Movimento
Il pacifismo e le guerre. di A. Benzoni
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Il pacifismo, come movimento politico organizzato, nasce, cent’anni dopo la rivoluzione francese e cent’anni prima della caduta del muro, al congresso di fondazione della Seconda internazionale. Suo nemico, il capitalismo, portato all’uso della violenza dalle sue contraddizioni interne ma soprattutto dalla necessità di contrastare, in ogni modo e ricorrendo a qualsiasi mezzo, il processo di emancipazione del proletariato. Suo fratello/coltello, l’interventismo democratico: comune l’intendimento di costruire un mondo migliore (che per quest’ultimo, si identifica con l’emancipazione dei popoli oppressi); opposti metodi da adottare che si identificano, nel secondo caso, con il ricorso alla guerra.
Tutti e due si collocano nell’ambito della sinistra e occasionalmente avranno modo di convergere (come nella seconda guerra mondiale). Come, nel corso del novecento, avranno modo di convergere i socialisti (per i quali la guerra è un male in sé) e gli altri fratelli/coltelli, i comunisti (per i quali le guerre sono giuste o ingiuste a seconda della natura delle forze in campo).
Ciò premesso i pacifisti, intendono battersi contro la guerra in tre modi: nei casi specifici impedendola e operando perché cessi al più presto; in linea generale e permanente, lottando per evitare processi, comportamenti o crisi politiche suscettibili di portare ad un conflitto aperto.
Questi i protagonisti; intorno a loro movimenti di opinione suscettibili di assumere un’identità e una forza propria; e il cui ruolo, in ultima istanza, risulta quasi sempre determinante. All’interno di un universo che ha come suo epicentro l’Occidente.
Questi i protagonisti che, dopo la caduta del muro, credono di essere arrivati al traguardo. Con metodi diversi. Ma con un orizzonte comune davanti a loro.
Trent’anni dopo i due fratelli/coltelli sono totalmente scomparsi dallo schermo. Gli interventisti democratici perché rei confessi di “pubblicità ingannevole” di progetti che con la democrazia e i diritti umani non avevano proprio nulla a che fare. I pacifisti perché incapaci non dico di intervenire ma di fare sentire la propria voce in un mondo percorso da guerre di ogni tipo e svolte con qualsiasi mezzo, nei confronti di tutti e in ogni angolo del globo; molte delle quali sull’orlo di degenerare e in modo catastrofico. Senza che nessuna, dico nessuna di questi sembri avviata a qualche tipo di componimento.
Mai come ora ci sarebbe bisogno di pacifismo e di pacifisti; ma mai come ora la loro assenza è stata così totale.
Perché? Il problema è cruciale; ma non è facile da risolvere. Né possiamo ricorrere a schemi ideologici nell’affrontarlo. Anche perché, in uno schema ideologico, ci si schiera con i buoni contro i cattivi; mentre, qui e oggi, latitano i primi mentre proliferano i secondi.
Inutile poi, per non dire fastidiosa, la solita lagna sulla “sinistra che non c’è più”. E ve lo dice uno che, su questo tema, ci sta inzuppando il pane; e da mesi. Basti dire, da ora in poi, che la sinistra sta ancora nel paese dei balocchi in cui è approdata decenni fa. Possibile, e magari anche probabile che il crescere dei pianti e delle urla la risveglino dal suo sonno beota. Ma ciò avverrà gradualmente; e non riesco francamente a vedere i suoi pallidi esponenti alla testa di un qualsiasi corteo.
Per l’intanto la protesta non ha bisogno di nessun imprimatur. Perché c’è e cresce in tutto il mondo. Ma, per diventare politicamente rilevante nella lotta contro le guerre, ha bisogno di due cose: istituzioni e/o centri decisionali cui fare riferimento; e soprattutto una sufficiente attenzione da parte della pubblica opinione. Mentre, qui e ora, non ha a propria disposizione né l’una né l’altra.
Qualche breve considerazione sul primo punto. Per sottolineare il fatto che nessuna, dico nessuna, delle grandi organizzazioni internazionale abbia espresso una sola opinione, o formulato una qualsiasi proposta, su una qualsiasi delle grandi crisi in atto. Mentre la principale di queste, l’Onu e il suo consiglio di sicurezza, ha addirittura rinunciato a riunirsi; se non altro per fare proprio l’innocuo appello di Guterres alla tregua dei combattimenti durante la pandemia.
Un fatto gravissimo, questo. E ancor più grave l’indifferenza totale che lo circonda. Due elementi che privano la protesta di una cassa di risonanza essenziale per la sua stessa esistenza in vita.
A limitare drasticamente la nostra capacità di ascolto concorrono invece una serie di fattori: alcuni ereditati dal passato; altri frutto dell’evoluzione in atto lungo questi anni; altri ancora, forse i più significativi, relativi alla radicale mutamento della natura e della portata della guerra nel momento presente.
Difficile così, in primo luogo, scendere in strada contro un pericolo di conflitto generale e devastante che abbiamo cancellato e per sempre dalle nostre menti dopo il 1989 e fino al punto di rifiutarsi di vedere i suoi molteplici segnali premonitori. E ancora, accettare il fatto, pur oggettivamente evidente, che l’America di Trump sia diventata il principale pericolo per l’ordine e per la pace mondiale, dopo essere giunti, tutti, a considerarla come il suo principale pilastro.
E, ancora, difficile guardare al mondo esterno come variabile indipendente del nostro destino dopo essersi rancorosamente ripiegati, tutti, all’interno dei nostri confini (con un provincialismo che nel nostro paese è giunto a livelli difficilmente superabili.
E, infine, e soprattutto, difficile capire che le strategie internazionali di oggi, in un mondo senza né ordine né regole, sono diventate “guerre condotte con altri mezzi”.
Non mancano certo, in questo sistema, i conflitti armati aperti. Ma si svolgono nelle periferie e per interposta persona. Mentre, ad occupare la scena sono le sanzioni, le guerre economiche, le interferenze reciproche talora eversive, i soprusi dei governanti nei confronti dei governati; le massime sofferenze per i popoli, il minimo rischio per chi le arreca. Il tutto in un contesto in cui non si danno soluzioni ai conflitti in corso ma, nel contempo, in cui i contendenti non vanno oltre certi limiti; perché superarli li sottoporrebbe a rischi inaccettabili.
Manca, dunque, in tutti questi drammi, l’incubo della “guerra che torna”; l’unico in grado di scuotere i cuori e le menti. Il che ci lascia liberi di condurre le guerre che ci coinvolgono direttamente, quelle contro il coronavirus e le sue possibili conseguenze.
Si aggiunga, a completare il quadro che le guerre, quelle in cui la gente muore non di stenti o di malattie ma perché colpita da un qualche ordigno, sono lontane da noi. E che a morire sono gli altri senza il minimo rischio personale o ricaduta psicologica per l’uccisore: perché a determinare l’esito fatale saranno bombe intelligenti o asettici droni.
Nulla, in tutto questo, suscettibile di muovere pulsioni pacifiste.
Pure la causa del pacifismo non finirà nella pattumiera della storia. Perché diventerà un elemento di una causa e di uno schieramento assai più ampi: quelli che separano i difensori di un ordine mondiale basata sulla solidarietà e quello che lo concepiscono come sbocco di una lotta di tutti contro tutti. Una partita, questa, appena cominciata; e tutta aperta.
Alberto Benzoni
L’articolo è tratto dal sito alganews.it al link: https://www.alganews.it/2020/05/03/il-pacifismo-e-le-guerre/?fbclid=IwAR2LC3yqtVwijbKfvfkKbF2rFN6kPHIR9VkntrrrLTew3xfkAV_2lYRjYXA
Le premesse delle sardine. di P. P. Caserta
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In assenza di una forte attenzione ai temi del conflitto, del Lavoro, della questione sociale, il semplice anti-populismo qualifica una (pseudo)sinistra elitista, non una sinistra popolare.
Quando si parla di movimenti e del loro retroterra ideologico-culturale, tendo a dare molta importanza alle logiche iniziali. Questo vale in modo particolare per i movimenti post-ideologici. Metterne in parentesi l’analisi perché si suppone che sia “troppo presto per esprimere un giudizio” frena e ritarda la comprensione, prolungando illusioni e rivelando la vera, sebbene spesso involontaria, funzione di questa cautela, quella di predisporre un efficace dispositivo a protezione della conservazione. Nel caso delle sardine, la conservazione assume la forma della piena organicità alla polarizzazione populista-elitista del dibattito politico, usando l’antisalvinismo come elemento di giustificazione.
Da quando il movimento delle sardine è apparso sulla scena, alcuni, tra quanti lo hanno incoraggiato o difeso, hanno fatto passare che criticarlo significasse automaticamente fare dietrologia. È un’associazione di idee ruvida e dualistica e forse oggi lo si può capire meglio. Un conto è mettere in guardia dal complottismo (in questo caso: dietro alla sardine c’è / ci sono / sono manovrate da…), sempre perniciosissimo, altro è la clamorosa ingenuità della lettura dei movimenti “spontanei”. Qui ci vuole una misura tra dietrologia e totale ingenuità! Certo, esiste un livello spontaneo dei movimenti, ma c’è anche il livello della leadership che incanala un movimento fatto, in parte e specialmente all’origine, di pulsioni e di istanze spontanee o largamente condivise. E può, in questo senso, plasmarlo, proprio nel momento iniziale in cui un movimento è duttile e assomma al suo interno potenzialità molteplici. Inoltre, le dinamiche tra la leadership e la base o la piazza, i meccanismi di partecipazione e di decisione, le eventuali cinghie intermedie di trasmissione, vanno analizzati. È un lavoro che va fatto seriamente, come sempre a debita distanza sia dalla demonizzazione che dall’esaltazione acritica. Cosi, non ho mai inteso parlare di quello che c’e “dietro” alle sardine e nemmeno di cosa abbiano davanti; bensì, tanto per cominciare, dei sei punti del “programma”, che equivalevano più o meno a dire: “Signori, quando fate macelleria sociale, non mettetevi le dita nel naso!” Inoltre, al di là del merito delle questioni, quella piattaforma programmatica fu decisa da chi? Da quanti? Secondo quale metodo? La “piazza”, la base, è stata coinvolta? Sono stati posti in essere meccanismi decisionali in qualche modo larghi, partecipativi, inclusivi? A me non pare.
Non c’è dubbio che i movimenti abbiano bisogno di tempo per essere giudicati, devono decantare. E non è mai saggio disprezzare una mobilitazione estesa. Dialogare, piuttosto, almeno fintanto che appare possibile e utile. È lecito, però, esprimersi sulle premesse e io penso che già molte riserve fossero fondate. Santori aveva precisato subito che non ha (lui? il movimento?) “posizioni politiche” perché “svolge il ruolo di anticorpi”. Un movimento che si pensa “non politico”, di che tipo di anticorpi può essere portatore? Si recepisce pienamente il terreno della spoliticizzazione, che è la vera malattia, più del “sovranismo” di destra, perché questo può essere spiegato come uno degli effetti di quella, non il contrario. Santori proseguiva: “c’è un progetto di centro-sinistra molto ampio” e ancora “c’è il PD”, per essere chiari su un esito a quel punto quanto mai ovvio. Si poteva già dire, allora: non ci siamo.
Ad essere fallimentare è, a mio avviso, la piattaforma dell’anti-salvinismo e del contrasto al populismo. Per mesi abbiamo assistito a questo, il nuovo governo è nato bagnato da questa benedizione: essere contro Salvini è diventato elemento sufficiente di nobilitazione politica, anche per personaggi più che discutibili e non esclusi quanti lo avevano vergognosamente sostenuto fino al giorno prima. Si sono dispensate patenti di legittimazione democratica a buon mercato. Nella costruzione di una alternativa politica seria, e sempre con l’obiettivo di una sinistra autonoma e terza, che è il mio orizzonte di riferimento, il problema che avverto come il maggiore al momento è questo: l’anti-salvinismo non basta e non può bastare, non dovrebbe nemmeno essere, propriamente, il fulcro di un progetto che, in tal caso, dimostra immediatamente di non avere alcuna proiezione. Anche perché, se si accettasse questa piattaforma riduttiva (contro il populismo, contro il “sovranismo” ecc.) si amputerebbe il problema della sua complessità. La destra ultra-nazionalista (preferisco evitare il termine “sovranismo” perché ambiguo, ma ora su questo non mi addentro) è, per conto mio, soltanto la metà del problema. L’altra metà è il contrasto all’egemonia neo /ordo-liberista, rispetto alla quale la destra ultra-nazionalista è in una posizione falsamente antagonista.
Sappiamo che il terreno di possibilità sul quale la destra ultra-nazionalista prospera è rappresentato dalle politiche anti-sociali del neoliberismo globalista e mercatista. Separare queste due metà del problema non mi trova d’accordo e penso di sapere anche a cosa porti: ancora una volta alla difesa del sistema, alla conservazione mal travestita da rivoluzione. Illudendosi che il problema sia soltanto la destra ultra-nazionalista (quello che molti chiamano, secondo me impropriamente, sovranismo) si taglia a metà il quadro e si finisce, inevitabilmente, per trovarsi imbarcati insieme a quelli che sono, per noi, non di meno avversari, cioè quelli che hanno applicato tutte le deleterie ricette del neoliberismo e dell’austerity: appunto il PD, il “centrosinistra ampio”. Alle sardine bisogna allora chiedere se “oltre l’anti-salvinismo c’è di più”, ma io credo che già non partivamo affatto bene. Se, poi, i leader delle sardine corrono all’abbraccio con i Benetton, bisogna sorprendersi? Se vanno ad aprire Amici di Maria De Filippi, bisogna sorprendersi? Forse ci sarebbe stato da sorprendersi del contrario. Ebbene sì, noi ve lo avevamo detto. Perché le sardine, se guardiamo alle premesse e ai leader, sono proprio Benetton+Amici. È una sintesi che non manca di nulla: politica elitista per le masse. Ovviamente il problema di fondo non sono le sardine ma la mancanza dell’alternativa. Ma anche le speranze mal riposte non aiutano.
Pier Paolo Caserta