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La Capitol Hill di Brasilia ed i pesci di destra che nuotano nel mare devastato. di R. Achilli

Il tentativo di insurrezione in Brasile, evidentemente orchestrato da Bolsonaro nel suo buen retiro in Florida, andrà seguito nei prossimi mesi, perché è ovviamente solo un episodio di una guerra civile strisciante che probabilmente renderà impossibile per Lula governare il Paese in direzione degli obiettivi che si propone. Lo stesso Bolsonaro, probabilmente, si aspettava un fallimento ma, come nel caso dell’assalto a Capitol Hill dei trumpiani (due episodi molto simili anche sul versante sociale, come vedremo) ritiene che questo clima da guerra civile vada alimentato perché, nel medio periodo, potrà favorirlo nella lunga marcia verso la riconquista del potere.
Alcune cose sono chiare sin da adesso. Sul piano internazionale, è difficile non scorgere l’ambiguita’ dell’Amministrazione statunitense, da un lato immediatamente critica nei confronti degli insorti (e ciò ha contribuito non poco al fallimento del golpe) e che dall’altro ospita sul suo territorio lo stesso Bolsonaro, nonché i suoi uomini, che hanno organizzato l’insurrezione per poi scappare dal loro capo, come il ministro della sicurezza di Brasilia. In queste ore Biden non si sta rivelando coerente con le sue dichiarazioni di condanna del tentato golpe, che dovrebbero essere seguite da una espulsione di Bolsonaro e della sua corte, un provvedimento che non si vede. Probabilmente agli Stati Uniti va benissimo che la sinistra brasiliana non abbia la forza di governare e si logori in un conflitto sociale interno. D’altra parte hanno già decapitato il governo di sinistra peruviano e hanno provato a farlo anche in Bolivia (senza contare la lunghissima guerra – commerciale e non – contro il governo venezuelano, avviata dal democratico Obama e interrotta da Biden solo per la necessità di garantirsi il greggio di Caracas a fronte del conflitto in Ucraina).
Sul piano interno, è solare come il tentativo di sovvertire l’ordine democratico brasiliano sia portato avanti da segmenti delle forze di sicurezza e dell’esercito, timidi nel difendere i palazzi delle istituzioni e restii a condurre la repressione. Dietro i vertici militari, ovviamente, agiscono i soliti: le élite imprenditoriali, i fazenderos attratti dalle opportunità di business date dalla selvaggia deforestazione amazzonica promossa da Bolsonaro.
Ma vi è molto di più. La questione del blocco sociale a sostegno di Bolsonaro è molto più complessa, ed ha a che vedere con il successo delle destre populiste, razziste e sovraniste in società post ideologiche, dominate dalla comunicazione. Ci sono ovviamente specificità brasiliane, in particolare la forza delle comunità evangeliche e metodiste, impregnate di individualismo meritocratico, nonché l’emergere dalla miseria di un ceto medio, tramite le politiche sociali dei governi del Pt di Lula e della Rousseff e che adesso, uscito dalla miseria, sogna di aver mano libera dallo Stato per poter cavalcare le (immaginarie) praterie del benessere liberista.
Ma ci sono fattori che non sono specifici al Brasile, che, sotto il profilo dei blocchi sociali di riferimento e della strategia politica e comunicativa, accomunano Bolsonaro a Trump ed alle destre europee (la Meloni è stata costretta a fare un tardivo, ipocrita e sbrigativo comunicato di condanna dei fatti di Brasilia solo dopo che lo stesso Bolsonaro, preso atto del fallimento, aveva preso le distanze).
In particolare, Bolsonaro ha le sue roccaforti elettorali fra i giovani, e non soltanto quelli di famiglie benestanti e bianche, giovani bolsonaristi residenti nei grandi centri urbani del sud (Rio e San Paolo) dove la diffusione di Internet e dei social è più densa. L’elettorato giovanile viene captato attraverso i social, con un processo di costruzione mediatica dell’immagine politica di Bolsonaro come leader non facente parte del sistema, come uomo anticasta che combatte la corruzione dei vecchi partiti e delle élite politiche mature. Niente può essere più falso di questa immagine, ma nella società della comunicazione conta l’abito, non il monaco che lo indossa.
E poi c’è un rilevante consenso di segmenti sociali che potremmo definire come inclusi in un intervallo che sta fra il sottoproletariato classico, le elite operaie un tempo dominate dalla sinistra e spezzoni di piccola borghesia in difficoltà economica e di posizionamento socio-professionale. Tale segmento sociale e’ attratto da una offerta politica e comunicativa basata sui temi della sicurezza, che ovviamente in Brasile è una questione fra le più gravi, ma lo è anche nelle nostre società caratterizzate da diseguaglianze crescenti e immigrazione non integrata, e “razzismo difensivo”, ovvero ostilita’ verso i gruppi etnici percepiti, da parte dello strato più vulnerabile economicamente del gruppo socio-etnico dominante, come concorrenti nell’accesso al lavoro o al welfare e come pericolo per la propria traballante identità culturale (in Brasile parliamo dei neri temuti dai bianchi poveri ma anche dai neri che sono entrati nel ceto medio ed hanno paura di tornare nella miseria, da noi parliamo della irrazionale paura dei migranti nelle periferie degradate dei nostri ceti medi in impoverimento. La dinamica è la stessa, ed è identica, a prescindere dalla retorica, a quella dei suprematismi statunitensi alleati di Trump).
Di fronte ai temi della sicurezza e del razzismo difensivo, l’elemento emotivo è così forte da accettare persino una riduzione dei diritti civili e democratici, persino una dittatura, nell’illusione che la legge e l’ordine possano tranquillizzare società spaventate e deprivate di riferimenti valoriali dal declino delle ideologie e della politica.
In questo mare di devastazione etica, culturale, valoriale, ovviamente, i pesci che nuotano meglio vengono da destra.
Riccardo Achilli
Perché in Italia il movimento pacifista è così debole? di A. Benzoni

Sto parlando dell’Italia. Perchè non so quale sia la situazione in altri paesi europei.
E questo è già un primo segnale della nostra debolezza. I guerra fondai, leggi quelli che vogliono la prosecuzione del conflitto sino alla vittoria, hanno una potenza di fuoco internazionale. Noi non riusciamo ad uscire dai nostri confini.
Ma siamo deboli anche per altre ragioni. Per ragioni esterne. Ma anche per responsabilità nostre.
Siamo deboli , in primo luogo, perchè la nostra tradizionale area di riferimento, la sinistra laica e cattolica o è diventata francamente ostile o si muove con cautela e “sotto traccia”. Abbiamo un Pd primo tra tutti nell’ardore bellicista avendo assorbito, fino a farne una seconda natura, l’atlantismo senza se e senza ma e la cultura esiziale dell’interventismo democratico. Mentre gli appelli del papa perdono la loro forza scendendo verso terra in un mondo cattolico politicamente allo sbando. O comunque lontano dal mondo della politica.
Siamo deboli perchè, almeno qui da noi, si è affermata una cultura della guerra ( magari per bieche ragioni strumentali) che bolla come putiniano o, peggio ancora, nemico interno, chiunque si azzardi a contestare l’opinione ufficiale. E in cui si si cambiano continuamente le carte in tavola, soffermandosi su “chi è l’aggressore e chi è l’aggredito”, materia su cui l’accordo è pressochè generale ; mentre oggi la materia del contendere, divide chi vuol porre termine alla guerra e chi, invece, vuole proseguirla fino alla vittoria.
Ma siamo deboli anche per deficienze nostre. Una, tutto sommato, veniale. L’altra, invece, rovinosa.
Peccato veniale, affidarci alle manifestazioni; precedute, peraltro da fastidiose e inutili discussioni sul contenuto dell’appello. Ai nostri ( più o meno lontani) tempi le manifestazioni e gli appelli funzionavano eccome; ma perchè c’era la predisposizioni a vederli e ad ascoltarli. Oggi, non più; fino a ignorare il fatto che, nello scorso novembre a Roma c’erano diecine di migliaia di persone e, nella contromanifestazione di Milano, qualche centinaia.
Errore, invece, gravissimo, continuare a insistere sulla parola “pace”. Perchè è una parola che, in sè e per sè, non ci distingue dai nostri avversari ( “siamo tutti per la pace”) Perchè la pace coinciderebbe con il riconoscimento dell’attuale stato di fatto e non va bene. E, infine, perchè la pace si dovrà e si potràcominciare a costruire ma solo nel corso del tempo; una volta, consolidata la fine delle ostilità.
E allora il nostro obbiettivo, la nostra parola d’ordine dovrebbe essere non la pace ma la tregua, oggi provvisoria ma, nell’immediato futuro a tempo indeterminato. Quella che vogliono i popoli del mondo. Quella che porrebbe fine alla deriva che ogni segna l’Europa. E alla corsa folle al riarmo. E al lento logoramento della democrazia un pò dappertutto nel mondo. E, possiamo dirlo tranquillamente, alle sofferenze presenti e future del popolo ucraino.
Alberto Benzoni
Migranti, sonoro schiaffo da Germania e Ue, di G. Barbera.

Non inizia bene l’esordio in Europa del governo Meloni, visto il sonoro schiaffo assestato da Germania e Ue sulla questione migranti. D’altronde difficile dar loro torto, in quanto é inaccettabile, sotto tutti punti di vista, da quello legale a quello etico, che il governo italiano subordini l’incolumità e la sicurezza dei naufraghi, bloccati sulle imbarcazioni di alcune Ong, alla pretesa di una ricollocazione preventiva in altri paesi europei.
Ricollocazione, peraltro, mai negata, visto che la stessa Commissione europea, per bocca di uno dei suoi portavoce, fa sapere dell’esistenza di offerte di ricollocazione in altri paesi per 8 mila migranti, di cui potrebbero usufruire anche le persone, tra cui molti minori, che risultano attualmente bloccate sulle imbarcazioni delle Ong, al largo delle nostre coste, a causa del diniego espresso dal nostro governo.
Basta giocare con la vita delle persone che hanno bisogno di cure mediche e che hanno già subito gravi violenze e abusi nei famigerati lager libici, di cui anche il nostro Paese porta la responsabilità.
Il governo italiano garantisca l’applicazione delle normative internazionali, evitando altre pessime figure in campo internazionale.
La politica dei porti chiusi rappresenta un’aberrazione etica che getta pesante discredito sul nostro Paese.
Giovanni Barbera
La grave ingiustizia della Flat-Tax. di G. Giudice

La Flat-Tax (tassa piatta , con aliquota unica per tutti i redditi) è la proposta centrale della destra. Anche se poi i vari partiti danno cifre diverse, danno un pò i numeri, diciamo. La Flat-Tax è un progetto politico definito, che mira a mantenere alte ed accrescere le disuguaglianze e le ingiustizie fra le cassi sociali, a chiaro vantaggio dei più ricchi. Ma è bene che si sappia, non è solo la destra (la cui proposta è anticostituzionale) ma Calenda, Renzi, la Bonino e settori del PD , se pur rifiutarono la Flat-Tax propongono una forte riduzione del prelievo fiscale. Si muovono , nella sostanza, nella stessa logica. Certamente il nostro sistema fiscale è farraginoso e complicato, Ed una profonda riforma del fisco va implementata. Ma certo in una direzione opposta a quello che propone la destra, Calenda, Bonino. Renzi.
Da un punto di vista di sinistra e socialista il sistema fiscale è uno strumento privilegiato di redistribuzione della ricchezza e del potere a favore dei ceti medio-bassi. Tanto più che le disuguaglianze sociali, sia in Italia , che in altri paesi, hanno da tempo superato una soglia critica. Basta vedere i rapporti Oxfam. E ben prima della pandemia che le ha ulteriormente aggravate. In Italia (secondo Oxfam) il 20% più ricco della popolazione italiana possiede il 60% della ricchezza , nentre il 60% più povero solo 14%. In Inghilterra è ancora peggio, per non parlare degli USA. Una riforma di sinistra del sistema fiscale deve basarsi su una fiscalità fortemente progressiva, che punti a quella redistribuzione del reddito, di cui parlavo. Colpisca le grandi concentrazioni di ricchezza, con una patrimoniale ed una e vera propria tassa sulla ricchezza (finanziaria e non ) , riduca sensibilmente il prelievo sulla classe lavoratrice e tutti i ceti medio-bassi. E la riduca anche sulle piccole imprese artigiane, che, soprattutto nel Sud sono una risorsa importante. A partire , già dalla metà degli anni 80, l’egemonia liberista ha teso principalmente a ridurre le tasse, per colpire il welfare pubblico, a favore della privatizzazione dei beni sociali (Sanità e Scuola). La situazione si è ulteriormente aggravata con la nascita del “finanzcapitalismo ” ed il modello di globalizzazione da esso imposto. E che, in Europa, ha imposto politiche di austerità, tramite la rimercificazione del lavoro. Concludo citando Corbyn:”Abbiamo bisogno di una tassa immediata sul patrimonio, con energia, acqua, ferrovie e posta in mano pubblica per abbassare le bollette e aiutarci a costruire una società più giusta di pace, giustizia e ricchezza condivisa.
Giuseppe Giudice
Conte il nuovo “faro” della sinistra italiana? di D. Lamacchia

Si può imparare dalla storia? Non solo, si deve! Non solo i soggetti individuali, le singole persone, gli intellettuali (ci sono ancora gli intellettuali?), dalla storia devono imparare i soggetti collettivi, cioè coloro che la storia la fanno. Perché questo accenno alla storia? Perché viviamo tempi in cui sembra che dalla storia non si è imparato un gran che. Nei tempi dell’illusione facile generata dalla comunicazione facile si è persa la capacità di riflettere e approfondire e si è persa la capacità di pensare il futuro partendo dal passato. Non si sa più cos’è la “memoria storica”.
Prendiamo il caso della sinistra in Italia ed in Europa. Perché questa perdita di “egemonia culturale” così marcata? Venendo meno l’ideologia “operaista” a causa dei noti sconvolgimenti nei rapporti di produzione determinati dall’”era digitale” la risposta è stata la virata liberista che ha fatto perdere il legame con il proprio soggetto sociale di riferimento, il mondo del lavoro e del disagio sociale. Ha dominato l’illusione che la flessibilità nelle relazioni economico sociale avrebbe apportato e distribuito ricchezza, benessere. Così non è stato ed è sotto gli occhi di tutti. Ad un “pensiero politico forte” si è sostituito un “pensiero politico debole” creatore dell’illusione e, come direbbe il vecchio Marx, di “falsa coscienza” diffusi, in una parola, di populismo, che avrebbe spazzato via il sistema della corruzione e dell’ingiustizia. Non è stato così come è sotto gli occhi di tutti. La domanda “pesante” è, è ancora possibile dare una prospettiva al socialismo? Sebbene liberato dai dogmi operaisti io credo di sì perché le ingiustizie non sono certo finite! Le contraddizioni nel tessuto socio-economico sono ancora tutte al loro posto, da essere usate al fine di cambiamenti profondi in senso egualitario. Esiste il soggetto politico che si può fare carico del compito? Non c’è purtroppo o non ancora. Non può essere l’attuale PD per il groviglio di vecchio “atlantismo” e liberismo che hanno caratterizzato le sue politiche, specie con l’arrivo di Enrico Letta alla segreteria, né sono credibili i vari agglomerati minoritari alla sua sinistra. L’unico a mostrare più saggezza e credibilità è Bersani che però tentenna nella sua capacità di azione, colpa anche dell’improvviso calare come mannaia dell’evento elettorale. Insomma ciò di cui si avverte necessità è la formazione di un soggetto politico forte che raccolga la sfida di rilanciare la prospettiva del socialismo nel nostro paese e nel mondo e di creare una cultura politica di sinistra democratica e libertaria diffusa, capace di fronteggiare l’onda conservatrice.
Come si può constatare è ancora presente una frazione di quel movimento che incarnò in modo maggiore la spinta populista. Mi riferisco al M5S e a Giuseppe Conte che ne è l’attuale reggente. Sono note le vicende governative di cui sono stati protagonisti fino alla caduta di Draghi e all’attuale situazione elettorale. Come si colloca il M5S nel quadro delineato di una prospettiva socialista e di sinistra? A questa domanda Conte ha risposto con un ritornello noto, frutto di “pensiero debole” secondo cui le categorie destra/sinistra appartengono al bagaglio del novecento e che ora si deve far riferimento ai programmi e ai problemi (sic). Addio memoria storica! Non si comprende quindi come sia possibile che vengano da esponenti del vecchio PCI inviti a votare M5S e a considerare Conte come capace di incarnare istanze sociali e prospettive che sono proprie della sinistra. Vero è che le proposte e i programmi non mancano di attenzione al sociale. L’autonomia dimostrata sul piano delle scelte internazionali è apprezzabile ma non mancano di ambiguità. Vedi l’orientamento troppo “filo cinese” e lo scetticismo europeista mostrato spesso in Parlamento europeo e dal loro garante Peppe Grillo.
Conte ispira onestà. Senza dubbio, ma non è l’unico! Una “buona politica” non è solo una faccia pulita.
Una buona politica non è fatta solo di categorie della morale e del sentimento è fatta da programmi giusti e organizzazione, attenzione agli interessi in gioco, agli obiettivi, alle alleanze, alle opportunità contingenti e alle strategie. Insomma va bene come alleato, “compagno di strada” non come “nuovo faro della sinistra”. No, Conte e il M5S non sono di sinistra! Malissimo comunque ha fatto il PD a rifiutare un’alleanza con loro (ipotesi Bersani), alleanza che ha dimostrato alle elezioni “locali” di essere vincente.
Dopo le elezioni questo avrà un peso nella discussione sul futuro della sinistra in Italia. Ecco un tema centrale, cosa accadrà dopo il voto? Sarà possibile avviare un progetto per un nuovo soggetto unitario che dia futuro alla sinistra tutta? Chi ne può essere protagonista? Si guardi al dopo voto quindi e si pensi a dare voce forte a chi potrà essere protagonista di questo obiettivo. Il compito inizia ora, prima del voto. Se dal voto le forze vocate a questa idea venissero mortificate il progetto non avrebbe futuro facile. Dal voto devono uscire forti le forze che vogliono una prospettiva chiaramente di sinistra perché si possano concretamente spostare gli orientamenti anche nei partiti attuali. In primo luogo il PD. Se svolgi una critica di sinistra e a sinistra che devi votare! L’alternativa al “male minore” non può essere il “tanto peggio, tanto meglio”. Conte non è il Melenchon italiano.
Donato Lamacchia
La questione sociale nell’età della Tecnica, di P.P. Caserta

Il conflitto tra capitale è lavoro si è spostato. Di sicuro, nel pieno della Quarta rivoluzione industriale, non è più possibile identificare il proletariato o i Lavoratori con la sola classe operaia. Andrà riconosciuto, piuttosto, che le nuove forme di sfruttamento non si sostituiscono alle vecchie, bensì si aggiungono ad esse. Siamo tornati ai tempi del vapore e la Quarta rivoluzione industriale ha i suoi sfruttati come li hanno avuti la prima e le seconda: rider, precari del mondo della cultura e dell’informazione, operatori di call center, raccoglitori stagionali…, per limitarsi soltanto alla prima linea degli sfruttati, ma precarizzazione e nuove povertà si sono allargate fino a definire una sorta di Terzo stato globalizzato, che spazia di fatto dagli immigrati al ceto medio impoverito, ma lontanissimo dall’aver acquisito una coscienza di classe, e di fronte al quale si erge la neo-aristocrazia tecno-finanziaria egemone.
Di Vittorio disse, nel suo primo discorso in Parlamento, che lo aveva guidato il sogno di unificare le lotte degli operai del Nord e quelle dei contadini del Sud, “perché il padrone è lo stesso dappertutto”. Noi dovremmo in fondo ambire oggi a fare lo stesso, le difficoltà sono molte e non dipendono soltanto dagli errori commessi, come spesso ci diciamo, ma anche dal quadro oggettivo, e in primo luogo dalle inedite possibilità di seduzione e di distrazione rese oggi disponibili al punto di incontro tra il Mercato e la Tecnica nella civiltà dell’intrattenimento… per cui di fatto molti tra gli sconfitti della globalizzazione continuano tuttavia a sognare il loro riscatto attraverso gli stessi strumenti ai quali sono aggiogati. Per questo ritengo che siano oggi strettamente connessi la questione sociale, l’effettiva capacità di rappresentare <tutti> i Lavoratori e l’emancipazione dal pensiero tecnomorfo.
Pier Paolo Caserta
Basta con la favoletta che sia colpa del Reddito di Cittadinanza se non si trovano lavoratori. di R. Papa

Se un peccato originale ha il Reddito di Cittadinanza è quello di aver voluto perseguire da un lato la politica di contrasto alla povertà e dall’altro quello di una politica del lavoro con lo scopo di reinserire quanti fossero usciti dal mercato del lavoro.
Mentre da un lato crescono i disoccupati o gli inattivi dall’altro c’è una forte denuncia di mancanza di lavoratori…per “alcuni” datori di lavoro la colpa è ovviamente il RdC!
Ora delegittimare questa misura ha un riflesso negativo sui poveri “quelli veri” che come ci dicono le ultime rilevazioni sono in aumento. Certo è che il RdC ha fallito sul versante della politica del lavoro.
Forse prima di sparare a zero su una misura certo parziale e sicuramente assistenzialistica si dovrebbe ragionare di più sul mercato del lavoro, sulla qualità della domanda e offerta di lavoro, sulla corretta applicazione dei contratti di lavoro, sui livelli minimi salariali…non si può tollerare che si accettino lavori a 2 euro all’ora, ma soprattutto che si avviino politiche del lavoro che tendano al superamento della precarietà che in questi ultimi mesi è l’unico dato in crescita. Si deve anche riflettere su un diverso rapporto dei giovani con il lavoro, l’atteggiamento verso il lavoro, rispetto a quello che potevano avere quelli della mia generazione, è notevolmente cambiato.
Dal 2009 al 2019 sono circa 250.000 i giovani tra i 15 e 34 anni che sono andati all’estero, e di certo non tutti sono laureati, i cosiddetti “cervelli” come se gli altri non avessero il cervello, ma solo bruta forza lavoro.
Così come sono centinaia di migliaia quelli che lasciano il lavoro, un fenomeno legato alla salute psicologica dei lavoratori e delle lavoratrici in rapporto proprio al lavoro.
E poi se anche fosse che come in tutte le situazioni ci sono dei furbetti (perché gli evasori fiscali con i loro 110 miliardi di euro non lo sono?) questi vanno perseguiti, ma occorre vederne i benefici verso chi è veramente in difficoltà
A marzo i dati INPS ci dicono che Reddito e Pensione di Cittadinanza hanno coinvolti 1.050 mila nuclei famigliari, per 2.249 mila, per un importo medio mensile di 541 euro.
E allora smettiamola con questa favola che i giovani non vogliono lavorare, certo ce ne saranno pure, ma la maggioranza sicuramente sicuramente si trova in forte situazione di disagio, a cui la politica deve dare una risposta e non perdersi dietro le chiacchiere da bar di chi sia la colpa se un giovane rifiuta un lavoro.
Verso la fine degli anni sessanta uno slogan “Studenti e operai uniti nella lotta” portò alla promulgazione dello Statuto dei lavoratori. Oggi dobbiamo riprendere quello slogan perché la battaglia per il lavoro e per la dignità del lavoro è un tema che come allora riguarda “studenti e lavoratori”.
Roberto Papa
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