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“Ha da passa’ ‘a nuttata”. di R. Papa

Chiedere a Meloni di essere antifascista un giorno e poi dimenticarsene negli altri 364.
E’ facile nel giorno delle Fosse Ardeatine rimproverare a Meloni di aver usato “italiani”, che tali erano
ma non tutti e poi mai dimenticarlo, erano italiani anche i fascisti che aiutarono i nazisti ad uccidere, e a non aver detto “antifascisti” che tali non erano tutti, perché in mezzo ai 335 ci finirono pure dei disgraziati che in carcere ci stavano per altri motivi.
E che forse morire per un ideale, per quanto giusto, non ne avevano proprio voglia.
Ma il problema per me non è questo.
Per me il problema di fondo è che la destra fascista o meno ha vinto le elezioni e che Meloni sta portando questo paese nel consesso di paesi conservatori e reazionari, sta mettendo in atto politiche antiumane dai migranti a Cospito, e ora togliere il reato di tortura , ci sta allontanando dai paesi europei per consegnarci al potere Nato e quindi americano, ma nello stesso tempo strizzare l’occhio alla Russia…non si sa mai!
Quelli erano tempi in cui una guerra civile spezzo’ l’Italia in due, ma anche un paese dove milioni di italiani cercavano solo di portare a casa la pagnotta. Non tutti furono eroi! Ci furono anche quelli che si misero alla finestra e per parafrase Eduardo:
“Come ci risaneremo? Come potremo ritornare quelli di una volta? Quando?’. Gennaro intuisce e risponde con il suo tono di pronta saggezza: ‘S’ha da aspettà, Ama’. Ha da passà ‘a nuttata’”.
Da allora sono passati settantotto anni e forse sarebbe il caso di consegnare quella storia agli storici e magari su quei libri far studiare i nostri giovani e non solo, che di fascismo e antifascismo o o o niente sanno ma spesso nemmeno vogliono sapere e impegnare le nostre passioni e quelle dei nostri giovani a problemi che riguardano il futuro non certo il passato. Due giorni fa ci eravamo tutti preoccupati della crisi idrica, su cui si combatteranno le prossime guerre…abbiamo una guerra nel giardino di caso e oggi gli americani hanno affermato che ci stiamo avviando verso la “guerra mondiale” e noi impegnano la nostra intelligenza politica su “questioni” di settantotto anni fa che stanno bene, per ricordarcene, nei libri di storia.
E’ proprio vero “ha da passa’ ‘a nuttata”.
Roberto Papa
Il pesce senza testa. di R. Achilli

Questo Paese non è riuscito, pur avendo avuto fasi molto promettenti, a consolidare una classe dirigente degna di questo nome.
Possiamo tirare in ballo fattori strutturali: l’assenza di una borghesia sufficientemente capitalizzata da potersi costituire come gruppo dirigente con afflato nazionale, rimanendo sostanzialmente una appendice semi parassitaria delle relazioni con la politica; il controllo criminale di rilevanti regioni del Sud, che ha finito per estendere i suoi tentacoli fino ai centri del potere politico ed economico, creando una selezione avversa ai vertici decisionali; una connaturata attitudine al clientelismo che fa parte del nostro bagaglio.
Essenzialmente non c’è più nemmeno quel simulacro di classe dirigente che pur nella bistrattata Prima Repubblica si era creata, perché il Paese è allo sfascio culturale e morale. Fedez e la Ferragni sono ormai gli intellettuali collettivi.
Ma anche perché non ce n’è bisogno. Frantz Fanon, quando analizzava i processi di decolonizzazione, puntava il dito sulla misera qualità dei gruppi dirigenti indigeni: essenzialmente valletti di poteri esterni, cooptati per fedeltà al padrone, dotati di una mentalità più commerciale che amministrativa, fondamentalmente dei trafficanti con una sovrastruttura retorica di esaltazione del comando esterno.
L’Italia di oggi è più o meno in questa situazione semi-coloniale. Nella sua scellerata esistenza, una sola cosa Draghi ha detto di condivisibile: un Paese con il 140% di debito pubblico e con una modesta capacità di crescita potenziale non ha nessuna sovranità. Le decisioni sono prese dai creditori o da coloro che temono l’esplosione di una bolla debitoria, che avrebbe ripercussioni globali, stanti le dimensioni assolute del nostro debito.
È chiaro quindi che non c’è classe dirigente perché le decisioni strategiche sono prese altrove. Non nei palazzi romani o nelle ormai fatiscenti palazzine del logoro potere sindacale o associativo. Ai nostri gruppi dirigenti vengono lasciate solo le decisioni di sotto-politica, un po’ come al cane viene lasciato l’osso, mentre il padrone si mangia la ciccia: le cadreghe, la piccola intermediazione localistica, l’affarismo e la corruttela di piccolo cabotaggio.
Nel migliore dei casi il dirittocivilismo innocuo, perché sganciato dai diritti sociali. Così come l’ambientalismo senza lotta di classe è giardinaggio, i diritti delle donne o del mondo Lgbt, senza aggancio dentro un movimento politico più ampio di rivendicazione di un maggior potere dentro i rapporti produttivi, si traducono in un miserrimo riconoscimento formale di diritti che la componente più benestante e che vive in un contesto di relazioni globalizzate ha già, e di cui la donna in povertà, o il gay in miseria, non sanno cosa farsene. È bello, per parafrasare Pino Daniele, “ascire pe le strade e gridare “so’ normale!”, ma se la pancia è vuota è una soddisfazione piuttosto sterile.
E così la classe dirigente viene sostituita da amministratori coloniali che vivono dentro circuiti corruttivi e nepotistici, oppure da squallidi pagliacci che prendono in giro, a turno, l’elettore medio, fintanto che il loro gioco viene scoperto e sono prontamente sostituiti da nuovi underdog più giovani, più trendy, con giacche più colorate, con promesse più abbaglianti.
Non c’è granché da dire, e nemmeno da scandalizzarsi. Questo Paese ha ciò che si è meritato.
Riccardo Achilli
Per un programma del Partito Unitario dei Lavoratori. di D. Lamacchia

No, non esiste un Partito Unitario dei Lavoratori. Non ancora. Spero che al più presto possa avviarsi un processo che porti alla sua formazione o ad una forza simile. Un partito che abbia l’ambizione di unificare tutte le forze intellettuali ed organizzative che fanno riferimento al mondo del lavoro per dargli la prospettiva di una emancipazione, condizione unica per una emancipazione di tutta la società verso un modello di tipo socialista, democratico ed egualitario.
Dopo gli anni dallo scioglimento del PCI e delle vicende che hanno attraversato le realtà seguite a tale evento, PD, RC, SI, LEU, Art. Uno, ecc. e la catastrofe delle ultime elezioni è inevitabile pensare che se si vuole dare concretezza ad una prospettiva di crescita di una forza di sinistra in Italia si debba partire dal riconoscere che le divisioni sono la causa principale della sconfitta elettorale e della perdita di consenso tra i lavoratori e l’elettorato più in generale.
La necessità di un nuovo partito nasce dal riconoscere vero che nessuna delle realtà attualmente esistenti possa unificare tutte le opzioni in campo. Non serve a nulla fare delle sommatorie ma è necessaria una nuova sintesi.
Non credo che un ruolo unificante possa svolgerlo il PD. Non sono chiari in quel partito le caratterizzazioni identitarie. Fatto che ha portato alle diverse scissioni. Il cambio dei vertici a partire dal Segretario non è sufficiente a colmare il vuoto e le contraddizioni della proposta. Troppo sono sedimentate le abitudini, i caratteri, le culture, i contrasti anche personali.
Da dove partire? Innanzitutto da una condivisione della lettura della situazione internazionale. Grazie agli eventi seguiti allo sfaldamento del blocco sovietico e anche allo sviluppo della tecnologia digitale (il villaggio globale) una situazione nuova si è venuta a determinare nell’equilibrio tra le potenze. È saltato l’equilibrio nato a Yalta subito dopo il II conflitto mondiale. Soprattutto vanno evidenziate la crescita di Cina e India e dei paesi che per un periodo furono chiamati “non allineati”, oggi identificati come BRICS. Alcuni parlano dell’avvento del “secolo cinese”. Difatti va riconosciuta una perdita di egemonia dei paesi occidentali e degli USA in particolare. Fatto che induce a riconoscere la necessità di un mondo pluricentrico capace di coscientizzare che le problematiche vissute dal mondo non sono risolvibili con azioni unilaterali. Valgano ad esempio i problemi del cambiamento climatico, della transizione energetica ad esso connessa, dello sforzo necessario per risolvere problemi endemici come la fame e le malattie, specie quelle infettive, le migrazioni causate dagli squilibri. Un nuovo ordine mondiale necessita e non può venire se non attraverso un passo avanti in direzione di un superamento delle diseguaglianze. Un Europa più unita, coesa, autonoma ne è condizione necessaria. L’attuale conflitto Russia-Ucraina può essere letto come una conseguenza dell’avvenuto disequilibrio tra le potenze. Fermo restando la condanna all’invasione dell’Ucraina da parte russa, va ricercata la via per un cessate il fuoco e l’avvio di trattative tese alla pace.
È da considerare inammissibile che forze di sinistra votino in parlamento come le destre sui provvedimenti tesi all’aiuto all’ucraina, innanzitutto per la fornitura di armi.
Una forza di sinistra non può non considerare la NATO come strumento obsoleto ai fini di un equilibrio tra le potenze. Un ruolo di autonomia necessita da parte europea con la strutturazione di un esercito autonomo capace di imporre un suo punto di vista senza accondiscendenze passive agli USA o ad altre potenze.
Per quanto attiene alle politiche sociali una forza di sinistra non può che avere come riferimento le classi lavoratrici, i sui bisogni, rivendicazioni, volontà di riscatto, aspirazioni, speranze. I cambiamenti nella struttura del mondo economico, nei modi di produzione dovuto all’avvento del digitale ha sicuramente chiuso l’epoca dell’“operaismo” ma non quella dei conflitti sociali e del contrasto “capitale-lavoro”. Lo dicono il diffuso precariato anche di fasce sociali un tempo protette, l’alta disoccupazione giovanile, la perdita di potere salariale, la interruzione della mobilità sociale, il contrasto tra periferie e centri urbani, la solitudine degli anziani per citare solo alcuni delle contraddizioni in atto, più in generale l’acuirsi della forbice tra garantiti e non garantiti.
Una forza di sinistra non può che promuovere ogni azione tesa ad un allargamento e diffusione delle garanzie sociali, di maggiore e più diffuso benessere.
Prioritario deve essere considerata la protezione del potere di acquisto salariale. Ciò può avvenire per mezzo di automatismi come lo fu la scala mobile.
La proposta di stabilire un salario minimo per legge deve essere considerato un obbiettivo perseguibile insieme al rafforzamento della contrattazione nazionale.
L’ipotesi di una riduzione dell’orario di lavoro secondo la logica “lavorare meno, lavorare tutti” deve essere un obiettivo strategico prioritario. Così per l’abolizione del Jobs Act e delle forme di precariato.
La lotta alla disoccupazione soprattutto giovanile deve essere perseguita attraverso politiche di investimenti poderosi da parte pubblica in direzione dei settori cardini dell’economia: trasporti, scuola, formazione e ricerca, sanità, infrastrutture, abitazione, ecc.
Ciò può avvenire attraverso un riequilibrio della spesa privilegiando quella “fruttuosa” verso quella “infruttuosa” riducendo sprechi e investimenti in settori come gli armamenti, un maggiore controllo sugli esiti delle cantierizzazioni, unificazione dei centri di spesa.
Cardine di una politica di sinistra è la riforma del fisco, confermando e migliorando l’impianto progressivo, per mezzo di un taglio del cuneo fiscale soprattutto per la parte gravante sui lavoratori.
La crescita delle entrate deve fondarsi sull’aumento della base contributiva generata dagli investimenti e una efficace lotta alla evasione.
Prioritarie devono essere considerate “riforme di struttura” che mirino ad un rafforzamento del dominio pubblico su quello privato, specie nei settori strategici e sensibili: energia, comunicazione, infrastrutture, sanità, formazione e ricerca, trasporti, con la eliminazione del criterio dannoso che scarica le spese sul pubblico e i profitti sul privato. Si vedano a tale proposito la condizione di alcune realtà come l’Alitalia, la sanità in alcune regioni, il settore siderurgico, il settore delle telecomunicazioni, le autostrade.
Il miglioramento della efficienza dei servizi deve essere realizzato per mezzo di tecniche di controllo della qualità che coinvolgono sia gli operatori che l’utenza, non solo la dirigenza, con incentivazioni salariali degli operatori sulla base di criteri di soddisfazione dell’utenza e il raggiungimento di obiettivi definiti di eccellenza.
Sono questi solo alcune delle tematiche da affrontare. Non meno importanti sono i temi delle forme di partecipazione. Quale partito, con quale struttura organizzativa, nazionale e territoriale, come selezionare i gruppi dirigenti per impedire ingressi miranti al carrierismo o alla rappresentanza di interessi lobbistici o di categoria, all’autoreferenzialità?
Buona riflessione!
Donato Lamacchia
A Salvini il premio Attila dei diritti sociali. di M. Pasquini

Ieri la question time del ministro Salvini, alla Camera, ha reso evidente anche ai ciechi quanto il governo stia preparando e attuando una strategia di affossamento del diritto alla casa relegandolo.a single, forze dell’ordine, padri separati.e studenti (ovviamente ricchi e meritevoli).
Mai Salvini, in diretta tv, ha citato gli sfrattati (40.000 sentenze l’anno), mai ha citato le famiglie nelle graduatorie (oltre 600.000) mai ha citato le 889.000 famiglie in povertà assoluta in affitto.
Salvini ieri ha detto che NON intende rifinanziare il fondo contributo.affitto e morosità incolpevole destinando le 350.000 famiglie richiedenti al baratro dello sfratto.
Ha parlato, ieri, il Salvini di un piano casa di legislatura ma che è un imbroglio, non saranno case popolari e di fatto tra le righe si legge che regaleremo immobili ai privati per fare molto housing e poco social. Insomma ieri si è acclarato come il governo non percepisca o non intenda percepire la vera condizione abitativa in Italia.
Ma ieri Salvini ha anche detto che chiama il Parlamento a collaborare ebbene io credo che il Parlamento dovrebbe accettare la sfida avviando una indagine conoscitiva sulla condizione abitativa in italia, per poi con mozioni programnatiche indicare al governo che piano casa serve al Paese.
Che sia il parlamento a dare le indicazioni al governo su come realizzare un vero piano casa basato sul fabbisogno reale in tutte le sue articolazioni e non sul fabbisogno di costruttori e lobby economiche del mattone.
Segnalo come ieri si sia reso evidente l’assordante silenzio di Comuni e Regioni che non si rendono conto come il colpevole abbandono di politiche abitative pubbliche, che ha portato ad avere meno case popolari e oggi il venire meno di contributi affitto li metta nell’occhio del ciclone sociale che sta per abbattersi su di loro.
Infine, davvero, non è il momento delle autosufficienze, dei distinguo.
O siamo in grado di far si che un vasto fronte dai sindacati ai sindacati inquilini, dal terzo settore all’associazionismo cattolico, dalle università agli urbanisti, coglie la gravità della situazione sociale oppure mettiamoci da parte e assistiamo alla tabula rasa che il governo vuole fare dei poveri
Massimo Pasquini
Una lettura della guerra in corso tra Russia e Ucraina. di A. Angeli

l 24 di questo mese sarà trascorso un anno esatto dall’aggressione subita dall’Ucraina da parte della Russia, paese che dispone di una forza militare di grande potenza nucleare. La resistenza opposta dall’Ucraina fino ad oggi è stata resa possibile dalle massicce forniture di armi da parte di molti paesi dell’area occidentale, con maggiore rilevanza delle forze NATO, guidati dall’immenso sforzo finanziario dell’America, con la fornitura di ingenti risorse di armamenti di vario tipo. Un ruolo, quello degli USA, che dovrebbe accrescersi con la fornitura all’Ucraina dei carri armati M1 Abrams. Una mossa che è servita a superare le ( deboli) resistenze di Scholz a dare via libera alla fornitura dei famosi carri Leopard, dotando così l’esercito ucraino di uno strumento di guerra con cui ( forse) poter fronteggiare l’eventuale nuova offensiva dell’esercito Russo, che gli esperti fanno coincidere con la data dell’inizio dell’invasione. Tutto questo però non risponde alla domanda: se l’Ucraina perdesse la guerra quali conseguenze determinerebbe la sconfitta e quale reazione ci sarebbe da aspettarsi da parte dell’occidente?
Chiariamo subito: la Russia ha accredito l’Ucraina e per quanto ne possiamo sapere, l’eventuale ipotetica sconfitta dell’Ucraina non potrebbe essere attribuita ai suoi soldati, che stanno combattendo con sacrificio e decisione e al suo popolo, che si è schierato per la resistenza con grosse privazioni e sofferenze inenarrabili e senza perdersi d’animo. Caso mai possiamo forse trovare una spiegazione nel fatto che questa guerra si è trasformata in una battaglia che ci ricorda quelle condotte durante la prima guerra mondiale, con le classiche trincee scavate con cura, fortini nascosti e fronti relativamente stabili. Se stiamo alla storia, queste tipologie di guerre, appunto come la prima guerra mondiale, favoriscono la vittoria della parte che dispone di maggiori risorse di uomini e capacità industriali e quindi in grado di poter resistere a lungo, anche se si espone a una distruzione rilevante delle sue risorse. Ora, che la Russia si trovi nella condizione più favorevole per tecnologia, economia e popolazione e risorse energetiche è sicuro, se tutto si limitasse al confronto con la sola Ucraina, ma tutto cambia se si considera la partecipazione della NATO e dell’occidente. Ecco, allora, come si evidenzi e motivi un interesse delle due parti a trovare in questo stallo un incentivo per un accordo per arrivare ad un tavolo negoziale.
Ma c’è un’altra domanda che sovrasta tutte le altre possibili: Biden, il presidente USA che può influenzare l’orientamento dell’Occidente e della NATO, ha forse altri piani? Con la fornitura degli Abrams all’Ucraina sembra scommettere sulla possibilità che l’Ucraina vinca la guerra usando i nuovi mezzi forniti, insieme ai Leopard Tedeschi e di altri paesi europei. Passando così da una battaglia di posizione a una di movimento, coma avvenne nella seconda guerra mondiale con gli scontri storici tra i carri Hitleriani e quelli di Stalin, che gli storici ci raccontano come uno scontro che rivoluzionò la guerra. E tuttavia, senza essere esperti, questa mossa americana possiamo e dobbiamo leggerla come un’escalation. Questo passo di maggiore impegno svela una condotta che non può più contenersi nella prassi di una particolare assistenza diplomatica data ad un paese amico aggredito, per cui si ricorre alla voce “aiuto” o “ consiglio attivo” oppure un sostegno anche di armi difensive. Se l’esercito ucraino si muove, si difende e spesso avanza a riconquistare territorio con le armi, le uniche armi in suo possesso, fornite dall’occidente, affermare che l’Ucraina sta sostituendo l’occidente come principale avversario sul campo di battaglia della Russia non è un ossimoro, ma una semplice, attendibile e ineludibile verità. Neppure gli analisti, i più quotati su questo fronte, sono nella condizioni di poterci dire quando il punto di non ritorno sarà superato, o se siamo già in una di quelle situazioni in cui non si tratta più di stabilire se la Russia ha aggredito l’Ucraina, ma se l’America e la Russia intendono proseguire la guerra, fino allo scontro diretto tra le due potenze, con il coinvolgimento della NATO e forse di qualche altra potenza al fianco della Russia, al momento in attesa di decidere a seconda degli sviluppi della situazione di guerra in corso tra USA e Russia.
Questo possibile scenario politico, cioè questo balzo della situazione si nasconde dietro un possibile incidente, reso molto probabile se si considera l’intensificarsi del coinvolgimento degli USA e dei paesi aderenti alla NATO, anche per la diversificazione dei dispositivi ad alta tecnologia che Biden e Sholz, al pari degli altri componenti lo schieramento occidentale, si apprestano a fornire all’Ucraina, che segna un coinvolgimento degli USA e della NATO sempre più diretto e dimostrativo di un interesse geopolitico che va oltre la formula dell’aiuto dato ad un paese aggredito. Questa riflessione poggia sulla considerazione di un elemento che fa la differenza e riguarda la caratteristica delle armi fornite e il loro maggiore potere distruttivo, dai carri armati all’artiglieria missilistica guidata dai computer e da una rete di informazioni, che solo l’America è nella condizione di fornire utilizzando i satelliti. Per questo motivo, questa nuova situazione ci induce a riconoscere un più diretto coinvolgimento degli USA e rende convincete la rilevazione che sta combattendo una guerra senza avere sul terreno di battaglia un proprio esercito.
La stampa americana ci informa che non tutti i consiglieri del Presidente Biden sono d’accordo su come proseguire questa politica, e tale divisione vede prevalere quella parte che ritiene di essere ormai direttamente coinvolti in questa guerra, che non ha latri sbocchi se non quella della sconfitta della Russia. Il fatto che al proposito non ci siano chiare e oneste prese di posizione, in qualche modo contrarie o apertamente dissociative contro questa linea pericolosa, è preoccupante, perché questa sembra la premessa per un nuovo tipo di missione per la NATO: un suo coinvolgimento senza avere mai messo in atto un tentativo di un armistizio quale premessa per costruire un tavolo di trattativa per raggiungere la fine della guerra e realizzare la pace
Sono tante le voci che si sollevano nella parte del mondo occidentale contro questa guerra ed esprimono la loro condanna contro l’invasione dell’Ucraina definita “ una guerra di aggressione” e indicano Putin come un Barbaro. Da parte loro i russi dicono che questa è una guerra in cui la Russia sta combattendo per la sua sopravvivenza e contro gli Stati Uniti, e vogliono la sconfitta di un ordine globale ingiusto in cui gli Stati Uniti dominano economicamente e finanziariamente imponendo la sua politica. Se la strada della pace si lascia impigliare nelle maglie di questo scontro nessuno ne uscirà vincitore. L’Europa deve giocare le sue carte, riprendere nelle sue mani il destino del continente e utilizzare ogni mezzo, ogni minima possibilità per portare la Russia a dare la sua disponibilità a trattare e definire insieme un percorso nuovo, d’intesa comune e concordia per dare al continente una pace duratura. Se lasciamo che sia l’America a gestire questa partita, l’Europa non avrà futuro.
Alberto Angeli
La Capitol Hill di Brasilia ed i pesci di destra che nuotano nel mare devastato. di R. Achilli

Il tentativo di insurrezione in Brasile, evidentemente orchestrato da Bolsonaro nel suo buen retiro in Florida, andrà seguito nei prossimi mesi, perché è ovviamente solo un episodio di una guerra civile strisciante che probabilmente renderà impossibile per Lula governare il Paese in direzione degli obiettivi che si propone. Lo stesso Bolsonaro, probabilmente, si aspettava un fallimento ma, come nel caso dell’assalto a Capitol Hill dei trumpiani (due episodi molto simili anche sul versante sociale, come vedremo) ritiene che questo clima da guerra civile vada alimentato perché, nel medio periodo, potrà favorirlo nella lunga marcia verso la riconquista del potere.
Alcune cose sono chiare sin da adesso. Sul piano internazionale, è difficile non scorgere l’ambiguita’ dell’Amministrazione statunitense, da un lato immediatamente critica nei confronti degli insorti (e ciò ha contribuito non poco al fallimento del golpe) e che dall’altro ospita sul suo territorio lo stesso Bolsonaro, nonché i suoi uomini, che hanno organizzato l’insurrezione per poi scappare dal loro capo, come il ministro della sicurezza di Brasilia. In queste ore Biden non si sta rivelando coerente con le sue dichiarazioni di condanna del tentato golpe, che dovrebbero essere seguite da una espulsione di Bolsonaro e della sua corte, un provvedimento che non si vede. Probabilmente agli Stati Uniti va benissimo che la sinistra brasiliana non abbia la forza di governare e si logori in un conflitto sociale interno. D’altra parte hanno già decapitato il governo di sinistra peruviano e hanno provato a farlo anche in Bolivia (senza contare la lunghissima guerra – commerciale e non – contro il governo venezuelano, avviata dal democratico Obama e interrotta da Biden solo per la necessità di garantirsi il greggio di Caracas a fronte del conflitto in Ucraina).
Sul piano interno, è solare come il tentativo di sovvertire l’ordine democratico brasiliano sia portato avanti da segmenti delle forze di sicurezza e dell’esercito, timidi nel difendere i palazzi delle istituzioni e restii a condurre la repressione. Dietro i vertici militari, ovviamente, agiscono i soliti: le élite imprenditoriali, i fazenderos attratti dalle opportunità di business date dalla selvaggia deforestazione amazzonica promossa da Bolsonaro.
Ma vi è molto di più. La questione del blocco sociale a sostegno di Bolsonaro è molto più complessa, ed ha a che vedere con il successo delle destre populiste, razziste e sovraniste in società post ideologiche, dominate dalla comunicazione. Ci sono ovviamente specificità brasiliane, in particolare la forza delle comunità evangeliche e metodiste, impregnate di individualismo meritocratico, nonché l’emergere dalla miseria di un ceto medio, tramite le politiche sociali dei governi del Pt di Lula e della Rousseff e che adesso, uscito dalla miseria, sogna di aver mano libera dallo Stato per poter cavalcare le (immaginarie) praterie del benessere liberista.
Ma ci sono fattori che non sono specifici al Brasile, che, sotto il profilo dei blocchi sociali di riferimento e della strategia politica e comunicativa, accomunano Bolsonaro a Trump ed alle destre europee (la Meloni è stata costretta a fare un tardivo, ipocrita e sbrigativo comunicato di condanna dei fatti di Brasilia solo dopo che lo stesso Bolsonaro, preso atto del fallimento, aveva preso le distanze).
In particolare, Bolsonaro ha le sue roccaforti elettorali fra i giovani, e non soltanto quelli di famiglie benestanti e bianche, giovani bolsonaristi residenti nei grandi centri urbani del sud (Rio e San Paolo) dove la diffusione di Internet e dei social è più densa. L’elettorato giovanile viene captato attraverso i social, con un processo di costruzione mediatica dell’immagine politica di Bolsonaro come leader non facente parte del sistema, come uomo anticasta che combatte la corruzione dei vecchi partiti e delle élite politiche mature. Niente può essere più falso di questa immagine, ma nella società della comunicazione conta l’abito, non il monaco che lo indossa.
E poi c’è un rilevante consenso di segmenti sociali che potremmo definire come inclusi in un intervallo che sta fra il sottoproletariato classico, le elite operaie un tempo dominate dalla sinistra e spezzoni di piccola borghesia in difficoltà economica e di posizionamento socio-professionale. Tale segmento sociale e’ attratto da una offerta politica e comunicativa basata sui temi della sicurezza, che ovviamente in Brasile è una questione fra le più gravi, ma lo è anche nelle nostre società caratterizzate da diseguaglianze crescenti e immigrazione non integrata, e “razzismo difensivo”, ovvero ostilita’ verso i gruppi etnici percepiti, da parte dello strato più vulnerabile economicamente del gruppo socio-etnico dominante, come concorrenti nell’accesso al lavoro o al welfare e come pericolo per la propria traballante identità culturale (in Brasile parliamo dei neri temuti dai bianchi poveri ma anche dai neri che sono entrati nel ceto medio ed hanno paura di tornare nella miseria, da noi parliamo della irrazionale paura dei migranti nelle periferie degradate dei nostri ceti medi in impoverimento. La dinamica è la stessa, ed è identica, a prescindere dalla retorica, a quella dei suprematismi statunitensi alleati di Trump).
Di fronte ai temi della sicurezza e del razzismo difensivo, l’elemento emotivo è così forte da accettare persino una riduzione dei diritti civili e democratici, persino una dittatura, nell’illusione che la legge e l’ordine possano tranquillizzare società spaventate e deprivate di riferimenti valoriali dal declino delle ideologie e della politica.
In questo mare di devastazione etica, culturale, valoriale, ovviamente, i pesci che nuotano meglio vengono da destra.
Riccardo Achilli
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