze è quella degli 80 euro mensili che riguarda le famiglie con redditi medio-bassi ma che esclude i poveri, ossia, gli ultimi perché per i poveri c’è uno specifico programma dotato di risorse di gran lunga inferiori. Più credibile sembra l’idea riportata che Renzi avesse adottato la visione del self made man, analoga a quella iniziale di Berlusconi delle tre i (internet, inglese, impresa) o, più prosaicamente, trovatevi un lavoro da soli quando, allora come ora, la tendenza storica è quella della riduzione dei posti di lavoro per via delle nuove tecnologie e delle delocalizzazioni delle imprese alla ricerca di lavoro a basso costo e di incentivi fiscali più favorevoli.
Allora se non si affrontano le questioni della libertà dei movimenti di capitale e della sfiducia degli stessi capitalisti e imprenditori nel futuro dell’Italia provata da una sistematica fuga dei capitali che perdura da circa 50 anni a oggi, ripartire dalla Costituzione e dagli artt. 1, 3 e 4 è bello sentirselo dire ma rischia di rimanere inefficace. Se non si affronta a livello europeo la questione della concorrenza fiscale senza regole – ideata deliberatamente per provocare la c.d. crisi fiscale dello Stato e tagliare il welfare – il problema del lavoro resta irrisolto. Né, a mio parere, la soluzione può venire dall’uscita dall’eurozona, dall’Unione europea o dalla NATO. Quando non c’era la piena libertà dei movimenti di capitali i soldi in Svizzera li portavano gli spalloni.
PQM bisogna battersi per la modifica del Fiscal Compact, per un uso intelligente della regola d’oro che lascerebbe fuori dal deficit strutturale gli investimenti in conto capitale, in sintesi, per la rottamazione della politica dell’austerità. Senza queste premesse, le promesse della nostra bella Costituzione rimarranno tali.

Letture suggerite: Gustavo Zagrebelsky (2013), Fondata sul lavoro. La solitudine dell’art. 1, Einaudi, Torino; Geminello Alvi (2006), Una Repubblica fondata sulle rendite. Come sono cambiati il lavoro e la ricchezza degli italiani, Mondadori, Milano.

Vincenzo Russo.

Tratto dal Blog personale dell’autore  http://enzorusso2020.blog.tiscali.it/2017/01/20/dopo-il-referendum-come-ripartire-da-lavoro/

Chiarezza sul Referendum sul Jobs Act, di C. Baldini

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baldini claudia 4

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Raccogliere 3 milioni di firme non è una passeggiata. Lo dico per quanti alludono che Cgil (sempre fuoco ‘amico’) avrebbe scritto un testo quesito in modo da farselo respingere. Ci vogliono menti ormai cattive o talmente arrabbiate per arrivare a formulare ipotesi che, tra l’altro, farebbero sprofondare anche la classe dirigente dell’unico sindacato storico che nel nostro Paese fa ancora il sindacato. Certo, in un Paese piddino e grillino. Che significa che anche Cgil è fatta di PD e di Grillo (soprattutto Fiom). Ma è una battaglia quotidiana che in tanti si continua con risultati alterni, ma quelli possibili. Una cultura del sospetto che non giova alla chiarezza ed alla verità. Vediamo di ripercorrere le motivazioni del testo referendario.

La materia dei licenziamenti si è evoluta negli anni . All’inizio c’era solo il licenziamento con preavviso obbligatorio. Poi si è via via affermato con l’elaborazione in Statuto della necessità per il datore di lavoro di formulare una ‘Giusta Causa’ per il licenziamento. Ma anche il diritto per il lavoratore che ritenesse arbitrario il licenziamento di ricorrere al giudice. Questo principio della ‘giusta causa’ è stato realizzato in due modi: attraverso la ‘Tutela Obbligatoria’ (art. 8 della legge 604/1966), applicabile alle imprese FINO a 15 dipendenti sulla singola unità produttiva o FINO a 60 su scala nazionale della stessa impresa.

La ‘Tutela Obbligatoria’ prevedeva l’OBBLIGO per il datore di lavoro di reintegra, ossia se il giudice dichiarava illegittimo il licenziamento, il datore di lavoro doveva riassumere oppure offrire risarcimento che, a seconda dell’anzianità di lavoro, andava dalle 3 mensilità a 6 mensilità. In tempi di vacche grasse molti sceglievano il risarcimento, perché il lavoro si trovava.
L’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, invecefa un passo avanti nel campo della Tutela reale. Prevedeva infatti, sempre in caso di accertata illegittimità, per il datore di lavoro di reintegrare il lavoratore licenziato nel posto di lavoro e di corrispondergli una indennità risarcitoria pari alle retribuzioni dalla data del licenziamento sino alla reintegra. Normale direi: hai licenziato senza motivo riassumi e dai il salario perso fino a quel momento. Civiltà.

Vediamo che succede dopo. Il primo grosso attacco al concetto di giusta causa viene dalla Fornero del governo Monti.
Con la legge n. 92/2012 (Riforma Fornero) è stata modificata la disciplina contenuta nell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori e sono stati introdotti distinti regimi di tutela per le diverse ipotesi di illegittimità del licenziamento. La piena tutela reale è¨ rimasta applicabile soltanto al caso di nullità del licenziamento perché discriminatorio. E’ stata poi introdotta una tutela reale “attenuata” (che comporta il diritto del lavoratore alla reintegrazione e al risarcimento del danno sino a un massimo di 12 mensilità ) nel caso in cui non ricorrono gli estremi della giusta causa o del giustificato motivo soggettivo “per insussistenza del fatto contestato ovvero perchè il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa” e in caso di manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo.
Quindi una rete complessa caso per caso che di fatto ha tolto tutela e avallato solo il riconoscimento di nullità per discriminazione. Che non è così semplice da provare.

Si va avanti quindi di tutela esclusivamente risarcitoria, incentrata sul diritto del lavoratore a un’indennità risarcitoria da 12 a 24 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto. C’è ancora un altro caso di tutela applicabile in caso di vizio di carattere formale o procedurale e comporta il diritto del lavoratore a un’indennità risarcitoria compresa tra un minimo di 6 e un massimo di 12 mensilità . La bolgia fatta per aiutare a licenziare arbitrariamente.
Si potrà pure dire che si dovevano fare scioperi ad oltranza, ma si fece un tentativo. Deserto o quasi. Perché in Parlamento PD con Bersani accettò tutto ciò. Diventa difficile anche per un sindacato convinto scendere in piazza.
Andiamo avanti. Come siamo messi a quel punto?
҉҉҉Per tutti i lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015 sono tuttora in vigore questi differenti regimi di tutela previsti dall’art. 18 dello Statuto dei lavoratori; e per i lavoratori di aziende che occupano meno di 16 dipendenti in ciascuna unità produttiva o meno di 60 su scala nazionale continua a essere in vigore la tutela obbligatoria prevista dalla legge n. 604 del 1966 (fatta salva la reintegrazione in caso di licenziamento discriminatorio). Per i lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015 si applica invece un nuovo regime di tutela, introdotto dal decreto legislativo n. 23 del 2015 (Jobs Act).҉҉҉

RAGIONIAMO

Il decreto legislativo Jobs Act ha quindi limitato il diritto del lavoratore alla reintegrazione nel posto di lavoro SOLTANTO ai casi di licenziamento discriminatorio, considerato nullo o in palese falso del fatto contestato. Negli altri casi di licenziamento ILLEGITTIMO, è previsto solo un indennizzo economico, pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del Trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio (in misura comunque non inferiore a 4 e non superiore a 24 mensilità). La predetta indennità risarcitoria è ridotta a una mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del Trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a due e non superiore a dodici mensilità, in caso di vizio formale o procedurale. Per le piccole imprese, al di sotto dei 15 dipendenti, è prevista invece un’indennità da 2 a 6 mensilità. Punto

***L’obiettivo del referendum è quello di abrogare completamente quest’ultima disciplina introdotta dal D.Lgs. n. 23/2015, e di abrogare nel contempo alcune parti dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori: in pratica, si vogliono abolire le modifiche introdotte con la Legge Fornero, per tornare alla vecchia formulazione dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, e quindi a un UNICO REGIME DI TUTELA IN CASO DI LICENZIAMENTO ILLEGITTIMO(anche in caso di licenziamento viziato solo sul piano formale), incentrato sul diritto del lavoratore alla reintegrazione e al risarcimento del danno in misura piena.**

L’obiettivo del referendum è anche quello di ESTENDERE l’ambito di applicazione della tutela prevista dall’art. 18: già per le imprese agricole con più di 5 dipendenti esiste la stessa tutela. Proprio per la Costituzione che non ammette discriminazioni tra lavoratori nelle stesse condizioni la parte considerata da alcuni propositiva, ma in realtà costituzionalmente legittima, potrebbe essere stralciata.

Sarà la Corte a pronunziarsi, il prossimo 11 gennaio, sull’ammissibilità o meno del quesito.

L’avvocatura dello Stato fa il suo mestiere a favore di Jobs act.
Noi vediamo di fare il nostro. Perché alla fine il risultato è stato anche costituzionalmente dubbio: tutele diverse a parità di mansioni e condizioni. La risultante è sempre la stessa.
Non si tratta di riportare indietro la Storia. Si tratta di equilibrare diritti e doveri nel posto di lavoro.

Buona fortuna Referendum.

Claudia Baldini

Domenica voto NO contro l’autocrazia, di M. Luciani

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Massimo Luciani

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Spero che domenica 4 fallisca il miserabile tentativo di contrabbandare per anticasta e per contenimento di costi l’impresentabile pateracchio che modifica chiavi in mano 47 articoli della Carta Costituzionale.
Nel vecchio testo vi erano principi comprensibili a chiunque, nel nuovo testo si inseriscono regolamenti oscuri ai più.
La parte peggiore è quella che riguarda il presunto superamento del bicameralismo perfetto, ma anche per i fautori del monocameralismo non può che essere riconosciuta come peggiorativa la modifica che si vuole introdurre.
Si dice che si supera il bicameralismo perfetto affidando al nuovo Senato compiti quasi esclusivi di rappresentanza delle istituzioni territoriali, quasi una elevazione di rango della Conferenza Stato-Regioni, punto. Non è così: il nuovo Senato “Partecipa alle decisioni dirette alla formazione e all’attuazione
degli atti normativi e delle politiche dell’Unione europea”. Ma se gran parte dell’attività legislativa consiste proprio nel recepimento di indicazioni della UE e veramente si pensa di affidarle a Sindaci, Presidenti di Regioni ed esponenti di giunte che dovranno andare a Roma solo 3-4 volte al mese è evidente che al massimo potranno soltanto certificare con il visto provvedimenti che saranno così sottratti alla sovranità popolare. Non potranno programmare alcuna attività dal momento che i mandati dei senatori scadranno ciascuno in corrispondenza delle elezioni amministrative e comunali del territorio di appartenenza.

Si dice che si vogliono ridurre i costi della politica, ma per ridurre le retribuzioni e i vitalizi non occorre modificare la costituzione: sarebbe molto più facile, basterebbe volerlo.
In realtà si vuole rafforzare i poteri dell’esecutivo perché gli “investitori” chiedono governabilità. Lo dimostra la corsia preferenziale che si vuole istituire con il “voto a data certa” sui disegni di legge “essenziali per l’attuazione del programma di governo”. Si vuole limitare la sovranità popolare sottraendo poteri al suffragio universale e affidando sempre di più le decisioni alla tecnocrazia e all’autocrazia degli specialisti. Se si accresce la governabilità riducendo la rappresentatività il risultato è più autocrazia e meno democrazia

In realtà si accentrano poteri e dove si accentrano i poteri il sistema che si vorrebbe rendere più stabile diventa invece più vulnerabile. Il rischio della svolta autoritaria nei sistemi accentrati è una categoria del novecento, divenuta ormai obsoleta? Quel rischio non è più reale? Mah! Mi permetto di dissentire.

Però qualcosa la possiamo dire senza tema di smentita: di leggi non se ne fanno poche, ma troppe, più che in qualsiasi altro stato dell’Unione Europea. Di solito non si seguono procedure troppo lunghe, a meno che non si tratti per esempio di conflitto di interessi, ma troppo veloci: la Monti-Fornero Pensioni, il Jobs Act sono validi esempi. Ma soprattutto diciamo che le leggi sono tanto peggiori quanto maggiore è la governabilità. L’Assicurazione Generale Obbligatoria, Lo Statuto dei Lavoratori, la Scala Mobile dei salari, ma anche il diritto di famiglia, la Basaglia, il Servizio Sanitario Nazionale li abbiamo conquistati quando i governi erano instabili, le legislature duravano poco più di un anno, l’opposizione era forte, il salario era una variabile indipendente, gli operai volevano il figlio dottore. Tanto disordine, ma tante conquiste.

Massimo Luciani

Considerazioni dalla parte dei vinti, di A. Castronovi

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Mi capita spesso di ripensare agli ideali della mia gioventù che sul finire degli banni ’60 animarono le passioni politiche e civili di una intera generazione. Passioni calde che infiammarono le piazze d’Italia e le grandi fabbriche della giovane classe operaia del Nord, in prevalenza meridionale emigrata a Milano e Torino, attratta dalla prospettiva di vincere la grande corsa infinita verso il progresso e il benessere. Dopo, nulla è stato come prima. Il mondo è cambiato davvero ma non nel senso da tanti di noi auspicato. È tramontata definitivamente la civiltà contadina, hanno vinto l’industrialismo prima e la finanziarizzazione e deindustrializzazione dell’economia poi. I valori del consumismo, dell’individualismo, dell’egoismo sociale, della competitività hanno trionfato su quelli della democrazia del lavoro, dell’uguaglianza e della solidarietà sociale, relegati nella pattumiera della storia.

Vincitori e vinti

Che fine hanno fatto i protagonisti di quella stagione? Ci sono quelli saliti sui carri dei vincitori e quelli rimasti fedeli e coerenti a quegli ideali di gioventù. I primi li ascoltiamo ancora quotidianamente dalle nostre TV nelle vesti di opinionisti e di politici. Dei secondi non parla nessuno, emarginati nella sconfitta e nella memoria collettiva. Sono quelli che non si sono mai arresi e che il mondo hanno provato a cambiarlo davvero mettendosi in gioco anche dentro le organizzazioni politiche e sociali in cui hanno militato. L’onda omologante ha livellato le increspature nel tessuto della storia sollevate dalle ansie e dai moti di rivoluzione sociale che avevano animato le grandi attese di cambiamento di quegli anni. Ha vinto e si è confermato il “trasformismo” italiano. La purezza e l’ingenuità rivoluzionarie che avevano animato la nostra generazione e quella dei nostri nonni che promossero l’organizzazione e le prime  lotte dei movimenti dei lavoratori all’inizio del ventesimo secolo – e che avevano generato figure e personaggi straordinari e generosi come Angelo Antonicelli, contadino “sovversivo” senza-terra  di Massafra, il mio paese d’origine – sono state sostituite dai valori opportunistici e omologanti dei vincitori assunti a modello. Il paese oggi si è assuefatto ai valori dell’individualismo proprietario e dell’egoismo sociale che hanno distrutto gli antichi legami comunitari della società contadina e delle prime leghe operaie. Siamo una generazione di sconfitti.

Ho fatto il sindacalista della Cgil a Roma per una vita intera. Ho toccato con mano le ingiustizie sociali e le sofferenze umane. Ho condiviso la disperazione di chi perde un lavoro vitale per un licenziamento ingiusto, ho conosciuto la generosità e la solidarietà operaia. Ho visto in faccia la viltà del potere verso i più deboli e i più umili insieme alla paura e all’angoscia della sconfitta. Ho conosciuto sindacalisti generosi e instancabili nella loro quotidiana opera di organizzatori e di difensori dei diritti dei lavoratori: ma ne ho conosciuti anche di profittatori, di furbetti e opportunisti, per non dire di disonesti. Mi sono sempre illuso che l’impegno quotidiano e la passione politica e civica che mi hanno guidato nella mia attività, fosse inserito in un processo storico di liberazione e di emancipazione del mondo del lavoro. Eravamo certi, allora, che il vento soffiasse alle nostre spalle. Anch’io pensavo che lo sviluppo industriale era la via per il riscatto del Sud e della mia terra d’origine. Oggi il Sud è purtroppo diventato la discarica di rifiuti inquinanti controllati dalle varie mafie, dopo aver subito le devastazioni provocate alla sua storia e alle sue bellezze naturali dalle servitù industriali delle produzioni chimiche e siderurgiche più inquinanti.

Noi” che ci siamo battuti per il Progresso, abbiamo identificato il “gigantismo” con la “modernità” e considerato il “piccolo” come sinonimo di arretratezza. Abbiamo così sostenuto la grande impresa agricola e industriale rispetto alla proprietà e alla civiltà contadina, alle piccole imprese e all’artigianato; le grandi opere rispetto alle piccole; le grandi banche d’affari a svantaggio delle banche territoriali; i mega-centri commerciali che costellano le nostre periferie urbane rispetto alla rete diffusa dei piccoli negozi di vicinato. Abbiamo privilegiato la metropoli rispetto ai piccoli centri, la città rispetto alla campagna e alla bellezza dei luoghi, e abbiamo contribuito allo spopolamento dei borghi e delle zone interne, oggi devastate dall’incuria umana e dalla forza oscura della natura. Abbiamo assunto la crescita come metro di misura del progresso e il “consumismo” è diventato un’ideologia, sinonimo di benessere, ed invece era una droga di cui avvertiamo i sintomi della dipendenza: è un moto complusivo, automatico, non possiamo farne a meno neanche in epoca di austerità come la nostra.

Perché da ex-sindacalista dico queste cose oggi? Perché sono un pentito dello sviluppo e del progresso? Perché sono “antimoderno” e “nostalgico” del passato”? Penso semplicemente che l’uomo per ritrovare la sua innocenza deve purificarsi degli errori che hanno generato gli orrori del nostro presente. Penso al passato come ad una forza potente che può irrompere nel presente e scuotere la terra e l’ordine ivi esistente.

In Ideologia e Poetica (Per Per il cinema, a cura di W. Siti e F. Zabagli, 1973 – Mondadori, Milano) Pasolini affermava: “Preferisco muovermi nel passato proprio perché ritengo il passato unica forza contestatrice del presente. Non c’è niente che possa far crollare il presente come il passato: è una forma aberrante ma tutti i valori che sono stati i valori in cui ci siamo formati, con tutte le loro atrocità, i loro lati negativi, sono quelli che possono mettere in crisi il presente”. Solo i vinti hanno interesse a rievocare le immagini degli sconfitti delle epoche storiche precedenti, mentre i vincitori, detentori del potere, rievocano soltanto la storia ufficiale, cioè la loro.

Le macerie dell’industrialismo

Quello che oggi mi preme è avanzare suggestioni che stimolino e aprano le menti e i cuori per ridare un futuro alle nostre terre più martoriate e alla nuove generazioni alla luce delle lezioni della storia e per non ripetere gli stessi errori.Ritrovare e riconnettere i fili spezzati di una storia che non è stata.

Il mio pensiero corre così al famoso discorso sull’austerità di Berlinguer all’Eliseo del 5 gennaio 1977 e a un Congresso della Cgil dei primi anni’70 e alle domande che ivi echeggiarono, rimaste senza risposta: dove, cosa, come e per chi produrre?Sono domande pertinenti ancora e soprattutto oggi. Produrre qualsiasi cosa in un qualsiasi luogo, togliendo diritti e dignità al lavoro e sfruttandolo in tutti i modi possibili, è cosa che contraddice, infatti, un cambio di paradigma del modello di sviluppo. L’industrialismo e il consumismo si sono rivelate la malattia e non il rimedio alle sofferenze, alle privazioni e alle ristrettezze di cui hanno patito per secoli le classi subalterne. A questo esito, per ironia della storia, hanno contribuito anche le organizzazioni del movimento operaio nate per riscattare i più umili e finite nella “trappola” del progresso. Del resto l’industrialismo è stato una vocazione della cultura sviluppista della sinistra politica e sindacale anche in una città come Roma. Il manifesto congressuale della Camera del Lavoro di Roma del 1977 raffigurava l’ombra di una fabbrica con ciminiera che si rifletteva su Castel S.Angelo! Quella immagine non fece scandalo alcuno. Era dopotutto il simbolo di una rivendicazione storica del movimento operaio romano: il sogno irrealizzato di Roma Capitale come grande città industriale.

Oggi, fortunatamente, simili suggestioni sono tramontate, ma nel passato non si avevano di questi scrupoli. Basti pensare che fino agli anni ’20- ’30 il Gazometro e la Pantanella a Roma erano ubicati nella area industriale del Circo Massimo, ai piedi del Palatino e dell’ Aventino! Chi pensasse e osasse fare una cosa del genere oggi sarebbe da ricovero immediato! Bisognerebbe  essere degli ottusi operaisti, infatti, per rimpiangere le fabbriche in città. Chi sopporterebbe, oggi, i fumi nocivi di una ciminiera a pochi metri dalla finestra di casa? Anche questo è lo scandalo vergognoso di cui è vittima una città ultra-millenaria come Taranto! L’industria chimica e siderurgica ha però già fatto il suo lavoro distruttivo;  negli oceani ci sono continenti di plastica, le nostre coste e pianure sono segnate da  un lunga catena di città e siti inquinati e inquinanti. Sono quarantaquattro le aree in Italia inquinate oltre ogni limite di legge: Trieste, Porto Marghera, Brescia, Mantova, Cengio, Falconara, Termoli, Terni, Manfredonia, Bari, Brindisi, Taranto, Crotone, Priolo, Gela, Milazzo, Napoli- Bagnoli, Litorale vesuviano, Fiume Sacco, Civitavecchia, Piombino, Casal Monferrato, Livorno, Porto Torres, Sulcis Iglesiente, ecc..

Ora molte aziende hanno chiuso, e resta il disastro ambientale. L’Italia e le nostre città sono disseminate di siti industriali dismessi, colmi di rifiuti tossici abbandonati, che continuano a disperdere veleni nell’ambiente. Come uscire da uno sviluppo che ha inquinato e avvelenato le nostre città, l’aria, la terra, i mari e le acque insieme ai cuori e alle menti dell’umano, per orientarsi verso un’economia e uno sviluppo basato sulla bellezza e la cura dei luoghi, sulla gentilezza e sull’amore verso l’uomo e la natura, verso la madre-terra? L’illusione del progresso (il nostro) sopravvive purtroppo ancora nelle pratiche politiche e sindacali, sopravvive nelle guerre per le materie prime e nell’industria delle armi e nelle distruzioni che portano con loro. Sopravvive nelle servitù militari e industriali di cui è vittima una città altrimenti bellissima come Taranto con il suo magnifico entroterra e i suoi mari. Sopravvive nella rapina delle risorse naturali e di minerali preziosi dell’Africa da parte dei paesi occidentali e nelle sue terribili guerre tribali per accaparrarsi i dividendi della neo-colonizzazione. Sopravvive nei milioni di profughi ambientali e di quelli in fuga dalle guerre generate per il “nostro” benessere.

Quale speranza per il futuro del lavoro?

Dalla crisi emerge lo scheletro contadino della società italiana”, affermava il Presidente del CENSIS Giuseppe De Rita nel 45° Rapporto del 2011. Tanti giovani acculturati e laureati stanno riscoprendo la terra e la cultura contadina portando con sé innovazione e nuovi saperi. Una nuova cultura contadina innestata sul recupero dei piccoli centri spopolati e/o abbandonati delle zone interne e collinari, sulla valorizzazione del patrimonio culturale e ambientale e paesaggistico, sul turismo sostenibile, sull’eno-gastronomia e sulla agricoltura sostenibile e di qualità: questa può essere la strada per il riscatto del nostro passato e delle sue illusioni. Transitare da un modello concentrazionario – dove si centralizzano risorse, capitali, popolazione, forza-lavoro in un singolo spazio-luogo per ottimizzare le risorse produttive, privilegiando le zone costiere e le pianure – a un modello policentrico diffuso e basato sullo sviluppo localee puntando sulla valorizzazione dei territori e sulla decentralizzazione delle risorse; decongestionando le città e orientando lo spostamento della popolazione urbana, della forza-lavoro, verso le aree interne, le colline e i piccoli centri, dalla città verso la campagna. È un compito, questo, che spetta alla politica ma che tocca da vicino la progettualità sociale delle organizzazioni dei lavoratori. Il lavoro – che è oggi la vittima di uno sviluppo sfuggito al controllo dell’umano – e le organizzazioni dei lavoratori non  possono sottrarsi al dovere storico di riconciliarsi con l’ambiente e la natura, con la società e le comunità locali. Nondimeno in questa missione rimangono le possibilità di riscatto del lavoro da un destino che lo relega oggi alla emarginazione sociale e ad una povertà senza la dignità della povertà contadina e artigiana.

Il capitalismo industriale fordista aveva illuso sulle sue presunte infinite possibilità di ridistribuire ricchezza e prestigio sociale ai salariati. L’organizzazione taylorista del lavoro era stata scambiata come ineluttabile progresso tecnico. Ha invece contribuito potentemente alla sua alienazione e alla spoliazione delle sue qualità e del suo sapere. Oggi la globalizzazione ha distrutto le illusioni del lavoro salariato e delle sua aspirazioni “rivoluzionarie”. Rimangono un esercito di precari e di disoccupati e i cimiteri delle fabbriche dismesse nelle periferie delle nostre città, trasformate per amara ironia della storia – penso a Roma e all’ex Tiburtina Valley da santuari della rivoluzione proletaria a casinò del gioco d’azzardo. Il nucleo forte dei lavoratori stabili si è ridotto sempre di più ed è concentrato nei diversi settori pubblici, nelle imprese locali partecipate che gestiscono servizi pubblici, nelle grandi imprese private di servizi, e in quel poco che resta di imprese industriali ancora competitive sui mercati internazionali. Come ripartire dalle macerie che ci ha lasciato l’industrialismo per reinventare un futuro del lavoro e della società? Come conciliare le speranze di intere generazioni escluse dal cosiddetto “sviluppo” con gli interessi spesso corporativi dei lavoratori più protetti? Sono le domande a cui dovrebbe rispondere un moderno sindacalismo confederale. Il sindacato oggi è purtroppo lontano dal popolo dei precari e dei senza lavoro tanto cari a Giuseppe Di Vittorio e alle sue leghe edili e bracciantili. In tante sue pratiche il sindacato si comporta, specie nei settori forti e protetti dell’economia, come una propaggine dell’impresa e dei suoi interessi. Nei servizi pubblici prevale spesso l’interesse corporativo dei lavoratori sulla difesa e tutela dei diritti dei cittadini.

Il Piano del Lavoro della Cgil che fine ha fatto? Scomparso dall’agenda sociale e politica del paese! Migliaia di pagine scritte che non reggono il confronto con le due scarse e “misere” paginette del Piano di Di Vittorio che mobilitò, con gli scioperi a rovescio e l’occupazione delle terre, milioni di lavoratori edili e braccianti precari e disoccupati per la riforma agraria, per la nazionalizzazione dell’energia elettrica e l’elettrificazione delle campagne, e per un piano di investimenti pubblici per la ricostruzione del paese devastato dalla guerra. Il paragone con l’oggi è impietoso se pensiamo ai milioni di giovani precari e disoccupati senza speranza e senza rappresentanza sociale e politica. Dove sono le priorità strategiche di un moderno Piano del Lavoro? Anche questa la sento come una mia sconfitta.

Riconciliare lavoro e bene comune. Una funzione possibile degli intellettuali

I lavoratori non possono essere estranei, come le imprese globali, ai destini dei territori in cui vivono i popoli che li abitano. Questo non può farlo un sindacalismo corporativo che leghi il destino dei lavoratori solo a quello dell’impresa, estraniandosi così dalla società, dai cittadini e dal perseguimento del bene comune. Il lavoro potrebbe ritrovare la sua funzione emancipatrice se fosse non solo finalizzato alla sua riproduzione sociale ma anche per realizzare l’umanesimo del lavoro e  una nuova civiltà del bene comune.

Walter Benjamin, grande filosofo marxista tedesco del Novecento, è stato un severo critico di una concezione marxista-progressista della Storia e della società dei consumi. Nelle sue Tesidi filosofia e di storia, scriveva: “Nulla ha corrotto la classe operaia tedesca come l’opinione di nuotare con la corrente. Lo sviluppo tecnico era il filo della corrente con cui credeva di nuotare…”. Il Programma di Gohta ( Il manifesto della socialdemocrazia tedesca del 1875), denunciava Benjamin, definisce il lavoro come ”la fonte di ogni ricchezza e di ogni cultura… cosa che fece inorridire Marx”. E continuava: “Questo concetto della natura del lavoro, proprio del marxismo volgare, non si ferma troppo sulla questione dell’effetto che il prodotto del lavoro ha sui lavoratori finché essi non possono disporne. Esso non vuol vedere che i progressi del dominio della natura e non i regressi della società…Il lavoro, come è ormai concepito, si risolve nello sfruttamento della natura, che viene opposto – con ingenuo compiacimento – a quello del proletariato…”

Certamente è importante conquistare la libertà dalla sofferenza e dal bisogno. Aspiriamo per questo al denaro, al successo, ai beni materiali, alla sicurezza. Il lavoro è un mezzo per raggiungere questi scopi e il movimento sindacale ha svolto questa funzione per tutto il Novecento. Ma è proprio impossibile concepire il lavoro al servizio della società e del bene comune vivendo in armonia con la natura? È un’illusione pensarlo? Lo scetticismo è giustificato. L’idolatria del mercato e del consumismo dei “moderni” hanno sostituito,  nella civiltà industriale occidentale, la spiritualità e l’austerità naturale degli “antichi”. Le passioni “calde” della politica partecipata sono state sostituite da quelle “fredde” dell’economia e del business.Viviamo in una cultura aggressiva e fortemente competitiva che ha permeato anche il mondo del lavoro. L’ “io” ha sovrastato il “noi” e il bisogno di comunità. La democrazia ha smarrito i valori fondativi della Polis ed è degenerata nel mercato dei consumi. Il nostro sviluppo è nefasto perché incoraggia altri popoli a comportarsi come noi e ad adottare i nostri stili di vita e i nostri valori egocentrici e materialisti.

Come invertire questa tendenza a partire da noi? Il nostro sistema di vita può rivelarsi insostenibile per la specie umana e per l’ecologia del vivente. Siamo in grado di cambiare i nostri paradigmi e la nostra cultura per fondare una visione alternativa dello sviluppo e del progresso? È questa la sfida aperta per il pensiero democratico e solidaristico, e per gli intellettuali che dovrebbero essere i promotori e i custodi del bene comune. Nella visione gramsciana, ogni gruppo sociale crea una sua categoria specializzata di intellettuali, organici alla sua funzione storica e produttiva. Così Gramsci elaborò la figura dell’intellettuale organico alla classe operaia, ad una classe che si candidava ad essere egemone nella società industriale. Nell’epoca odierna della  decadenza delle classi che hanno fatto la storia della società industriale – la borghesia produttiva e la classe operaia – gli intellettuali, orfani di questo ruolo storico, sono diventati in gran parte “propagandisti” del pensiero unico e dell’ordine esistente assunto come senso comune, al servizio spesso dei politicanti di turno e dei poteri costituiti. Gli intellettuali che amano il progresso umano, invece – orfani di una “classe” ormai dispersa – non dovrebbero ridursi a essere partigiani sostenitori di partitini o di politici di sinistra autoreferenziali, ma divenire portatori di una visione critica del mondo e del potere, nuovi sacerdoti custodi del bene comune e della sacralità dei beni comuni sociali e naturali, educatori delle nuove generazioni, e severi vigilanti dei costumi e dei comportamenti di quanti li denigrano e li oltraggiano ogni giorno.

Il riscatto dei vinti e un sogno

La sconfitta della nostra generazione, che ha fallito nelle sue ambizioni di palingenesi sociale e che non ha saputo vedere i rischi dell’inseguire il benessere e il successo a tutti i costi, si è risolta nel crollo di tutti i suoi miti fondativi. Questa sconfitta sia di lezione per l’oggi affinché non si smarrisca la memoria degli errori di ieri e delle sue sofferenze. La Storia non è solo un susseguirsi di eventi lineari in cui il passato sia alle nostre spalle. Esso ci parla anche con il linguaggio e la memoria dei vinti e degli sconfitti redenti e non solo con quello dei vincitori, affinché quello che non fu possibile ieri diventi possibile oggi o domani. Per Benjamin la rivoluzione futura ci sarà soltanto se il passato sarà redento. Essa è il “balzo di tigre nel passato”.“Il soggetto della conoscenza” – scrive ancora W. Benjamin – “ è la classe stessa oppressa che combatte.., che porta a termine l’opera della liberazione in nome di generazioni di vinti”. Non so se un giorno il mondo cambierà in meglio. Ma se sarà così, lo sarà non grazie a quelli che sono saliti sul carro dei vincitori, ma grazie ai popoli vinti ma non domati, alle classi oppresse, ai sacrifici e alle testimonianze di tutti quelli che pur sconfitti ed emarginati, non si sono mai arresi. Per concludere. Che cosa posso dire oggi al mio paese e alle terre violentate da cui mi sono distaccato oltre quarant’anni fa, stravolte nella loro identità dalla modernità vincente? Ho un sogno per Taranto e i paesi viciniori, città-martiri vittime di questo industrialismo avvelenato: la chiusura dell’ILVA con una grande cintura verde attorno e un grande Museo da creare lungo la catena produttiva dell’acciaio per testimoniare e mostrare al mondo le brutture e le sofferenze umane dolorose di una certa civiltà industriale, che valga come monito per il futuro dell’umanità e delle nostre terre martoriate.

Antonio Castronovi

tratto dal sito: http://comune-info.net/2016/11/considerazioni-dalla-parte-dei-vinti/


Alla CGT sciopero di solidarietà per la morte di Ahmed El Danf, operaio, ucciso da un crumiro durante un picchetto davanti la sua azienda, la Gls di Piacenza. del Coordinamento Sindacale CGT – CLS

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Comunicato per tutte le Lavoratrici e Lavoratori della CGT- CLS
Il Coordinamento RSU unitario Filcams CGIL- Fisascat CISL- Uiltucs UIL della
CGT – CLS , dopo i fatti accaduti a Piacenza, presso l’azienda Gls Logistica, esprime
cordoglio e solidarietà per l’operaio sindacalista travolto da un camion durante il
presidio organizzato davanti ai cancelli dell’azienda, sciopero indetto per il mancato
rispetto da parte dell’azienda degli accordi sottoscritti tra le parti.
Inoltre, l’indignazione sui gravi fatti avvenuti è unanime, si condanna ogni forma di
violenza fisica, ma è altrettanto vero che tale episodio denuncia le attuali condizioni
del mondo del lavoro a cui i Lavoratori e Lavoratrici sono sottoposti.
L’assenza e l’insufficienza di tutele generano continue tensioni tra le Imprese e i
Lavoratori, nonché continui ricatti per tutta quella forza lavoro costretta ad
accettare un lavoro sempre più povero.
Gli effetti della politica Europea e Nazionale continua a ridurre salari e diritti,
moltiplicando forme contrattuali di precariato, strumenti di sfruttamento
legalizzato, con nessun parametro di riferimento verso la dignità umana.
E’ inammissibile perdere la vita in tali circostanze, l’Italia è una Repubblica fondata
sul lavoro e dovrebbe essere sufficiente per far intervenire le Istituzioni
all’osservanza di tale principio, affinché venga garantito un lavoro che possa essere
dignitoso per tutti i Lavoratori e Lavoratrici.
Il Coordinamento Sindacale CGT – CLS per solidarietà e fermezza nel
ripudiare tali atteggiamenti:
DICHIARA LO SCIOPERO di 1 ORA A FINE TURNO PER IL GIORNO MARTEDI’ 20 SETTEMBRE 2016

Coordinamento RSU unitario Filcams CGIL- Fisascat CISL- Uiltucs UIL della
CGT – CLS

L’impatto liberista, di C. Baldini

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baldini claudia 4

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Dagli anni ’90 in poi è subdolamente cambiata la civiltà del vivere, del convivere e la faccia della democrazia, reale. Quando l’ unico metro di valutazione divengono il Pil e le borse, significa che dal lato economico si scatena la corsa al Pil , aumentando competitivita, indipendente dal degrado della qualità della vita e dall’altra non si ha interesse a reinvestire in economia ma la si delega in perdita alla gestione politica.
Subdolamente perché i più speravano che solo la classe operaia dovesse come al solito pagare ed invece grazie alla crisi finanziaria indotta, tutte le categorie stanno soffrendo. Tutti coloro che non hanno accesso alle informazioni che contano, non possono arricchirsi o sopravvivere mediante clic che spostano le regole del gioco al giusto potere.

Quindi diviene meno importante produrre beni o servizi per investire e dare economia reale, piuttosto che aggiungere ricchezza a ricchezza.
E non importa se quel clic manda un Paese fallito o in dittatura, finché rende va bene.

Non è che la trasformazione sia giunta di improvviso , preparata per tempo dalla decisione Usa dell’accorpamento banca commerciale – banca affari. Veniva li a Bretton Woods sancito l’impiego del risparmio per investimento finanziario. Cadeva quindi due capisaldi dell’ economia reale : il credito territoriale e il possesso delle azioni industriali per sostenere le imprese nella loro crescita. Un patto insostituibile per lo sviluppo di un Paese: io compro azioni Fiat perché aiuto il lavoro per tutti. Ora compri e vendi per speculare, al di là della rappresentatività dell’azione. È un po’ come giocare alla roulette rossa sulla sopravvivenza di una economia e dei suoi addetti.
Non è un caso che Sanders pretenda la separazione bancaria, il rigido controllo della Fed sulle società quotate e la drastica limitazioni delle transazioni speculative. Difficile, sì, ma socialismo.
Dalla Cina all’ America, dall’ Europa agli Emirati Arabi, chi detiene leadership sulla Finanza globale, governa il mondo. È dallo scontro e convenienza tra essi che cadono governi, si fanno guerre per il possesso di aree di influenza, si usano dittatori, terroristi e false democrazie al fine di mantenere in equilibrio gli stessi poteri sulla pelle di chi non li ha. Non c’è infatti alcun motivo militare di continuare l’ accerchiamento da parte della coalizione alla Siria, se non quello di sottrarre influenza politica alla Russia. Una volta ci si minacciava con i missili, ora con il controllo del mercato. La strizzatina d’ occhio del fascista Erdogan a Putin è un avviso di sfratto alle 24 basi americane in Turchia. Il massacro dei Curdi ed ogni violazione dei diritti sono effetti collaterali. La posta è il controllo del mercato. E i terroristi nativi e foraggiati da Arabia Saudita e lasciati fare in Turchia sono uno strumento nello scontro di potere.

Anche la debole Europa,inetta e mediocre partecipa al piatto e al sistema attraverso i Ttp.
È ovvio che dovessero sparire le ideologie e la politica dovesse cambiare per non decidere. Perciò non abbiamo teste autonome ,potere politico, ma solo pedine politiche nello scacchiere internazionale. Lo stesso Obama, nonostante le buone intenzioni., ha dovuto soggiacere al mostro creato negli anni di Reagan , Bush e Thatcher.
In Europa non esiste un Paese socialista: la Grecia è alla gogna senza influenza e senza onore.

In Italia, dove abbiamo un Paese diviso tra pubblico,mantenuto col clientelismo, e privato con ogni diritto perduto, né il Pci del dopo Berlinguer, né la Cgil del dopo Cofferati che si è crogiolata nell’ identificazione col Pd, hanno valutato la portata di sconvolgimenti che venivano dalla globalizzazione. Si sono adeguati al concetto di massima competizione, pensando alla qualità decisamente scartata a favore del basso costo.
Non mi spiego diversamente la calata di braghe di D’Alema, Fassino, Chiamparino inquadrati nel New deal malefico della fusione a freddo veltroniana. Fusione con chi questo mercato globale lo incensava, avendo il capitalismo fissato nel suo DNA. Tutto ciò ha portato da Treu, Biagi in poi ad accordi disattesi da difendere con lotte continue per farli rispettare. E Cgil , anche isolata, si è riparata nel Pd, dopo il 2008, con un silenzio assenso colpevole e traditore dei suoi valori. Abbiamo perso il contatto con il degrado culturale e sociale nelle fabbriche, negli uffici. E come al solito bersagliati anziché sorretti a ricompattarsi e porsi riferimento per la difesa dei diritti ci siamo ripiegati sulle singole difese aziendali e sui soli contratti. Pare che qualcosa cambi , ma è molto tardi.

Nel pubblico dopo un perdurare ancora di clientelismo, è precipitato tutto. Niente contratti, furbetti a volte difesi, dirigenti intatti.

Abbiamo ancora la forza e il coraggio di cambiare il nostro palazzo per tornare alla lotta? Non so, ma non c’è scelta è non perché spariamo noi, ma perché nessuno è ora più in grado di noi di tentare.
L’ultima nefandezza del Jobs act ha allargato la faglia tra la dirigenza e la base. Anche qui solo Landini e pochi altri hanno capito. Basta analizzare bene come il Jobs act sia un atto pro poteri forti del mercato. Si è interrotta la fidelizzazione del lavoratore con il suo posto di lavoro che non significava solo stabilità, ma attaccamento e collaborazione. Ha rotto un modesto equilibrio di poteri tra impresa e lavoratori faticosamente conquistato, lo tiene perennemente sulla porta di uscita.

Da Pomigliano in poi con l’ appoggio politico e dei sindacati soliti, Marchionne rappresenta sul mercato dell’usato auto la mano della Finanza e ancora il pd lo loda.

Bisogna tornare all’ origine. Non so come.
E la sinistra non ha finito il suo ruolo. Ma anche qui è sfacelo. Ovviamente,venendo a mancare dalla sinistra il partito maggiore in politica di destra impegnato con ominicchi e furbetti è normale. Quello che non è normale è avere gente che si dice di sinistra, ma vuole alleanze con Verdini.

Non vedo una grande volontà di tentare, di unirsi di rendersi credibili. In fondo dobbiamo trarre forza e unità da chi ripartì dopo la Resistenza anche se era più semplice. Volendo, ora, abbiamo maestri e strumenti culturali alle spalle da far prevalere sui piccoli uomini che abbiamo dentro

In fondo giochiamo il futuro di un Paese che potrebbe anche dare una svolta in Europa.

Claudia Baldini