economia

In difesa della Camusso (per una volta), di R. Achilli

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achilli riccardo

L’intervista di Landini su Repubblica dice, in estrema sintesi, tre cose:

– l’unità sindacale lanciata dalla Camusso è roba vecchia, non più sufficiente, e ci vuole un nuovo modello di sindacato, essenzialmente un sindacato unico, come suggerito da Renzi e Scalfari;

– Questo modello di sindacato unico deve prevedere meccanismi democratici più avanzati nell’elezione, da parte dei lavoratori iscritti, non soltanto delle rappresentanze aziendali, ma anche delle strutture dirigenziali, oltre che in una maggiore estensione del meccanismo referendario;

– Occorre una lettura nuova del mondo del lavoro, che inglobi anche chi sta fuori dai meccanismi tradizionali della contrattazione, ovvero, da una parte, i lavoratori non sindacalizzati (il precariato) e dall’altro le aziende che, per scelta o per natura, stanno fuori dai meccanismi della rappresentanza sindacale, oppure sono stanche della contrattazione.

Inizierò dal terzo punto, sul quale concordo con Landini, e direi che sono anni che tutti stiamo dicendo che la lettura del precariato data dal sindacato per lunghi anni, è stata condizionata dal riflesso di riportare indietro, al fordismo, le lancette della storia industriale, per cui la frontiera della proposta al precariato era la richiesta di “stabilizzazione”, e di implementazione di un modello competitivo più avanzato (“una strada alta alla competitività”, direbbe Salvati) fondato sulle competenze e sull’innovazione, che naturalmente tendesse a fidelizzare il lavoratore al posto. Questa lettura è definitivamente saltata per aria con la crisi, con la precarizzazione definitiva del mercato del lavoro, con la constatazione che il capitalismo micro padronale e familistico italiano non è nelle condizioni patrimoniali, finanziarie e culturali per promuovere un modello “alto” di competizione, e che un sistema composto prevalentemente da micro imprese operanti in settori tradizionali o di nicchia, ma non innovativi, ha bisogno di grandi dosi di flessibilità per tenere su mercati in cui esso stesso è precario, in termini di risultati commerciali. E che la strada alta, fino agli anni Novanta, era garantita solo dalla grande industria pubblica, smantellata la quale ci siamo ritrovati con un capitalismo straccione e relazionale, non molto più evoluto del capitalismo comprador e mercantile descritto da Fanon rispetto ai Paesi africani appena decolonizzati.

Di conseguenza, la “nuova lettura” deve ripartire da una analisi del mercato del lavoro e delle sue segmentazioni interne, delle condizioni competitive e delle possibilità della nostra economia nello scenario globale, degli aspetti strutturali del rapporto fra capitale e lavoro, che determinano la distribuzione dei frutti della ricchezza, ed è un lavoro in primo luogo analitico e di studio. Che non c’entra niente, almeno in prima istanza, con il numero dei sindacati, quanto piuttosto con il modo in cui essi si interfacciano all’analisi della situazione con le proposte che sono in grado di fare. che a mio modesto avviso passano per il tramite di uno scambio fra estensione della rappresentanza sindacale e della effettiva partecipazione del sindacato alla vita aziendale e alle decisioni gestionali e garanzia di una maggiore tenuta della pace sociale in azienda, un pò come avviene in Germania. E per proposte operative innovative, ad esempio il rappresentante sindacale territoriale, in grado di dare voce anche agli addetti delle micro imprese prive di rappresentanza interna (ad esempio perché si tratta di botteghe artigiane con un solo addetto, o con due o tre addetti).

Se invece si lega, come fa Landini, la questione di una rilettura dell’azione sindacale a quella del numero dei sindacati in campo, si commette il classico errore del riformismo italiano, che confonde il contenitore con il contenuto, credendo che cambiando il contenitore il contenuto cambierà anch’esso, salvo ovviamente sbagliare sistematicamente.

Sul secondo punto, come non essere d’accordo sul principio generale? Certo, più democrazia interna e meno cooptazione. Certo, più referendum fra i lavoratori. Ma c’è un ma, un ma di tipo operativo, non di principio: senza commettere l’ingenuo errore del movimentismo, che nel nome del popolo sovrano ritiene che l’Eletto sia, di per sé stesso, investito di una autorità e di una onnipotenza divine. Mutatis mutandis, è la stessa logica maggioritaria e plebiscitaria, intrinsecamente autoritaria, di Renzi. La democrazia sindacale vera, profonda, caro Landini, sta dentro un modello di sindacato in grado di incidere nelle scelte aziendali, e cogestirle nell’interesse dei lavoratori. Un sindacato di dirigenti eletti, che però non conta niente, non produce affatto più democrazia. Il referendum fra i lavoratori deve avvenire a valle di un processo negoziale fra le parti che affronti la complessità e trovi soluzioni fattibili, altrimenti sarebbe un referendum alla Catalano, che chiede a lavoratori “volete avere più salario e lavorare meno, oppure avere meno salario e lavorare di più?” Ma le aziende non si gestiscono con i metodi di Catalano.

Sul terzo punto non ci siamo proprio. La storia del sindacato italiano è diversa da quello tedesco. Ed ha portato ad una graduale frammentazione del sidnacato confederale, guidata, almeno inizialmente, da grandi divergenze di principio e di visione della società. che ha condotto a percorsi diversificati, che se riescono a stare dentro un principio unificante di difesa dell’interesse del lavoratore, come propone la Camusso con la sua idea di tornare a forme di unità d’azione fra le tre confederazioni, pur nella reciproca autonomia, sono una ricchezza, non un impoverimento. L’idea dell’unificazione è una infausta consuetudine italiana: partiamo alleati, poi ci mettiamo insieme nell’illusione di essere più forti. E cosa produciamo? Il partito democratico, ad esempio. La verità è che una unificazione sindacale, oggi, schiaccerebbe la CGIL e la FIOM sotto il peso di sindacati molto più moderati, come la CISL e la UIL, spostando l’intero movimento sindacale italiano a destra, esattamente come il processo fusorio del PD ha finito per spostare a destra tutto il centrosinistra italiano. E, esattamente come nel caso del PD, il presunto sindacato unico sarebbe, almeno nei primi anni, una accozzaglia caotica di componenti interne con il loro capobastone. Questo caos paralizzante sarebbe il miglior regalo possibile per la controparte padronale. Per una volta, caro Landini, ha ragione la Camusso. La strada è l’unità d’azione nella diversità organizzativa e nell’autonomia reciproca. E smettiamola per favore con questo modernismo da strapazzo, per cui la proposta della Camusso non va bene perché è “vecchia”, è “roba da anni Settanta”. Sembra di sentir parlare il rottamatore della Valdarno e il suo mito del modernismo a tutti i costi. Intanto negli anni Settanta il sindacato era più efficace e potente di oggi, tanto per dire. Se tornassimo al livello di tutele di quegli anni, noi lavoratori saremmo felicissimi.

Ed una ultima annotazione, caro compagno Landini. Tu giustamente hai detto, recentemente, che il sindacato deve essere più autonomo dalla politica. mi sembra giustissimo. Allora tu stesso sii coerente con le tue affermazioni, e decidi dove vuoi stare, se in politica o nell’agone sindacale, se vuoi essere riformatore della politica oppure del sindacato. Proporsi entrambi gli obiettivi significa “de facto” sottomettere il sindacato alla politica, anziché liberarlo.  L’ora della scelta del campo in cui si vuole combattere inizia ad avvicinarsi, anche per le coalizioni sociali.

Riccardo Achilli

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ASPETTANDO FRANCESCHINI, di M. Luciani (Foto di Patrizia Cortellessa)

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I lavoratori degli stabilimenti cinematografici di Cinecittà ricominciano a lottare. Ieri, al termine di una assemblea sindacale hanno deciso di salire sulla torre dei ripetitori e di non riscendere. Il motivo che ha fatto ripartire la lotta è il “Piano Industriale” della proprietà (Abete, Della Valle, Haggiag, De Laurentis) presentato ufficialmente alle organizzazioni sindacali, lunedì scorso. Nel documento si legge nero su bianco che dei 30mila mq di superficie dell’area di Via Tuscolana solo 6000 saranno destinati a Teatri di Posa e annessi. Gli altri saranno destinati a uffici, alberghi, palestre, parcheggi di superficie e sotterranei, mense. Una volta portato a compimento tale progetto lo spazio più ampio e meglio attrezzato dedicato alla produzione presente a Roma resterebbe la ex De Paolis (oggi Studios), sulla Tiburtina, con i suoi 25000 mq di teatri, insufficienti per le grandi produzioni cinematografiche ed impiegati finora, al massimo, per fiction televisive o film low budget. Del resto si tratterebbe soltanto della pietra tombale perché la musealizzazione della cinematografia è già un fatto compiuto nella Cinecittà di Abete, Della Valle, Haggiag. Basta visitare l’area ex Dino Città al km 23,300 della Pontina divenuta da un anno Parco a Tema o gli stessi stabilimenti di Via Tuscolana 1055 caratterizzati da teatri di posa fermi e da spazi sottratti alla produzione e dedicati a mostre e a percorsi turistici per capire quale sia la scelta strategica tra la produzione e la rendita. Ma i lavoratori non ci stanno a dichiarare la partita chiusa e continuano a lottare, nonostante la cassa integrazione per 88, il contratto di solidarietà per 110 e poi lo spettro del licenziamento per tutti. Continueranno a lottare facendo coalizione sociale con i lavoratori e con i cittadini che non vogliono rinunciare alla vocazione produttiva di eccellenza di Cinecittà che tante opportunità occupazionali ha dato al territorio fin dalla sua inaugurazione nel 1937.
Intanto sono saliti sulla torre, “aspettando Franceschini”. Che spieghi, il ministro, se il piano di cementificazione a beneficio della rendita privata può giustificare 7 milioni di investimento sul sito di Cinecittà, la rateizzazione in 8 anni di 5 milioni di euro di debito contratto da Cinecittà Studios verso l’Istituto Luce (pubblico) e la riduzione del canone d’affitto che la stessa Cinecittà Studios deve corrispondere al Ministero dei beni ambientali, culturali e del turismo. O se ancora la libera iniziativa d’ impresa non può svolgersi in contrasto con la utilità sociale, come è ancora stabilito dalla Carta Costituzionale. Articolo 41.

UN’ALTRA GIORNATA DI LOTTA, di Lavoratori di Cinecittà.

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Riceviamo in redazione e volentieri pubblichiamo il contributo di idee e di immagini dai lavoratori degli stabilimenti cinematografici di Cinecittà in lotta.

 

LA VERA REALTÀ DI CINECITTÀIMG_5532IMG_5533IMG_5534IMG_5539

L’azienda continua la sua politica di distruzione del tessuto produttivo

-38 lavoratori del settore sviluppo e stampa in cassa integrazione saranno licenziati al termine delle procedure, già avviate, il 28 aprile p.v.

-50 lavoratori del settore DIGITALE E AUDIO affittati dal 2012 alla multinazionale Deluxe saranno riconsegnati a Cinecittà per poi essere messi in cassa integrazione e licenziati.
Nonostante il rilancio SBANDIERATO da giornali e televisioni, il gruppo che controlla Cinecittà invece di investire i propri soldi in un settore di sviluppo come il Digitale e Audio continua a sfruttare i soldi dello STATO dichiarando di voler mettere i lavoratori in cassa integrazione.

-110 lavoratori della produzione (costruzione scene-manutentori-amministrativi) sono da gennaio 2013 in solidarietà e per questo gruppo di lavoratori e’ stato dichiarato dall’azienda un problema di esuberi strutturali di 50 unità.

Tutto questo accade nonostante il Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo (Mibact) si sia impegnato:

– a rateizzare in 8 anni il debito di 5 milioni di euro contratto da Cinecittà studios nei confronti dell’Istituto Luce
– ad investire 7 milioni di euro sul sito produttivo di Cinecittà
– ad inserire 110 dipendenti nel programma di contratti di solidarietà per 2 anni abbattendo il costo del lavoro per Cinecittà di centinaia di migliaia di euro ogni anno
– a ridurre il canone di affitto che Cinecittà deve corrispondere al Mibact per centinaia di migliaia di euro l’anno in cambio della restituzione di 4 teatri di posa.

E nonostante varie produzioni nazionali e alcune produzioni internazionali (Ben Hur e Zoolander2) siano tornate a lavorare a Cinecittà grazie alle agevolazioni fiscali del Tax Credit.
Ad aggravare la situazione ci sono le dichiarazioni dell’azienda al tavolo del Mibact sulla volontà di procedere alla realizzazione del progetto che prevede la costruzione di un albergo, ristoranti, palestre, progetto contro il quale nel 2012 i lavoratori hanno occupato Cinecittà con 3 mesi di sciopero.
Risulta evidente l’incompatibilità tra gli indirizzi di sviluppo produttivo , legati al core-business, tracciati dal Mibact e quelli perseguiti dalla società IEG (Luigi Abete-Diego DellaValle-Haggiag-DeLaurentis che detengono l’80% di Cinecittà studios) che punta alla dismissione delle attività di core e di tutta la forza lavoro.

Una analisi del DEF 2015, di R. Achilli

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achilli riccardo

Con l’approvazione ufficiale del Def, si è in grado di fornire una indicazione, sia pur non ancora consolidata (come è noto, il Def va inviato, insieme alPiano Nazionale delle Riforme, alla Commissione Europea, entro metà aprile, in modo tale che, entro giugno, pervengano al Governonazionale le “raccomandazioni” comunitarie, vero e proprio antipasto di possibili, per non dire probabili, modifiche al quadro previsionale di finanza pubblica, ed alla stessa manovra di stabilità per il 2016 che il Def anticipa, a grandi linee. Vale la pena ricordare che, l’anno scorso, le previsioni di disavanzo nominale rispetto al Pil, inizialmente stabilite al 2,2% da Padoan, sono state portate al 2,6% su pressione della Commissione, evidentemente portando ad una manovra di stabilità più pesante e recessiva diquella inizialmente abbozzata).

Iniziando dal quadro previsionale di finanza pubblica, esso si basa su una ipotesi di progressivo irrobustimento, sotto forma di vera e propria ripresa,della crescita, che quest’anno dovrebbe attestarsi sullo 0,7%, per poi arrivare all’1,4% nel 2016 ed all’1,5% nel 2017. Tale ipotesisi bassa su una ripresa delle esportazioni, che dal +2,7% del 2014 dovrebbero crescere del 3,8% nel 2015 e del 4% in ciascuno dei due anni 2016 e 2017, degli investimenti privati (che dopo il calo di 3,3punti nel 2014 dovrebbero crescere di 1,1 punti nel 2015, e di 2,1punti nel 2016) e dei consumi interni, che dovrebbero crescere dello0,8% nel 2015 (dopo lo 0,3% del 2014) fino all’1,4% nel 2017.Completa questa rosea previsione una riduzione di spesa per interessisul debito pubblico pari a 0,3 punti di PIL (ovvero, per un risparmiopari a poco più di 4,9 miliardi).

Questo quadro macroeconomico a rose e fiori dovrebbe quindi contribuire agli obiettivi di finanza pubblica, ovviamente anch’essi visti in miglioramento. Il deficit nominale sul PIL , passerebbe dal 2,6% del2015 all’1,8% l’anno prossimo, fino ad azzerarsi nel 2018,portando ad un pazzesco avanzo di 0,4 punti nel 2019. Il rapporto fra debito pubblico e PIL scenderebbe, dunque, dal 132,5%, al 130,9% l’anno prossimo, fino al 127,4% nel 2017. Il pareggio strutturale di bilancio (al netto cioè degli effetti del ciclo economico e delle misure una tantum) verrebbe raggiunto nel 2017, scendendo di un puntodecimale fra 2015 e 2016 (da -0,5% a -0,4%).

Questo quadro surreale come un dipinto di Dalì (ma evidentemente privo della stessa qualità artistica) porta ad una prosa nella retorica governativa che sfocia nel dadaismo. Fondamentalmente, tutto ciò verrebbe ottenuto senza aumentare le tasse, ma anzi abbassandole in rapporto al PIL, senza incidere sulla spesa pubblica produttiva, che anzi aumenterà (la spesa pubblica in conto capitale dovrebbe aumentare di 3,5 miliardi fra 2015 e 2016) ed addirittura si sarebbe trovato un presunto bonus di spesa di 1,6 miliardi da destinare a un qualche provvedimento urgente di natura sociale o produttiva (sulla destinazione,l’impetuoso Renzi trova un istante di riflettività, anche perché,come meglio si dirà, non è affatto certo che il cosiddetto bonus,dopo il vaglio della Commissione europea, esisterà ancora). Il cittadino medio, che non ha una laurea in economia, e non sa la differenza fra un quadro tendenziale ed un quadro programmatico dovrebbe essere portato a credere, illudendosi, che il DEF stiaaprendo la strada ad una inversione radicale delle politiche economiche, in direzione di una illuminata espansione economica accompagnata da una armoniosa virtù nei conti pubblici. Ed addirittura, Renzi si spinge a dire che le stime del Def sono“prudenziali” (!) lasciando sottendere chissà quali prelibati frutti di una nuova stagione di sviluppo, che per modestia (!!) non ci vuole ancora disvelare, a noi poveri gufi abituati alla durezza della quotidianità ed al principio della realtà.

Ora, evidentemente, le cose stanno in modo diverso. Una ripresa economica trainata dalle esportazioni presuppone che lo sviluppo del commercio mondiale sia solido. Ora, su questo solido sviluppo pesano enormi incognite, dale cifre non proprio entusiasmanti della ripresa statunitense, che potrebbe arrestarsi improvvisamente quando quest’estate un Congresso molto meno accomodante del passato (anche perché ci avviciniamo alla lunghissima maratona presidenziale) dovrà discutere del nuovo “tetto del debito”, e già circolano ipotesi di politiche di austerità recessive, al rallentamento di quasi tutte leeconomie emergenti (Cina, sulla quale pesa addirittura una potenzialebolla immobiliare e finanziaria, Russia, Brasile) ad un profilo diripresa del Giappone non proprio entusiasmante. Senza contare che,sul mercato europeo, il crescente surplus commercial tedesco schiaccia gli spazi di crescita dei partner (per l’ovvio principio fisico secondo il quale se aumenti le quote di mercato si riducono quelle degli altri). Ed infine, l’effetto di svalutazione dell’euro sul dollaro è, per le stesse ipotesi di base del DEF, limitato alsolo 2015, sostanzialmente arrestandosi negli anni successivi.

D’altro canto, la prevista ripresa della domanda interna per consumi ha aspetti esoterici, atteso che la fase di declino del prezzo del petrolio sembra essersi arrestata, il deflatore dei consumi mostra tensioni inflattive di ritorno già da fine 2015, e la crescita dei redditi,che nelle ipotesi del DEF addirittura passerebbe da +1,3% nel 2015 al+2,4% nel 2016 (cioè raddoppiando la velocità di crescita) è una favoletta ridicola, in una stagione in cui il Jobs Act e l’indebolimento dei sindacati ha eliminato ogni possibilità di negoziare margini di aumento del salario. Stendiamo un velo pietoso sull’aumento previsto degli investimenti, che dovrebbe poggiare su un credito di imposta per le imprese che investono in R&S (ma conmercati ancora instabili le imprese non investiranno), su una aspettativa di ripresa del credito legata al QE della Bce (ma i primidati per il 2015 segnalano un ulteriore peggioramento del creditcrunch, come è evidente. Le banche se ne fottono della maggiore liquidità loro offerta se i loro coefficienti patrimoniali continuano ad essere precari, e se l’aspettativa è che la vigilanza europea unica inasprisca i criteri patrimoniali stessi) esulla partecipazione al modesto programma di investimenti pubblici messo a punto da Juncker, che dovrebbe portare fuori dal calcolo del patto di stabilità alcune voci di investimento, che però ancora nonsono specificate, poiché il regolamento è in redazione, quindi è assai arduo formulare previsioni macroeconomiche in merito). E percarità di Patria tacciamo sugli effetti espansivi delle riformestrutturali attuate dal Governo Renzi, che secondo il DEFporterebbero a 0,4 punti di PIL nel 2016 con una crescita del loropeso fino a 1,8 punti nel 2020. Va rilevato, infatti che, come esprime la tabella a pag. 48 della Sezione I, il grosso dell’impatto proviene dalla riforma del mercato del lavoro (ma evidentemente le imprese non assumono lavoratori solo perché viene abolito l’articolo 18, ma primariamente se ci sono i mercati per poter ampliare la base produttiva, quindi l’effetto espansivo del Jobs Act è una merafavola, come mostrano numerose ricerche sull’impatto della flessibilità lavorativa sulla crescita). Al secondo posto, come impatto, verrebbe la riforma della P.A. che però ha il piccolodifetto di non essere ancora attuata (e peraltro, la tenue speranza di chi scrive è che una simile riforma imbecille non venga attuata mai).

Evidentemente, quindi, poiché la manovra di stabilità per il 2016, al fine di scongiurare le clausole di salvaguardia (essenzialmente, per scongiurare il maxi-aumento dell’Iva, che sarebbe evidentemente la pietra tombale sulle già irreali aspettative di ripresa della domanda interna per consumi) dovrebbe poggiare per almeno 6,5 miliardi sul miglioramento atteso della crescita, è del tutto ovvio che, invece, possiamo aspettarci esattamente l’attivazione di tali clausole, con qualche mese di ritardo, quando la Commissione si sarà stancata del giochino delle tre carte che Renzi inscenerà, insieme ai suoi ciambellani.

Cosa succederà realmente nel 2016 e 2017 ? Succederà che il saldo primario (spese – entrate pubbliche al netto del pagamento degli interessi sul debito) dovrà,nel 2016, migliorare di circa 14 miliardi, rispetto ai 26 miliardi con cui si prevede di chiudere il 2015. Ciò si otterrà mediante un taglio delle spese per 4,1 miliardi, privatizzazioni di ciò che resta del patrimonio imprenditoriale pubblico per circa 8,2 miliardi,ed 1,8 miliardi di maggiori entrate. L’artifizio retorico di Renzi,per cui non vi saranno maggiori tasse, è smascherato dalla manovra che verrà fatta su deduzioni e detrazioni fiscali che, pur mantenendo formalmente inalterate le aliquote fiscali, aumenterà la pressione fiscale per riduzione dell’area dei benefici fiscali(producendo quindi, sul contribuente finale, lo stesso effetto di unaumento effettivo della tassazione). Si tratta cioè né più némeno che di una solenne presa in giro degli italiani, cui la comunicazione renziana ci ha abituati. Sul versante del taglio delle spese, esso sarà sostenuto mediante una nuova, ulteriore, tornata di spending review (che dovrà garantire ben 9,8 miliardi nel 2016, alfine di coprire l’aumento delle spese pubbliche di investimento ed altri aumenti di parte corrente), che sarà così concepita:

  • Per gli enti locali proseguirà il processo di efficientamento già avviato nella Legge di Stabilità 2015 attraverso l’utilizzo dei costi e fabbisogni standard per le singole amministrazioni e la pubblicazione di dati di performance e dei costi delle singole amministrazioni;
  • In tema di partecipate locali saranno attuati interventi di smantellamento (ai danni ovviamente del personale che ci lavora), con particolare attenzione ai settori del trasporto pubblico locale e alla raccolta rifiuti.
  • Numerose strutture periferiche dello Stato saranno chiuse, senza garanzie per il personale, come nel caso delle Province.
  • Immobili utilizzati dalle amministrazioni sanno venduti;
  • Sarà completato il processo di razionalizzazione delle stazioni appaltanti e delle centrali d’acquisto per gli acquisti della PA.

L’insieme di tale manovra sarà recessivo, e, in modo implicito, al di là delle facili ricamature comunicative, lo stesso DEF, nel differenziale fra PIL tendenziale e PIL programmatico, stima tale effetto in 0,3 punti diPIL persi per il 2016 come conseguenza della manovra di stabilità sopra descritta.

E ciò che è ancora più spaventoso è che tale scenario è il migliore possibile. E’infatti del tutto improbabile che la Commissione Europea faccia passare questa ipotesi, per la manovra di stabilità del 2016. Talei potesi, infatti, rinvia al 2017, anziché al 2016, come da impegni assunti, il pareggio strutturale di bilancio. E lo fa autoattribuendosi, del tutto arbitrariamente, la clausola diflessibilità per le riforme fatte e quelle previste nel PNR allegato1 ( sul quale occorrerebbe fare un approfondimento a parte). Ma non èaffatto detto che la Commissione accetti questa impostazione, e conceda effettivamente la flessibilità, anche perché è difficileche si approvi una manovra in cui il grosso è costituito da introitio risparmi di non immediata realizzabilità, come le privatizzazionie la spending review (che come visto in questi anni, comporta benefici diluiti nel tempo). E tra l’altro, la Commissione potrebbe non bersi le ottimistiche previsioni macroeconomiche del Governo (vedi sopra la discussione sulle previsioni). Abbassando l’asticella della crescita, l’entità della correzione di bilancio ovviamente cresce. Nell’ipotesi peggiore, in cui il pareggio di bilancio strutturale dovesse essere imposto per il 2016,infatti, la manovra dovrebbe portare ad un saldo primario di quasi 28 miliardi, in luogo dei 14 previsti, con una perdita di quasi un puntodi PIL.

(1) La clausola di flessibilità prevede infatti condizioni stringenti nella valutazione della fattibilità, efficacia di lungo periodo e rilevanza delle riforme proposte, prima di concedere il bonus.

P.S. sul cosiddetto “tesoretto” da 1,6 miliardi:in realtà, quella somma deriva dalladifferenza fra il deficit/PIL del quadro tendenziale (cioè delquadro delle finanze pubbliche in assenza degli interventi previstidal DEF), pari al 2,5%, e il rapporto che emerge dal quadro programmatico (cioè in presenza di interventi) pari al 2,6%. Queldecimale di differenza ammonta proprio a 1,6 miliardi, e secondo il Governo potrebbe essere concesso dai nuovi regolamenti Ue che interpretano la flessibilità dibilancio, in presenza di un output gap negativo e superiore a 3 punti(cioè in presenza di una crescita inferiore al potenziale massimo dicrescita, stimato mediante la quantificazione del PIL potenziale). Ma se la Commissione dovesse imporre un inasprimento della manovra per il 2016, anche questo tesoretto sparirebbe.

Riccardo Achilli