immigrazione
Migranti, sonoro schiaffo da Germania e Ue, di G. Barbera.

Non inizia bene l’esordio in Europa del governo Meloni, visto il sonoro schiaffo assestato da Germania e Ue sulla questione migranti. D’altronde difficile dar loro torto, in quanto é inaccettabile, sotto tutti punti di vista, da quello legale a quello etico, che il governo italiano subordini l’incolumità e la sicurezza dei naufraghi, bloccati sulle imbarcazioni di alcune Ong, alla pretesa di una ricollocazione preventiva in altri paesi europei.
Ricollocazione, peraltro, mai negata, visto che la stessa Commissione europea, per bocca di uno dei suoi portavoce, fa sapere dell’esistenza di offerte di ricollocazione in altri paesi per 8 mila migranti, di cui potrebbero usufruire anche le persone, tra cui molti minori, che risultano attualmente bloccate sulle imbarcazioni delle Ong, al largo delle nostre coste, a causa del diniego espresso dal nostro governo.
Basta giocare con la vita delle persone che hanno bisogno di cure mediche e che hanno già subito gravi violenze e abusi nei famigerati lager libici, di cui anche il nostro Paese porta la responsabilità.
Il governo italiano garantisca l’applicazione delle normative internazionali, evitando altre pessime figure in campo internazionale.
La politica dei porti chiusi rappresenta un’aberrazione etica che getta pesante discredito sul nostro Paese.
Giovanni Barbera
Non possiamo essere complici dello sterminio. di C. Baldini
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Quattordici ministri degli esteri europei hanno finalmente trovato la forza, dopo l’appello di Papa Francesco, di chiedere la fine del massacro di Idlib.
Sono i capi delle diplomazia di Italia, Francia, Germania, Paesi Bassi, Spagna, Portogallo, Belgio, Estonia, Polonia, Lituania, Svezia, Danimarca, Finlandia e Irlanda.
Arriva dopo che un numero incredibile di scuole è stato colpito dai raid aerei dei russi e dei siriani e dopo le operazioni militari dei turchi.
Un milione di civili rischiano ormai di morire di stenti e privazioni, di freddo, di fame. La maggioranza di loro sono bambini. Gli assiderati dei giorni scorsi fecero scalpore, poi basta. Ma l’emergenza è assoluta, questione di ore. Quel milione di individui è ancora lì, rischiano tutti un destino atroce. E domani si aggiungeranno o si potrebbero aggiungere altri due milioni di essere umani, gli altri disperati civili che vivono a Idlib.
E il mondo dell’associazionismo c’è? La nostra società civile non ha nulla da dire? Nulla da obiettare? La nostra coscienza tace?
Ho letto le denunce di Amnesty, altre voci importanti, certamente. Ma dove siamo, noi? Impauriti dal Coronavirus non sappiamo più distinguere il reale dall’ipotetico? O siamo stati assorbiti, inghiottiti da una liquefazione della coscienza individuale e collettiva?
Questo mondo è il nostro mondo. Quello che accade è opera nostra. Dei nostri silenzi, della nostra acquiescenza, disattenzione.
Chi ha parlato di “male minore” avrà per sempre su di sé il peso, per me, di un errore enorme.
Scuole bombardate, bambini in fuga verso il nulla. Il muro turco impedisce alla popolazione di fuggire, il fuoco di Assad li incalza senza via di fuga.
Erdogan, dopo aver armato l’altra canaglia, i jihadisti, che ha tormentato questa popolazione, pensa solo ai suoi confini e al suo espansionismo.
Ma ai civili di Idlib non pensa proprio nessuno?
Io credo che sia arrivata l’ora di una grande mobilitazione nazionale per la coscienza umana di ciascuno di noi. Sottrarsi vorrebbe dire essere complici.
Fuggono verso la Grecia che li respinge con lacrimogeni. Muoiono di freddo e di polmoniti.
Scendiamo tutti in piazza per Umanità. Non importa chi ci organizzerà. Bisogna farlo.
Claudia Baldini
A proposito di migranti e politiche di sinistra, di L. Lecardane
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Premetto che non bisogna assolutamente confondere le Ong con le cooperative che gestiscono i Cie. Tra le organizzazioni non governative ci sono Medici Senza Frontiere, Emergency ed altre. Ad esempio MSF è formata da medici che si mettono in aspettativa e vanno in zone a rischio. Tutte le Ong, prima di andare in qualsiasi posto, sono precedute dall’ Unhcr, l’Alto commissariato Onu per i rifugiati, poiché questa organizzazione internazionale è l’unica che può coordinarsi con uno Stato per aiutare i rifugiati.
Detto questo:
1) i procuratori di Catania e Trapani hanno tutto il diritto di indagare e di chiedere i mezzi per farlo; ciò che non possono fare è, quello di Catania, urlare ai quattro venti di essere sicuri che alcune ong (quelle meno conosciute) ci guadagnino e l’altro, quello di Trapani, che i migranti diventano manovalanza per la mafia, anche perché chi sbarca viene distribuito in varie regioni italiane. Debbono indagare in silenzio vista la situazione in Italia;
2) un parlamentare della Repubblica ha il diritto/dovere di chiedere conto e ragione al governo rispetto alla questione Ong, può essere criticato per questo, non insultato, ma deve andarci con i piedi di piombo;
3) se non si vuole dare mano libera a Salvini e company, bisogna avere una posizione articolata: tra dire affondiamo le barche e accogliamoli tutti io ritengo esista una posizione forte e molto più di sinistra. Accogliamoli perché scappano da carestie, guerre e persecuzioni, ma organizziamo, intanto, attraverso le organizzazioni internazionali non private, come Unhcr, Unicef etc… lo sviluppo serio del terzo mondo, il trasferimento di tecnologia e di conoscenza, il tutto gestito, non da governi nazionali, ma da persone capa ci di organizzazioni internazionali. Bisogna costruire imprese, dare la possibilità di coltivare terreni;
4) esiste una commissione parlamentare migranti a quanto pare, perché non indaga sul fenomeno? Questo sarebbe un modo per garantire le Ong pulite e dare una immagine di attenzione alle paure di alcuni.
Luca Lecardane
Poche considerazioni sul referendum, di R. Achilli
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Questo voto ha una rilevanza sotto numerosi aspetti, ci consegna la lettura di un Paese che forse non conoscevamo granché. E’ evidentemente un voto di classe, il No è stato portato avanti, oltre che da una piccola élite intellettuale illuminata (penso ad esempio ai costituzionalisti schierati per il No, ai tanti appelli venuti dal mondo accademico) soprattutto da quel largo schieramento sociale che i “benefici” delle riforme renziane non lo hanno visti, o hanno addirittura visto peggiorare le loro condizioni: disoccupati di lungo periodo e giovani inoccupati ben lontani dagli illusori bricolage delle politiche per il lavoro fai-da-te: ti do’ un voucher e poi te la vedi tu come spendertelo in un mondo di squali come quello del sistema formativo; ceti medi che sprofondano verso la povertà e vivono l’assillo della minaccia quotidiana di perdere il lavoro, piccola borghesia in parziale proletarizzazione ed angariata da un carico fiscale tutt’altro che in riduzione, insegnanti deportati in puro stile titino in giro per l’Italia ed umiliati dal Rondolino di turno, dipendenti pubblici che non si sono accontentati della mancetta degli 85 euro, perché non vedono valorizzato il loro lavoro quotidiano e sono umiliati dalla retorica della burocrazia soffocante, precari sempre più precarizzati e partite IVA prese in giro con la modesta riformicchia a loro dedicata.
Non è un caso, ed è la cartina di tornasole del connotato di classe di questo voto, che i risultati più netti arrivino dal Mezzogiorno, dall’area territoriale, cioè, che più di tutte raccoglie la sofferenza sociale del nostro Paese. E che ci insegna una grande lezione di dignità e riscatto. Tutti noi pensavamo che il voto al Sud sarebbe stato manovrato ed inquinato dai feudatari del voto, quando non addirittura dalle organizzazioni criminali. Il 67% del No in Calabria, i risultati di province come Salerno e Napoli ci parlano di un Sud ben più autonomo ed arrabbiato di quanto pensassimo. I meccanismi consociativi affogano nella progressiva riduzione delle risorse finanziarie necessarie per ungere le ruote. La spending review diventa il killer di una classe politica notabiliare meridionale che da sempre garantiva di attaccare il ciuccio dove voleva il padrone. Abbandonato a sé stesso dal Governo Renzi, che prima ha svuotato il Fondo Sviluppo e Coesione per altri fini, e poi ha rivenduto banali riprogrammazioni dei fondi strutturali già assegnati come miracolistici Masterplan, il Sud lancia la sua voce di dolore, ma anche di dignità. E ricorda alla politica che niente, in questo Paese, può essere fatto senza dedicare sforzi e progettualità vera al grande malato.
Dentro questo voto soffiano molti venti: sicuramente il vento della stanchezza, di un Paese allo stremo, per otto anni di crisi alternata a stagnazione, e di assenza di prospettive di riscatto a breve. Questo Paese non ha accettato la retorica del cambiamento continuo, dell’innovazione per l’innovazione, proposta dai renziani. A Bagnoli, ad esempio, servono condizioni di abitabilità decenti, ambiente, lavoro e legalità, non le futuristiche strutture immaginate da Renzi per chiudere l’infinita storia della riconversione dell’ex polo siderurgico. E così in tutte le Bagnoli che ricoprono questo Paese, anche in un Nord che ha perso il suo connotato mitico di locomotiva economica, e che oggi lotta fra aziende che chiudono, condizioni lavorative sempre più disastrose, disgregazione di quel tessuto di coesione sociale che era garantito dal vecchio modello distrettuale, oggi preso letteralmente a mazzate dalla concorrenza dal lato dei costi esercitata dai Paesi emergenti (spesso operanti addirittura dentro la casa distrettuale, vedi Prato ed il distretto parallelo e clandestino dei cinesi) e dall’incapacità morale e progettuale dei rampolli odierni dell’imprenditoria settentrionale nel proporre un patto sociale e produttivo fatto di coesione, compartecipazione, innovazione e qualità. La disgregazione dell’impianto contrattuale, per inseguire un modello americano di competitività aziendale, non rilancia la produttività perché scarica semplicemente sul salario i mancati guadagni di redditività dell’azienda. La burocrazia confindustriale è fra i principali sconfitti di questo voto, perché ha creduto, attraverso la riforma costituzionale, di trasferire alle istituzioni pubbliche il modello padronale-efficientistico ed accentratore, oramai obsoleto, che rappresenta la base culturale della nostra borghesia. Questo modello di governance, che esclude la cogestione e il dialogo organizzativo interno, è il principale responsabile, insieme ad un sistema creditizio asfittico e politicizzato ed allo smantellamento della grande impresa pubblica che faceva innovazione radicale, della spoliazione industriale del Paese e dell’asfissia del nostro processo di accumulazione. Non è stato permesso, a questo modello perdente, di trasferirsi nella sfera costituzionale.
Se soffia il vento della stanchezza, soffia anche quello della rabbia e del rancore, e la nostra classe dirigente farebbe bene a stare molto attenta, perché gonfia le vele del populismo, e preannuncia rese dei conti ben più violente di quelle di un voto referendario. Nei tanti renziani che oggi sfogano la delusione per la sconfitta richiamando il modello-Renzi e prendendosela con un Paese che non lo avrebbe capito, o che non avrebbe il coraggio di seguirlo, è assente ogni consapevolezza razionale minima circa ciò che sta montando dentro il Paese reale. I sistemi politici ed ideologici che spingono popolazioni intere verso miti futuristici e mete gloriose, incuranti delle sofferenze sociali ed individuali che tale processo innesca, sono destinati al crollo. E’ vero per gli Khmer Rossi ed è vero anche per il renzismo.
L’unico modo per sconfiggere il populismo è quello di scendere al livello delle ansie, delle paure, delle frustrazioni, delle sofferenze che lo alimentano. Sapendo dare a queste la priorità rispetto al disegno generale ed agli obiettivi futuri. Dicendo che Ventotene, che il multiculturalismo dell’immigrazione, che il pareggio strutturale di bilancio, che la crescita della curva di produttività, sono meno importanti della cura del bene comune, della preoccupazione per dare lavoro al giovane di Polistena, della tutela dell’ospedale pubblico dal rischio di chiusura, della garanzia di condizioni di sicurezza pubblica per chi vive nelle tante Tor Bella Monaca delle nostre città devastate e “americanizzate”, dove i meno abbienti vengono ghettizzati in periferie sempre più lontane e squallide. Arroccarsi su una presunta superiorità del progetto sulle persone (quand’anche essa fosse reale, e non è il caso del renzismo) su una spinta ad andare avanti per andare avanti, a riformare per riformare (quale che sia il costo da pagare) e su una politica fatta di oscuro tecnicismo ed opacità nella gestione del potere (opacità che la deforma-Boschi, con le sue cervellotiche procedure legislative, avrebbe accresciuto) consegnerà il Paese a Grillo, forse ad un Grillo alleato con Salvini.
Per questo serve un progetto collettivo, che sia però basato sull’analisi delle condizioni di vita dei singoli, in grado di restituire speranze rispetto ai loro obiettivi esistenziali. Per tale progetto, il tecnicismo oligarchico renziano è chiaramente inadeguato. Il populismo lo è altrettanto. Solo la sinistra è in grado di recuperare, nella sua tradizione culturale che vede nel partito e nel sindacato gli aggregatori della domanda sociale, e i produttori di una élite politica in grado di produrre coscienza di classe (rimettendo insieme i pezzi di classe frammentati attorno ad un progetto di rinascita comune) e dare una indicazione sul “che fare”, una speranza per il futuro.
Riccardo Achilli
Serve una cultura di pace, oggi è minoritaria, di G. Viale
La guerra non è fatta solo di armi, eserciti, fronti, distruzione e morte. Comporta anche militarizzazione della società, sospensione dello stato di diritto, cambio radicale di abitudini, milioni di profughi, comparsa di “quinte colonne” e, viva iddio, migliaia di disertori e disfattisti, amici della pace. Quanto basta per capire che siamo già in mezzo a una guerra mondiale, anche se, come dice il papa, “a pezzi”.
Questa guerra, o quel suo “pezzo che si svolge intorno al Mediterraneo, è difficile da riconoscere per l’indeterminatezza dei fronti, in continuo movimento, ma soprattutto degli schieramenti. Se il nemico è il terrorismo islamista e soprattutto l’Isis, che ne è il coagulo, chi combatte l’Isis e chi lo sostiene? A combatterlo sono Iran, Russia e Assad, tutti ancora sotto sanzione o embargo da parte di USA e UE; poi i peshmerga curdi, che sono truppe irregolari, ma soprattutto le milizie del Rojava e il Pkk, che la Turchia di Erdogan vuole distruggere, e Hezbollah, messa al bando da USA e UE, insieme al Pkk, come organizzazioni terroristiche. A sostenere e armare l’Isis, anche ora che fingono di combatterlo (ma non lo fanno), ci sono Arabia Saudita, il maggiore alleato degli Usa in Medioriente, e Turchia, membro strategico della Nato. D’altronde, ad armare l’Isis al suo esordio sono stati proprio gli Stati uniti, come avevano fatto con i talebani in Afghanistan. E se la Libia sta per diventare una propaggine dello stato islamico, lo dobbiamo a Usa, Francia, Italia e altri, che l’hanno fatta a pezzi senza pensare al dopo. Così l’Europa si ritrova in mezzo a una guerra senza fronti definiti e comincia a pagarne conseguenze mai messe in conto.
La posta maggiore di questa guerra sono i profughi: quelli che hanno varcato i confini dell’Unione europea, ma soprattutto i dieci milioni che stazionano ai suoi bordi: in Turchia, Siria, Iran, Libano, Egitto, Libia e Tunisia; in parte in fuga dalla guerra in Siria, in parte cacciati dalle dittature e dal degrado ambientale che l’Occidente sta imponendo nei loro paesi di origine. Respingerli significa restituirli a coloro che li hanno fatti fuggire, rimetterli in loro balìa; costringerli ad accettare il fatto che non hanno altro posto al mondo in cui stare; usare i naufragi come mezzi di dissuasione.
Oppure, come si è cercato di fare al vertice euro-africano di Malta, allestire e finanziare campi di detenzione nei paesi di transito, in quel deserto senza legge che ne ha già inghiottiti più del Mediterraneo; insomma dimostrare che l’Europa è peggio di loro. Ma respingerli vuol dire soprattutto farne il principale punto di forza di un fronte che non comprende solo l’Isis, le sue “province” vassalle ormai presenti in larga parte dell’Africa e i suoi sostenitori più o meno occulti; include anche una moltitudine di cittadini europei o di migranti già residenti in Europa che condividono con quei profughi cultura, nazione, comunità e spesso lingua, tribù e famiglia di origine; e che di fronte al cinismo e alla ferocia dei governi europei vengono sospinti verso una radicalizzazione che, in mancanza di prospettive politiche, si manifesta in una “islamizzazione” feroce e fasulla.
Un processo che non si arresta certo respingendo alle frontiere i profughi, che per le vicende che li hanno segnati sono per forza di cose messaggeri di pace.
Troppa poca attenzione è stata dedicata invece alle tante stragi, spesso altrettanto gravi di quella di Parigi, che costellano quasi ogni giorno i teatri di guerra di Siria, Iraq, Afghanistan, Libia, Nigeria, Yemen, ma anche Libano o Turchia. Non solo a quelle causate da bombardamenti scellerati delle potenze occidentali, ma anche quelle perpetrate dall’Isis e dai suoi sostenitori, di Stato e non, le cui vittime non sono solo yazidi e cristiani, ma soprattutto musulmani. “Si ammazzano tra di loro” viene da pensare a molti, come spesso si fa anche con i delitti di mafia. Ma questo pensiero, come quella disattenzione, sono segni inequivocabili del disprezzo in cui, senza neanche accorgercene, teniamo un’intera componente dell’umanità.
E’ di fronte a quel disprezzo che si formano le “quinte colonne” di giovani, in gran parte nati, cresciuti e “convertiti” in Europa, che poi seminano il terrore nella metropoli a costo e in sprezzo delle proprie come delle altrui vite; e che lo faranno in futuro sempre di più, perché i flussi di profughi e le cause che li determinano (guerre, dittature, miseria e degrado ambientale) non sono destinati a fermarsi, quali che siano le misure adottate per trasformare l’Europa in una fortezza (e quelle adottate o prospettate sono grottesche, se non fossero soprattutto tragiche e criminali).
Coloro che invocano un’altra guerra dell’Europa in Siria, in Libia, e fin nel profondo dell’Africa, resuscitando le invettive di Oriana Fallaci, che speravamo sepolte, contro l’ignavia europea, non si rendono conto dei danni inflitti a quei paesi e a quelle moltitudini costrette a cercare una via di scampo tra noi; né dell’effetto moltiplicatore di una nuova guerra. Ma in realtà vogliono che a quella ferocia verso l’esterno ne corrisponda un’altra, di genere solo per ora differente, verso l’interno: militarizzazione e disciplinamento della vita quotidiana, legittimazione e istituzionalizzazione del razzismo, della discriminazione e dell’arbitrio, rafforzamento delle gerarchie sociali, dissoluzione di ogni forma di solidarietà tra gli oppressi. Non hanno imparato nulla da ciò che la storia tragica dell’Europa avrebbe dovuto insegnarci.
Una politica di accoglienza e di inclusione dei milioni di profughi diretti verso la “fortezza Europa”, dunque, non è solo questione di umanità, condizione comunque irrinunciabile per la comune sopravvivenza. E’ anche la via per ricostruire una vera cultura di pace, oggi resa minoritaria dal frastuono delle incitazioni alla guerra. Perché solo così si può promuovere diserzione e ripensamento anche tra le truppe di coloro che attentano alle nostre vite; e soprattutto ribellione tra la componente femminile delle loro compagini, che è la vera posta in gioco della loro guerra. Nei prossimi decenni i profughi saranno al centro sia del conflitto sociale e politico all’interno degli Stati membri dell’UE, sia del destino stesso dell’Unione, oggi divisa, come mai in passato, dato che ogni governo cerca di scaricare sugli altri il “peso” dell’accoglienza.
Eppure, fino alla crisi del 2008 l’UE assorbiva circa un milione di migranti ogni anno (e ne occorrerebbero ben 3 milioni all’anno per compensare il calo demografico). Ma perché, allora, l’arrivo di un milione di profughi è diventato improvvisamente una sciagura insostenibile? Perché da allora l’Europa ha messo in atto una politica di austerity, a lungo covata negli anni precedenti, finalizzata a smantellare tutti i presidi del lavoro e del sostegno sociale e a privatizzare a man bassa tutti i beni comuni e i servizi pubblici da cui il capitale si ripromette quei profitti che non riesce più a ricavare dalla produzione industriale. Ma quelle politiche, che non danno più né lavoro né redditi decenti a molti, né futuro a milioni di giovani, non possono certo concedere quelle stesse cose a profughi e migranti. Devono solo costringerli alla clandestinità, per pagarli pochissimo, ridurli in condizione servile, usarli come arma di ricatto verso i lavoratori europei per eroderne le conquiste.
Per combattere questa deriva occorrono non solo misure di accoglienza (canali umanitari per sottrarre i profughi ai rischi e allo sfruttamento degli “scafisti” di terra e di mare, e permessi di soggiorno incondizionati, che permettano di muoversi e lavorare in tutti i paesi dell’Unione); ma anche politiche di inclusione: insediamenti distribuiti per facilitare il contatto con le comunità locali, reti sociali di inserimento, accesso all’istruzione e ai sevizi, possibilità di organizzarsi per avere voce quando si decide il futuro dei loro paesi di origine. Ma soprattutto, lavoro: una cosa che un grande piano europeo di conversione ecologica diffusa, indispensabile per fare fronte ai cambiamenti climatici in corso e alternativo alle politiche di austerity, renderebbe comunque necessaria.
Ma per parlare di pace occorre che venga bloccata la vendita di armi di ogni tipo agli Stati da cui si riforniscono l’Isis e i suoi vassalli, che non le producono certo in proprio.
Guido Viale
Pubblicato su “Il manifesto” il 18/11/2015
http://ilmanifesto.info/serve-una-cultura-di-pace-oggi-e-minoritaria/
No alla cultura dell’odio, Comunicato Stampa del Comitato per un Centro interculturale a Roma
Il Comitato per un Centro interculturale a Roma, a nome di tutte le associazioni che lo compongono, esprime il profondo cordoglio per il terribile lutto subito dalla Comunità internazionale negli attentati di Parigi. Piangiamo le vittime, uomini e donne che stavano vivendo momenti di socialità condivisa, in luoghi deputati alla condivisione. Non crediamo alla cultura dell’odio e contro la cultura degli attentati e dei bombardamenti, continuiamo ad esprimerci in difesa di una società che sa di essere piena di vita e continua a volersi incontrare e riunire.
Non dobbiamo aver paura. Non possiamo permettere che la chiusura, l’invocazione di controlli indiscriminati, la caccia ai rifugiati siano la massima espressione di ciò che per noi significa Europa. Per questo non dobbiamo avere paura, e rispondere moltiplicando la democrazia, il dialogo e l’incontro. Non vogliamo rinunciare alla speranza.
Non possiamo chiudere i teatri del mondo perché qualcuno arriverà a farsi esplodere. Per questo abbiamo deciso di unirci a Roma tra diverse associazioni in questo comitato, per celebrare l’incontro ed immaginare nella Capitale un luogo di condivisione di tutte le arti e le culture presenti. Ed oggi, con maggiore convinzione pensiamo che il confronto tra culture debba passare attraverso la conoscenza ed il rispetto reciproco.
Il silenzio, in questo momento, serve per raccogliere le proprie idee, per farle decantare, ma la nostra risposta sarà di continuare a richiedere con forza dei luoghi per la condivisione della libertà di espressione. Un incontro cittadino tra associazioni per costruire un centro interculturale a Roma sarà convocato nei prossimi giorni.
Siamo vicini a tutti voi. A tutti noi.
Il Portavoce del Comitato
Ahmad Ejaz
Comitato per un Centro interculturale a Roma
Immigrazione: una conversazione con l’Associazione Dhuumcatu, di S. Macera
Bachu
L’Associazione Dhuumcatu, creata e composta da bengalesi, è da tempo una presenza significativa nella principale metropoli italiana: in prima fila in tutte le manifestazioni per i diritti degli immigrati che si sono svolte nello scorso decennio, offre anche assistenza per le pratiche relative al permesso di soggiorno. Negli ultimi anni ha inoltre sviluppato proficue collaborazioni con le Università La Sapienza e Roma 3, strettamente legate alla possibilità – per gli studenti – di conseguire Master sulle politiche migratorie e sulla convivenza tra etnie nei grandi agglomerati urbani. La sede di questa Associazione è in via Casilina 525, nel quartiere Tor Pignattara, cioè in un’area a forte connotazione multietnica, purtroppo segnata, negli ultimi mesi, da tensioni tra comunità e anche da episodi gravissimi e di cui è necessario ribadire la condanna, come l’omicidio del pachistano Shahzad ad opera di un minorenne romano. Rivolgendoci a Bachcu, che dell’Associazione è uno degli animatori, abbiamo cercato di mettere a fuoco alcuni contorni della situazione degli immigrati a Roma, con l’intento di fuoriuscire dai luoghi comuni veicolati dai media più diffusi.
La nostra conversazione è partita dai rapporti dell’Associazione con le forze del territorio, a partire dai Comitati di Quartiere. Qui ve ne sono almeno tre, di diversa collocazione politica: uno schiettamente di destra, uno di sinistra e un terzo dall’orientamento non chiaro. Esclusa ogni relazione col primo – dedito a speculare su una presunta “emergenza immigrati” – con il secondo vi sono state iniziative comuni, di carattere sociale e culturale, sui temi legati alla riqualificazione d’un territorio che l’amministrazione capitolina ha per molti versi abbandonato a sé stesso. In sostanza, parliamo di azioni volte a combattere il degrado che rifiutano quella retorica imperante che lo associa direttamente alla presenza di “forestieri”. Ma perché, oggi, nella capitale il clima risulta così impregnato d’intolleranza? Secondo Bachcu, una parte della responsabilità è anche del primo cittadino, Ignazio Marino, che in alcune occasioni ha avuto la mano pesante nei confronti di Rom e immigrati – effettuando sgomberi che, per le modalità adottate, sono stati criticati da Amnesty International – salvo esprimersi, in altre circostanze, in termini più consoni ad una cultura democratica. Così, il sindaco ha spianato la strada alle forze di destra e anche di estrema destra, che, su questo fronte, agiscono in modo più lineare ed organico, giungendo a muoversi addirittura nel senso d’una quotidiana istigazione all’odio razziale. Tale opera di sciacallaggio o, comunque, il successo di argomenti rozzamente semplificatori, a ben vedere, possono essere parzialmente spiegati anche alla luce di questioni irrisolte che riguardano l’Italia intera e che si caricano di valenze esplosive soprattutto nelle grandi città.
E’ vero, nel belpaese è sostanzialmente ridicolo parlare di un’invasione, sia perché la percentuale di immigrati (attorno all’8% della popolazione totale) è più contenuta che negli altri grandi Stati europei, sia in considerazione della cospicua flessione dei flussi migratori che si è registrata negli ultimissimi anni, dovuta alla consapevolezza delle difficoltà economiche dell’Italia attuale. Però, quando la classe dirigente nostrana ha cominciato a interessarsi agli immigrati – a partire dalla Legge Martelli (1990) – lo ha fatto considerandoli esclusivamente come manodopera, senza confrontarsi con il loro essere portatori di specifiche culture, tendenze religiose e modi di vita. Poco è stato fatto, insomma, per avviare un serio confronto/scambio con i nativi; anzi, si può dire che una peculiarità italiana è proprio la mancata scelta d’uno dei qualsiasi dei tanti modelli attraverso cui gli Stati cercano di far interagire, nello spazio pubblico, differenti identità culturali. Di più, si è lasciato che – a parte la programmazione dei flussi a seconda delle necessità delle imprese – tutto il resto si regolasse da sé. Il che ha portato le singole comunità s muoversi come meglio potevano: per dire, un nuovo arrivato dallo Sri Lanka in cerca di casa ha potuto trovarla solo in un uno specifico quartiere, attraverso persone della stessa provenienza precedentemente insediatesi nel posto. Si è creato così un fenomeno che i sociologi più attenti riconducono a una sorta di ghettizzazione e che, invece, una classe politica spregiudicata, impegnata nell’assecondare i più bassi istinti per ottenere successi elettorali, ha denominato invasione.
I demagoghi muovono dalla consapevolezza che la presenza di comunità, sia pur piccole, con cui non si comunica è già sentita da alcuni come molesta e che questa percezione può presentarsi in forme più pesanti in quelle aree metropolitane dove il processo spontaneo di cui sopra ha portato a concentrazioni più considerevoli. Dunque, il clima che si registra oggi in una grande città come Roma è, almeno in parte, figlio delle scelte d’una classe dirigente che, nella gestione del processo migratorio, si è disinteressa d’ogni questione legata alla convivenza con gli italiani. Una situazione che, attualmente, risulta complicarsi alla luce di fenomeni che interessano in particolare alcune comunità, come, appunto, quella bengalese. Proprio il difficile momento economico del nostro paese, spinge molti immigrati ad andarsene in Stati meno colpiti dalla crisi: si tratta spesso di quelli che si trovano qui da 12-15 anni e che hanno conseguito una posizione regolare sotto ogni aspetto.
Oggi, se sono bengalesi, si avviano verso paesi come, poniamo, l’Australia, dove ci sono ben altre possibilità occupazionali. E’ un fenomeno che, secondo Bachcu, investe la sua comunità almeno dal 2008 e che lo spinge ad una certa amarezza: “abbiamo perso 15 anni”, ci dice. Ciò perché le persone che se vanno sono proprio quelle che – in virtù della loro non breve permanenza in Italia – hanno sviluppato, qui, una maggiore rete di rapporti al di fuori della propria comunità di appartenenza. La progressiva perdita di queste figure, complica le cose in termini che – chi non vive la realtà quotidiana di certi quartieri romani – non può capire. Oggi, risulta ancor più evidente che, se dei nativi avranno un problema – anche di modeste proporzioni – con un immigrato bengalese, lo ingigantiranno parlandone esclusivamente con altri italiani, mentre, nel caso inverso, difficilmente i bengalesi cercheranno una interlocuzione nell’”altro campo” per risolvere le tensioni. Dunque, le già accennate carenze della politica statale e la fuga dall’Italia in crisi da parte di immigrati che vi risiedono da tanto tempo, creano una dinamica perversa, in cui le appartenenze diventano esclusive e tutto viene letto nell’ottica del “noi e loro”. Una situazione siffatta non può che agevolare quelle forze politiche che, scientemente, agiscono nelle periferie degradate per creare contrapposizioni e favorire una vera e propria guerra tra poveri.
Se dei soggetti vengono percepiti come estranei sarà più facile farne un capro espiatorio verso cui dirottare l’obiettivo malessere generato dalla crisi economica e assumeranno una certa plausibilità anche le frottole e le leggende metropolitane che vedono chi “viene da fuori” sempre avvantaggiato dalle istituzioni (nell’assegnazione degli alloggi popolari, nel sostegno economico e via mistificando). Ora, tale situazione, in realtà non sarebbe irrecuperabile, se le autorità politiche locali e nazionali si decidessero ad intervenire, magari mettendo stabilmente all’opera gli studiosi dei fenomeni sociali per definire politiche atte a favorire l’incontro fra le diversità. Per esempio, valorizzando la presenza degli immigrati di seconda generazione – che andrebbero considerati italiani a tutti gli effetti – e utilizzando il fitto calendario di ricorrenze pubbliche che contraddistingue questo paese per promuovere uno scambio che, sin qui, raramente ha avuto una copertura ufficiale. Per dire, il ricordo della tragedia dei minatori italiani a Marcinelle, nel 1958, potrebbe essere attualizzato con riferimenti anche alla condizione di chi è venuto a cercare fortuna qui da noi. Certo, questi sforzi, nel breve termine, non risolveranno tutti i problemi, ma potrebbero contribuire a limitare le tensioni e il diffondersi di fenomeni di autentico razzismo, orientando anche la stampa verso un atteggiamento più riflessivo e meno allarmista.
Inoltre, a ciò si dovrebbe affiancare una politica tesa a riqualificare quelle periferie urbane che – a Roma in particolare – risultano davvero disastrate e spesso prive di servizi essenziali. Naturalmente, l’Associazione Dhuumcatu pensa anche ad un’azione dal basso, da svolgere nei prossimi tempi assieme alle realtà sociali e politiche con cui ha maggiori rapporti. Un’azione che non si limiti a veicolare i messaggi del tradizionale antirazzismo, facendo riflettere tutti sul fatto che la crisi economica che questo paese sta vivendo non è certo addebitabile agli immigrati, che anzi hanno contribuito, in questi anni, a produrre ricchezza. Si tratta, in sostanza, anche di ribadire che le spese inutili, per un’Italia sempre in difficoltà, non sono quelle – al limite, da razionalizzare – destinate all’accoglienza, ma quelle relative alle cosiddette grandi opere, che si accaniscono su un territorio già sfibrato dalla cementificazione, o legate all’ulteriore rafforzamento dell’apparato bellico. Abbandonando la vena pessimistica da cui s’era fatto prendere prima, Bachcu ci ha assicurato, per il 2015, una grande profusione di energie della sua Associazione nell’organizzazione di iniziative di questo segno.