economia
Vittoria? di S. Bagnasco
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Considero positivo, nonostante le criticità, l’accordo raggiunto in Europa sul cosiddetto Recovery Fund, ma non trovo ci sia nulla da esultare, al punto di sproloquiare di vincitori.
Se ci sono dei vincitori vuol dire che ci sono degli sconfitti e questo in ogni caso non va bene in una comunità sovranazionale.
Più produttivo sarebbe tentare di comprendere in cosa consiste l’intervento europeo.
Nessuno ci regala 209 miliardi di euro; stiamo parlando sostanzialmente di debito che andrà restituito e in più sottoposto a condizioni e gradimento del Consiglio europeo.
Le condizioni poste coincidono con le raccomandazioni fatte all’Italia, che da tempo sono viste con sdegno da buona parte del mondo politico italiano, e con gli obiettivi che l’UE si è data (transizione verde e digitalizzazione).
Le raccomandazioni che ci riguardano direttamente sono: riforma del fisco, riforma del lavoro, riforma della giustizia, riduzione del debito e a questo scopo andranno indirizzate tutte le entrate straordinarie, taglio strutturale della spesa pubblica pari a 0,6% del PIL.
Ciascun Paese presenterà entro l’autunno un piano triennale (2021-2023) che, una volta approvato dalla Commissione e dal Consiglio europeo, diventerà esecutivo ma dovrà soddisfare i target intermedi e finali. Il Comitato economico e finanziario verificherà questi target e se in questa sede qualche Paese riterrà che ci siano problemi, potrà chiedere che il Consiglio europeo deliberi la sospensione dell’erogazione dei finanziamenti.
Il piano approvato consentirà di ricevere il 70% dei fondi nel biennio 2021-2022 e il 30% l’anno successivo. L’Italia, dunque, dovrebbe ricevere 146 miliardi nei prossimi due anni e 63 nel 2023, ma attenzione perché il piano è sottoposto a revisione nel 2022, prima della ripartizione della tranche relativa al 2023. Su questi fondi potremo ricevere una anticipazione pari al 10% già a fine anno, diversamente bisognerà attendere con molta probabilità la primavera 2021.
In confronto le condizioni per l’utilizzo del fondo Mes destinato alle spese sanitarie dirette e indirette sono una passeggiata in riva al mare.
Perché si esulta per un prestito condizionato che si chiama Recovery Fund e si ostinano a dire no al prestito immediatamente disponibile rappresentato dal fondo Mes per le spese sanitarie?
In definitiva, si tratta di prestiti con condizionalità minori con il fondo Mes, maggiori con il Recovery.
Quando qualcuno, a partire da Conte, spiegherà perché bisogna esultare per il condizionato prestito del Recovery e stare alla larga dal poco condizionato fondo Mes … allora si potrà cominciare a discutere seriamente, chiudendo la stagione dell’infantilismo politico.
Pioveranno sull’Italia 209 miliardi di euro di cui 81,4 a fondo perduto? Abbiamo vinto la lotteria?
Le cose non stanno esattamente in questi termini.
I cosiddetti aiuti a fondo perduto sono in realtà quasi tutti prestiti; perché questi fondi arrivano dall’emissione di bond da parte della Commissione europea che aumenterà il bilancio dell’Unione Europea messo a garanzia.
Ogni Paese contribuisce pro quota al bilancio dell’UE e con certezza al momento sappiamo che circa 55 miliardi di questi 81,4, erroneamente definiti a “fondo perduto”, dovranno essere restituiti a partire dal 2027. Tutti i prestiti dovranno essere in ogni caso restituiti entro il 2058.
In definitiva, di prestiti stiamo parlando e realisticamente non potrebbe essere diversamente poiché l’UE vive con le contribuzioni dei Paesi membri e se si finanzia sui mercati a sua volta deve rimborsare quanto raccolto.
La cosa vera d cui dovremmo esultare è che per la prima volta i Paesi UE hanno deciso di sottoscrivere un debito comune e abbiamo così l’opportunità di rimettere in piedi il Paese senza ricorrere direttamente ai mercati finanziari facendo lievitare i già stratosferici interessi.
Una opportunità che spetterà a noi saper cogliere.
A questo punto, due considerazioni dal mio punto di vista non secondarie.
Questa “vittoria” è stata comprata svincolando di fatto gli aiuti finanziari dal rispetto dello “stato di diritto” e dei principi fondativi dell’UE, con grande soddisfazione soprattutto di Ungheria e Polonia.
Con questo accordo è altamente probabile che il quantitative easing, di cui l’Italia è il primo beneficiario, non sarà rinnovato e questo deve indurci a grande cautela perché se non operiamo con equilibrio tra assistenza, rilancio dell’economia e risanamento della macchina statale, rischiamo di far schizzare lo spread e di conseguenza i tassi di interesse.
L’altro punto da tenere presente è che adesso in nome della pandemia è stato abbandonato il cosiddetto “capital key”, vale a dire la regola secondo cui la BCE può acquistare titoli dei paesi membri rispettando le quote di partecipazione di ogni Paese al capitale della BCE. Se dovesse essere ripristinato questo principio, l’Italia perderebbe un vantaggio di cui sinora ha goduto.
Si tenga infine presente che la contribuzione di ogni Paese alla BCE è in relazione a due parametri: popolazione e PIL. Anche il bilancio dell’UE è basato per il 70% sulle contribuzioni di ciascun paese con riferimento alla quota di PIL nazionale sulla somma dei PIL dei paesi membri.
Ne consegue che un cittadino lussemburghese contribuisce in misura doppia rispetto a un cittadino italiano; anche un cittadino olandese, finlandese e austriaco contribuisce più di un italiano. Quindi, finiamola di stupirci per la giusta attenzione che questi Paesi hanno per l’utilizzo dei soldi europei.
Abbiamo una grande opportunità, ma non parliamo di vittoria perché la partita deve ancora iniziare e la vera vittoria ci sarà quando ci metteremo alle spalle atavici comportamenti.
Non trasformiamo una non-vittoria in una vera e pesante sconfitta.
Sergio Bagnasco
Appunti per un dibattito più serio sul MES. di V. F. Russo
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Il MES (meccanismo per la stabilità dell’Eurozona, alias, fondo salva Stati) nasce nel 2010 come evoluzione della EFSF (strumento per la stabilità finanziaria europea) per offrire assistenza finanziaria sulla base di un emendamento all’art. 136 del TFUE (Trattato sul funzionamento dell’Unione europea). Questo dice che i Paesi membri PM dell’Eurozona “possono attivare il meccanismo se indispensabile per la salvaguardia della stabilità dell’eurozona nel suo insieme e che la necessaria assistenza finanziaria richiesta sarà assoggettata a precisa condizionalità”.
Chiariamo subito che la missione fondamentale del MES è garantire la stabilità finanziaria dell’area euro nel suo insieme e che stabilizzazione finanziaria non significa quella del ciclo economico che resta compito delle politiche economiche dei Paesi Membri (PM). La dotazione iniziale di risorse da prestare ai PM che lo richiedano fu fissata in 500 miliardi ed è stata incrementata successivamente.
L’art. 12 prevede le condizionalità che il MES può collegare alle due principali linee di credito attivabili su richiesta di un PM in difficoltà: a) le PCCL (Precautionary Conditioned Credit Line), che comportano una condizionalità attenuata; e linee di credito rafforzate, ECCL (Enhanced Conditions Credit Line), dove la condizionalità è relativamente maggiore ma sempre concordata nel Memorandum d’intesa.
L’art. 13 prevede i termini della condizionalità che sono concordati all’interno di un Memorandum di intesa tra il paese richiedente assistenza e il MES anche attraverso le c.d. Clausole di azione collettiva a suo tempo fissate dall’Eurogruppo il 28-11-2010. La procedura di richiesta di assistenza da parte degli PM scatta dopo che si sia accertata l’esistenza di un rischio per la stabilità dell’area euro o di uno o più PM. È prevista anche la possibilità di partecipazione del Fondo monetario internazionale FMI in ragione della sua storica esperienza in materia.
L’art. 14 prevede la precautionary financial assistance, ossia, l’assistenza finanziaria precauzionale tesa a prevenire le crisi che, se non affrontate tempestivamente, di norma, portano alla perdita dell’accesso ai mercati finanziari come è successo alla Grecia. Il programma di assistenza preventiva viene elaborato dal Consiglio e dal Direttore del MES sulla base di un Report preparato dalla Commissione europea. Dopo un primo utilizzo delle risorse (prestito oppure il ricavo di un acquisto di titoli del DP (debito pubblico) emessi dal PM richiedente nel mercato primario) il MES d’intesa con la Commissione europea e con la BCE decidono se la linea di credito aperta è sufficiente per continuare oppure se occorre attivare altri strumenti di assistenza finanziaria. Credo che anche da questa sintesi dell’art 14 emerge chiaramente come l’alternativa proposta da alcuni critici del MES (BCE si MES no) è mal posta e infondata. La BCE è comunque coinvolta. Il MES interviene con operazioni analoghe che fa la BCE. Ma c’è di più, senza un intervento preliminare del MES, la BCE non potrebbe attivare le Outright Monetary Transactions OMT che prevedono acquisti illimitati di titoli del debito pubblico di PM in difficoltà nonostante i primi interventi del MES. È coinvolta soprattutto la Commissione che è organo di governo che deve prevenire i rischi di crisi sistemiche della stabilità dell’Eurozona innescati da uno o più PM per motivi diversi, cause simmetriche e asimmetriche. Rebus sic stantibus, il rifiuto di avvalersi degli strumenti di assistenza del MES sarebbe un suicidio.
L’Art. 15 prevede l’utilizzo di linee di credito attivabili dal MES per la ricapitalizzazione di istituzioni finanziarie dei PM. Questi prestiti vengono concessi seguendo la stessa procedura riassunta nell’art. 14: Memorandum d’intesa tra MES e PM richiedenti a seguito di un Report della Commissione europea.
L’art. 16 è rubricato come prestiti (diretti) del MES ed è probabilmente l’articolo che i suoi contestatori hanno in mente quando attaccano questa istituzione. Non lo dicono perché molti di loro non hanno letto il Trattato e parlano per sentito dire. Ai sensi dell’art. 16 il MES offre i suoi prestiti in cambio di programmi di aggiustamenti macro-economici concordati nel Memorandum d’intesa definito anche questo sulla base di un Report della Commissione europea che, di noma, propone le famigerate riforme strutturali. È questa la odiata condizionalità che esponenti dell’opposizione non vogliono trascurando che squilibri macroeconomici nei conti pubblici, nella bilancia dei pagamenti, prima o poi, creano rischi di instabilità non solo per il paese che li ha causati o subiti ma anche per l’area euro nel suo insieme. Trascurando che nella Commissione e nello stesso Board del MES e della BCE ogni PM ha i suoi rappresentanti e che nel MES l’Italia, come la Francia e la Germania, ha potere di veto in ragione dell’entità della sua quota di partecipazione e del suo voto per i casi di particolare urgenza. Trascurando che in una istituzione sovranazionale e anche in uno Stato federale vero e proprio uno Stato federato non ottiene aiuti ad libitum senza alcuna condizionalità. Non pochi Italiani credono nelle favole e nella Fata Misericordiosa che li deve assistere comunque a prescindere da ogni valutazione di merito di credito. E’ noto che non pochi italiani sono creduloni e, per questo motivo, politici disinvolti dell’opposizione e anche del M5S hanno gioco facile a continuare ad ingannare i loro stessi elettori. Chiusa la parentesi, ribadisco che questa appena descritta è la missione fondamentale del MES: assistenza finanziaria ai PM dell’Eurozona aprendo linee di credito, acquistando titoli del debito pubblico emessi dai PM in difficoltà che ne fanno richiesta, offrendo direttamente prestiti ai sensi dell’art. 16 citato. Da ultimo il MES è stato autorizzato ad aprire una linea di credito per le spese sanitarie dirette ed indirette provocate dal Covid-19 ma per carità non solo l’opposizione ma neanche il governo vuole avvalersi di essa.
Come previsto dall’art. 21 del Trattato, il MES si procura la liquidità per svolgere la sua missione emettendo titoli da piazzare nei mercati finanziari, indebitandosi con banche, con istituzioni finanziarie o “con altre persone o istituzioni” – sì proprio così. Detto in altre parole, a ben riflettere il ruolo del MES è quello di un Ufficio del Tesoro e/o del debito pubblico che fa quello che attualmente non possono fare la Commissione europea e la BCE. Se questo è vero, è del tutto infondata la demonizzazione che del MES si è fatta in Italia. Di certo, porta lo stigma del caso Grecia ma pochi sanno o ricordano che a prescrivere quelle operazioni non era il solo MES. Dietro e sopra di esso c’era la Troika formata da delegati della BCE, FMI e CE. E sappiamo ancora chi c’era dietro e sopra la stessa Troika: il Consiglio europeo e l’Eurogruppo. E se l’Italia non avesse voluto il massacro della Grecia avrebbe potuto porre il veto. Ma non l’ha fatto.
Venendo brevemente alle questioni urgenti sul tavolo: come trovare le ingenti risorse per finanziare il rilancio della crescita che, in questa fase, si collega alla riconversione ecologica e alla digitalizzazione dell’economia, ai fabbisogni straordinari di finanziamento degli ammortizzatori sociali, allo sviluppo sostenibile, in sintesi, ai cosiddetti Recovery Bond ed ora anche ad un aggiuntivo e/o collaterale strumento di trasferimenti a fondo perduto, collegati al QFP (Quadro finanziario poliennale) non ancora approvato è stato posto e sollevato anche dalla Presidente della CE Ursula Von Der Leyen la questione di soluzioni ponte nel suo recente discorso davanti al PE. Se si dovesse prendere sul serio la proposta di una soluzione ponte non vedo altra soluzione “tempestiva” che l’utilizzo del MES che, nel giro di qualche mese, potrebbe essere autorizzato ad aprire nuove linee di credito previa emissione dei famigerati eurobond. Ogni altra soluzione rischia di slittare alla Primavera 2021 se non oltre.
Ancora non sappiamo cosa significhi esattamente l’aggancio del Recovery Fund al QFP (non un vero bilancio come a disposizione di ogni governo di un paese centralizzato o decentralizzato). Secondo me, non significa granché o meglio può significare che il servizio del debito pubblico emesso dal Fondo sarà finanziato con i contributi dei PM al QFP – ancora non approvato. La cosa non cambia radicalmente rispetto al modo in cui viene finanziato il MES. Agganciare l’emissione di eurobond alla contestuale costituzione di una capacità fiscale all’interno del bilancio come alcuni propongono è proposta fumosa per due motivi principali: 1) richiede tempi lunghi per raggiungere un accordo tra i PM pur in presenza di elaborate proposte di diversa consistenza e provenienza; 2) perché data l’entità delle risorse necessarie per la grande trasformazione e per uscire dalla recessione servono alcune migliaia di miliardi di euro e non vedo tributi propri che possano finanziare un tale livello di spesa pubblica. Ragionevolmente possono finanziare il servizio del nuovo debito pubblico da emettere. Ma data la natura delle spese da fare (a media e lunga produttività) è scelta obbligata ed equa ricorrere alla emissione di debito pubblico.
Ho spiegato in miei interventi precedenti che per come è finanziato il QFP non c’è solidarietà se non in termini minimi in relazioni ai fondi strutturali, regionali e in generale di coesione. Infatti, il QFP è costruito con il metodo dei saldi netti: ognuno contribuisce in base al PIL; poi cerca di riprendersi il massimo possibile riducendo la contribuzione netta. anche questa è concorrenza fiscale al ribasso.
L’altro modello, in una necessitata fase transitoria, è e resta quello del MES questo costruito sulla base del modello BCE; qual è allora la differenza? Agganciando il Recovery Fund al QFP avremmo un modello generale analogo a quello della BCE per interventi su shock simmetrici e asimmetrici; il MES resterebbe uno strumento speciale complementare e integrativo per correggere o combattere shock asimmetrici riguardanti uno o più PM con squilibri particolari sui conti pubblici, sul debito, nella sanità pubblica, ecc.
In Italia il MES è stato demonizzato dallo stesso governo Conte per via del dissenso interno alla stessa maggioranza di governo che ripetutamente ha dichiarato che non si avvarrà dei finanziamenti che potrebbe ricevere per le spese sanitarie dirette e indirette che ha dovuto effettuare a causa del Covid-19. Raffinati giuristi mettono in evidenza che la Commissione e la BCE sono istituzioni europee previste dai Trattati e quindi di diritto comunitario mentre il MES è una istituzione creata con un Trattato intergovernativo e quindi di diritto internazionale. Come economista osservo che gli obiettivi di politica economica perseguiti sono gli stessi anche il MES è istituzione europea in ragione della missione che gli è stata affidata. E questa può riassumersi nel coordinamento delle politiche economiche e finanziarie che la Commissione non riesce a conseguire nonostante le norme del Patto di stabilità e crescita, del semestre europeo, del MES e quelle del Fiscal Compact di cui, a suo tempo, si è detto e scritto di peggio rispetto al MES.
Nella teoria della politica economica si sono sempre contrapposte due visioni di condotta pratica della stessa: regole o discrezionalità. I paesi egemoni dell’UE che non si fidano degli altri né di loro stessi hanno scelto di sviluppare le regolamentazioni più particolareggiate ma si scontrano con quelli che prendono sottogamba dette regole. Secondo studi e ricerche del FMI le regole elaborate direttamente nei Trattati e negli annessi regolamenti, direttive e raccomandazioni sono state sempre ampiamente violate e/o ignorate. Nel frattempo per via della globalizzazione e della piena libertà dei movimenti di capitale si sono sviluppate le società di rating che guidano gli investitori internazionali e valutano le prospettive di crescita dei vari paesi del mondo. In altre parole, si è sviluppata una certa funzione di monitoraggio (secondo alcuni di disciplina) dei mercati che, in qualche caso, essa è stata utilizzata a fini di lucro. Nella UE, alcuni governi egemoni hanno ammonito i PM poco propensi al rispetto delle regole concordate minacciando di lasciarli in preda a detta “disciplina dei mercati” ma neanche questa ha funzionato secondo le aspettative. La mia valutazione è che non è possibile elaborare regole scritte casistiche che prevedano tutti gli eventi futuri. Pochi avevano previsto l’arrivo della crisi dei mutui subprime e il suo diffondersi a livello mondiale nel 2008. Nessuno ha previsto l’arrivo del Covid-19. Il senno di poi ci conferma che l’UE ha affrontato male e tardi la prima crisi. Adesso sta rispondendo meglio e più rapidamente alla Pandemia e alla recessione ma resta il fatto che l’assetto istituzionale e gli strumenti a disposizione sono inadeguati. Non abbiamo l’Unione bancaria, meno che mai un mercato unico dei capitali, non abbiamo un vero e proprio governo al centro in grado di svolgere una politica economica ad un tempo unitaria e debitamente articolata a livello continentale. Abbiamo un Parlamento europeo senza il potere sovrano di istituire tributi propri. Abbiamo al vertice un Consiglio europeo giano bifronte più attento agli interessi nazionali che a quelli europei. Va sostituito con un Senato federale eletto direttamente dai cittadini europei. Anche i nuovi strumenti che sono stati proposti recentemente che segnano una significativa svolta nella direzione giusta restano insufficienti rispetto alla dimensione e complessità dei problemi da affrontare. PQM è urgente abbandonare la prevista Conferenza e riaprire il cantiere delle riforme istituzionali per passare ad un assetto di stampo più genuinamente federale. L’unica istituzione che può aprire una tale fase costituente è il Parlamento europeo. Ma sarà in grado di farlo?
Vincenzo F. Russo
Tratto dal Blog personale dell’autore al link: http://enzorusso.blog/2020/05/25/appunti-per-un-dibattito-piu-serio-sul-mes/
Il paradosso di Keynes. di A. Angeli
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Non siamo ancora alla catastrofe, e tuttavia i segnali sono evidenti e incontrovertibili. Tutti gli indici economici sono al negativo e sicuramente nella immediata prospettiva, senza l’aiuto dell’Europa, con la quale dobbiamo trattare e concludere un accordo, ci troveremmo al default economico e sociale e nel breve volgere di tempo, costretti ad accettare un’austerity pesantissima o usciere dall’Europa, con tutte le immaginabili conseguenze sociali alle quali seguirebbero sicuramente ricadute sulla tenuta democratica del paese. Due dati: quello della disoccupazione e a seguire della domanda aggregata, scandiscono il tempo di questa crisi alla quale il governo può sopperire indebitandosi oltre ogni immaginazione, senza indugiare su MES si o MES no, una volta accertata la caduta di ogni condizionalità. D’altro canto, la crisi epidemica ha scansioni temporali di diffusione non coincidenti con le necessità del paese di riavviare la macchina produttiva, e l’esperienza vissuta in questi sessanta giorni di lockdown ha spinto il paese ad adottare difese che hanno inciso fortemente su tutti i settori della produzione e quindi nella formazione della ricchezza.
Tuttavia, ora si tratta di ripartire e puntare alla ripresa, allo sviluppo della produzione e alla creazione della ricchezza, dentro un disegno e un progetto di sviluppo che porti il paese nella modernità, nella green economy, nella digitalizzazione, nei nuovi processi informatizzati, insomma nella società dei Big data. Le condizioni ci sono tutte. Infatti, una volta superata l’epidemia, sarà come se il paese dovesse ripartire da zero. Spetta quindi al governo dimostrare intelligenza e lungimiranza, proprio ora che l’Europa ha accantonato molti vincoli, deliberato sostegni finanziari di diverso tipo e natura, e sembra orienta ad adottare i recovey bond, dopo che sarà costituito il recovey fund; spetta, quindi, al governo e alle forze di maggioranza dare prova di volontà, di lucidità, di coerenza.
Tuttavia non dobbiamo nasconderci che ci sono ostacoli non indifferenti a trovare tutte le risorse necessarie, questo perché il governo non ha messo a punto alcun progetto sia per la parte che riguarda la linea di sviluppo che intende seguire per la difesa delle aziende fondamentali e delicate per lo sviluppo del paese, che per quantificare lo stock di risorse finanziarie delle quali indicare presuntivamente il fabbisogno al fine di costruire un quadro macroeconomico affidabile e perseguibile. Nel frattempo ci sarà l’imperativo categorico del lavoro che manca e della necessaria riorganizzazione del welfare, puntando convintamente al superamento della povertà, della precarietà, del lavoro nero o sottopagato, anche inventando un nuovo sistema di redistribuzione della ricchezza. Magari anche rivedendo gli astrusi strumenti finora messi in campo ( quota cento, reddito cittadinanza, e tanto altro ) senza un significativo ritorno di risultati sul fronte del lavoro e della diminuzione della povertà. Certo, questa non è la classica congiuntura economica, che si caratterizza per mancanza d’investimenti e disoccupazione. E’ qualcosa di più e, per l’ordine di grandezza del disastro economico, è di più difficile.
Per questo un breve richiamo a Keynes, il quale aveva ben presente che, in antitesi a quanto ritenuto dai teorici a lui precedenti, la situazione d’insufficienza della domanda è un duraturo fenomeno di squilibrio tra risparmi e investimenti (pensiamo alle enormi disparità di reddito e all’abbondanza di ricchezza privata, pari questa a quattro volte il debito pubblico). Nella Teoria generale del 1936, scriveva: Se il Tesoro si mettesse a riempire di biglietti di banca vecchie bottiglie, le sotterrasse ad una profondità adatta in miniere di carbone abbandonate, e queste fossero riempite poi fino alla superficie con i rifiuti della città, e si lasciasse all’iniziativa privata… di scavar fuori di nuovo i biglietti…, non dovrebbe più esistere disoccupazione e, tenendo conto degli effetti secondari, il reddito reale e anche la ricchezza in capitale della collettività diverrebbero probabilmente assai maggiori di quanto sono attualmente”. Insomma, anche scavare buche, per poi riempirle, potrebbe essere di stimolo alla ripresa. Uscendo dalla metafora, si pensi alle difficoltà per la nostra agricoltura, la quale presto si troverà a fare i conti con la mancanza di manodopera per provvedere ai raccolti; si pensi alla formazione dei lavoratori, alla quale il paese dovrà ricorre nel breve tempo e che sarà giocoforza determinata dalla fase post covid19: trasporti, scuola, luoghi di lavoro, servizi, commercio, industrie, poiché il nuovo paradigma del lavoro sarà il distanziamento, la protezione, la salvaguardia della salute. E ciò comporterà una rivalutazione delle condizioni di lavoro e degli stessi processi, delle stesse procedure, del modello organizzativo. Ecco, scavare buche per poi riempirle ci serve per capire che nessuno deve essere di peso, che il momento nel quale tutti siamo chiamati a dare il nostro contributo e a fare la nostra parte è ora. Altrimenti, nella buca, ci cadremo tutti.
Alberto Angeli
Anche i call center nella terra di nessuno. di G. Sbordoni
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Eccola, un’altra storia dalla terra di nessuno. All’orizzonte c’è la trincea del Coronavirus e fa davvero paura. La vediamo dalla nostra trincea, scavata tra il divano e la cucina. In mezzo c’è quella striscia, totalmente esposta al nemico, e persino al fuoco amico. Il virus famelico è pronto ad aggredirla, i decreti del governo, almeno fino a questa mattina, hanno deciso di sacrificarla. È la terra degli operai, che ieri hanno protestato e scioperato dappertutto. È quella di altre categorie escluse dall’ultimo decreto, pur se il loro lavoro non salva vite e non è fondamentale per la sopravvivenza della comunità. Carne da macello ripetevano indignati in molti ieri, mentre incrociavano le braccia davanti alle fabbriche.
Nel caso degli operatori di call center, carne da macello completamente disarmata. Nella storia che stiamo per raccontarvi, infatti, non trovano posto i simboli per eccellenza della lotta al Covid-19: la mascherina, il metro di distanza e il lavaggio frequente delle mani. La prima, per chi lavora al telefono, potete immaginarlo, è di fatto impossibile da indossare. Il secondo, fino a pochi giorni fa, non era stato concesso e i lavoratori continuavano a darsi da fare spalla a spalla, a decine nello stesso open space. Il terzo, considerando i ritmi serrati (tre pause in otto ore) è di fatto un’utopia.
E allora seguite il filo del racconto, anche se non è facile dipanarlo, perché chi ha deciso di portarlo alla nostra attenzione, persino in questi tempi bui di emergenza globale in cui tutti temiamo di ammalarci gravemente, rischia ritorsioni e ha chiesto di restare anonimo e che non venisse citato il nome dell’azienda. Siamo al Nord, dove da tempo hanno familiarizzato con il concetto di zona rossa. Eppure, in questo grande call center ancora ieri mattina tutto continuava come niente fosse o quasi.
La prima frase dell’intervista telefonica, per noi che siamo responsabilmente chiusi in casa, è tutta un programma: “Tra un po’ mi devo preparare per andare al lavoro”. Ma che cosa fai esattamente? “Customer care per i clienti di un’azienda di telefonia. In sintesi, rispondo a domande tipo: quando finisce la mia promozione? Quanto credito ho? Quanti giga mi rimangono? Dovrei ricaricare”. Non salvano vite umane, insomma. Cerchiamo, tuttavia, di restare neutri, di capire anche che milioni di italiani chiusi in casa possano aver bisogno ancor di più di un servizio di assistenza di questo genere. Ma non potete, almeno voi, lavorare da casa, almeno in questa emergenza? “Assolutamente sì, basta un pc, non abbiamo bisogno di particolari attrezzature”. E allora che cosa ci fate ancora al lavoro? “Non riesco a capirlo. L’azienda aveva millantato responsabilità sociale in pubblico, annunciando l’intenzione di metterci in telelavoro. Peccato che il giorno dopo tale annuncio ci hanno chiamato in piccoli gruppi, insieme con i team leader, per chiederci di tenere duro, perché siamo un’azienda di servizi e dobbiamo restare sul posto”.
Ma qualche regola, a voi avanguardia del contagio, ve l’avranno pur data. “Fino alla settimana scorsa eravamo seduti uno accanto all’altro in open space. Soltanto quando l’allarme è salito di livello, hanno imposto il distanziamento di un metro”. E i dispositivi di protezione individuale? “La mascherina, lavorando al telefono, è impraticabile. I guanti se li è portati chi ci ha pensato. A un certo punto, però, hanno munito ogni postazione di carta assorbente e gel igienizzante: quando arrivavi dovevi disinfettare gli strumenti”. Tutto qui? “Ci hanno detto di lavarci spesso le mani”. E lo hai potuto fare, considerando la fama dei vostri ritmi? “Io sono full time, 8 ore. Faccio 15 minuti di pausa dopo due ore, poi, dopo altre due ore la pausa pranzo, poi, dopo altre due ore, altri 15 minuti di pausa”. Quindi al massimo te le puoi lavare tre volte, le mani. Ti posso chiedere quanto guadagnate? “I full time, 1.200 euro. I part time a 30 ore, circa 1.000”. Perché hai deciso di raccontarcelo? “Volevo che venisse fuori il modo in cui ci trattano. Ma temo che se mi scoprono me la facciano pagare, negandomi ferie o permessi o peggio”.
Nel pomeriggio il nostro testimone ci ha detto che l’azienda ha deciso, finalmente, di attivare lo smart working. Con un ritardo inaccettabile, che potrebbe costar caro in termini di contagiati, in un territorio come quello del Nord Italia, in cui le strutture ospedaliere sono al collasso e i posti liberi in terapia intensiva ridotti all’osso. Anche in questa triste storia del Coronavirus, il filo rosso della condotta padronale resta il massimo ribasso, in termini di spesa, di diritti, di salute e sicurezza, di considerazione per il lavoratore. Che continua a strisciare nel pantano della terra di nessuno, lasciato senza riparo da questo capitalismo disumano.
Giorgio Sbordoni
Tratto dal sito rassegna.it al link https://www.rassegna.it/articoli/anche-i-call-center-nella-terra-di-nessuno
Il modello cinese. di S. Bagnasco
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Oggi, in tanti considerano il “modello cinese” come vincente per affrontare l’emergenza sanitaria.
Fino a poche settimane fa, la Cina era un lontano paese asiatico saldamente ancorato agli stereotipi di noi europei che non sappiamo guardare alle trasformazioni della Cina avvenute in soli sette decenni.
Poche settimane fa consideravamo il COVID19, come adesso lo chiamiamo perché “coronavirus” sa poco di scientifico, un problema cinese e del lontano mondo asiatico dove si mangiano topi vivi e vi invito a non considerarla una battuta da uno Zaia qualsiasi, perché riflette un diffuso atteggiamento mentale.
Sia come sia, la Cina è passata in sette decenni dalla fame e da un’aspettativa di vita intorno ai 40 anni ai 76 attuali; oggi la Cina è il secondo Paese per PIL al mondo e sta combattendo una battaglia formidabile per salire la classifica del PIL pro capite, dove occupa tuttora l’85° posto.
Ma cos’è il modello cinese?
E’ la capacità di costruire in pochi giorni un ospedale? E’ la capacità di prendere decisioni rigorose in poco tempo? NO! Tutto ciò è il prodotto del modello cinese, non è il modello cinese. Il modello cinese si basa su un’economia pianificata, su un forte controllo sociale, su una formidabile attualizzazione dell’antico mercantilismo cinese che porta la Cina a essere protagonista di un sistema di “cooperazione” in Africa (di cui il mondo si disinteressa, nonostante gli evidenti aspetti negativi di questa moderna colonizzazione), a modellare una nuova geopolitica mondiale con la Via della Seta, a essere protagonista nelle politiche spaziali internazionali sbarcando non sulla luna ma sulla “faccia nascosta” della luna, quella che non vediamo mai.
E’ da qui che deve partire il confronto tra modelli.
La Cina, a differenza dell’Occidente, vale a dire di USA, Canada, UK e UE, può prendere decisioni importanti e drastiche senza scatenare il panico nei mercati e senza scatenare la guerra tra fazioni politiche sull’entità degli interventi economici, sugli scenari recessivi, sulle responsabilità dell’UE, su aperte e violente critiche nei confronti di Lagarde, Macron, Boris Johnson, Trump …
Inutile guardare al “modello cinese” se ci tappiamo gli occhi per non vedere le differenze tra Europa e Cina. Differenze che mai ci consentiranno di adottare il modello cinese.
Allora? Allora serve intelligenza e orgoglio per la nostra storia e le nostre specificità.
Il nostro modello dovrebbe farci comprendere che quando siamo sereni e ci dedichiamo agli apericena … dovremmo approntare protocolli e piani minuziosi per affrontare le emergenze sanitarie … che non esistono giacché sappiamo che arriveranno, mentre ignoriamo quando arriveranno e che sembianze avranno, ma possiamo intuire le criticità che possono determinare agli organi vitali. Se avessimo questi piani e la popolazione fosse educata a queste emergenze, come dovrebbe avvenire per gli incendi, le catastrofi naturali, gli incidenti nucleari, i disastri chimici … allora ci sottrarremmo alle polemiche politiche, agli indugi per paura di perdere il consenso, alla stupida mediazione tra posizioni politiche … come se l’emergenza sanitaria fosse una causa civile.
Noi abbiamo strumenti e mezzi di gran lunga superiori a quelli cinesi, ma non ne siamo consapevoli perché disprezziamo la grandezza delle nostre malconce democrazie, che affossiamo invece di solidificarle.
Il modello italiano e europeo ha potenzialità formidabili: spetta a noi decidere di attuarle … e per farlo dobbiamo pensarci in tempi di bonaccia.
In Europa abbiamo una diffusa cultura solidaristica, estranea alla cultura americana, questo ci offre condizioni di partenza ottimali per attrezzarci per tempo a fronteggiare le emergenze sanitarie.
Saremo capaci di comprenderlo? Impareremo qualcosa da questa situazione che viviamo con apprensione o ci limiteremo a un brindisi e a una collettivo “l’abbiamo sfangata anche questa volta”?
La decisione spetta a noi.
Sergio Bagnasco
Dalla peste di Camus al 2020. di A. Angeli
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“Orano un giorno d’aprile 194.., il medico Rieux scopre il cadavere di un ratto sul suo pianerottolo. Il portinaio, il signor Michel, pensa che siano dei burloni che si divertono a mettere questi cadaveri di ratti all’interno dell’edificio……” E’ questo l’inizio del romanzo La Peste di Camus scritto tra il 46 e il 47, un successo letterario, una tragedia descritta in 5 atti e che ha inizio nel 194.. nella città di Orano, che “volge le spalle al mare”. Alcuni giorni più tardi, un’agenzia di stampa annuncia che più di sei mila ratti sono stati raccolti quel giorno. L’allarme aumenta, alcune persone iniziano a prendersela col sindaco. Quando, improvvisamente, il numero di cadaveri diminuisce, le strade tornano pulite, la città si crede salva. Il Signor Michel, il portinaio, cade però malato. Rieux tenta di curarlo, ma la malattia peggiora rapidamente. Rieux non può fare nulla per salvarlo. Nel leggere i 5 atti il lettore capirà come la peste raccontata da Camus non è una malattia, ma la malattia dell’umanità, una terribile sciagura imprevedibile e spietata, Così come lo è stata la seconda guerra mondiale, con quanto di particolarmente orribile l’ha accompagnata. Alla fine del racconto, quando la peste era finita e il terrore scomparso, allora le coppie separate dalla quanrantena e quanti obbligati a rinchiudersi per nascondersi al contagio si ritrovarono, e povere di parole, affermavano in mezzo al tumulto, con gioia e una esagerata felicità, che la peste era finita e che il panico aveva fatto il suo tempo. Negavano [i sopravvissuti ] tranquillamente e contro ogni evidenza che noi avessimo mai conosciuto un mondo insensato, in cui l’uccisione d’un uomo era quotidiana (…) negavano insomma che noi eravamo stati un popolo stordito, di cui tutti i giorni una parte, stipata nella bocca di un forno, evaporava in fumi grassi, mentre l’altra, carica delle catene dell’impotenza e della paura, aspettava il suo turno.” La metafora che Camus ci consegna è quella della guerra dell’anno 194.. in cui si svolsero i fatti, ma nello stesso tempo evidenzia i tipi con la loro leggerezza e inclinazione alla speculazione, quelli che ne approfittano per arricchirsi, quelli che accettano con fede ipocrita la peste, quelli che tentano di fuggire, ma poi ragionano e si sentono coinvolti nella lotta. Resta la morte, anche quando l’epidemia è finita e i parenti e gli amici si ritrovano; “tutti sanno però che il microbo della peste non muore mai” allora Camus lascia che il narratore affermi: “e può restare dormiente per decenni, ma non scompare”: ( la guerra potrà tornare, il senso della metafora ).
Rileggere la Peste di Camus è un ottimo esercizio mentale con il quale valutare serietà e razionalità di chi ha la responsabilità istituzionale e politica di assolvere ad un compito, delicato e difficile, quale quello di difendere la salute e la vita dei cittadini, i quali si aspettano un comportamento come il medico Reiux che, coinvolgendo le autorità, ottiene di chiudere la città, dopo che le stesse hanno considerato la gravità dell’epidemia in corso. Anno 2020, fine febbraio, la nuova peste del secolo ha il nome Covid 19, coronavirus, e per l’OMS è emergenza sanitaria globale, con la Cina punto focale dell’epidemia. Il mondo si trova quindi a dover fronteggiare l’evoluzione dell’infezione, per cui ognuno di noi, benchè preoccupato, confida e affida la propria fiducia alla capacità dei propri governanti di organizzare rapidamente una risposta efficace e complessiva. Mentre lo spettacolo che ci viene proposto è una risposta disordinata, fino al punto che ogni Paese improvvisa provvedimenti in totale disarmonia con i vicini, ritenendo di poter fronteggiare il flagello epidemico chiudendo i propri confini, ricorrendo all’isolamento, anzichè organizzare le necessarie difese per combattere e debellare il virus rispettando le indicazioni degli scienziati. Cosi la responsabilità politica, che pertiene alle istituzioni e ai politici, ha preso la forma di una nuova guerra tribale, nella quale corriamo il rischio di bruciare il patrimonio di civiltà conquistata dopo la seconda guerra mondiale.
L’altro rischio virale, che il mondo sta correndo, è il crollo dell’economia, i cui segnali ci sono dati dall’andamento delle borse, sempre in calo, comprovando una evidente sensibilità dall’andamento crescente dell’epidemia globale anche a causa della tipologia delle risposte: interruzione dei rapporti economici, commerciali, di mobilità delle merci, finanziari, che i paesi infettati mano a mano adottano in un crescendo distruttivo della produzione e della ricchezza. Certo, qui il ruolo dell’ONU, del FMI, dell’Europa, della BCE, è al momento totalmente assente o, almeno, impercettibile. E queste assenze pesano sull’economia, sulla produzione, sul lavoro, sui redditi delle famiglie. Sono queste attenzioni, che il cittadino richiede, rivendica, e si aspetta. Chiunque, di buon senso, avverte in primis il dovere di combattere l’infezione, ma non ignora che la lotta contro l’epidemia deve e può essere condotta anche difendendo i posti di lavoro, la mobilità, la sicurezza degli scambi e soprattutto i redditi dei lavoratori e dei pensionati. E l’Italia? L’emergenza epidemica si combina con quella economica, con gravi ripercussioni generali: crisi del turismo, chiusura delle scuole e delle università, dei servizi e del terziario, dei trasporti terrestri e aerei, isolamento di intere aree del paese e chiusura delle frontiere adottata e imposta da numerosi Paesi. Tutto questo non è avvenuto per caso. E’ giusto riconoscerlo, a inizio crisi c’è stato un surplus di notizie da parte del Governo, ma la stampa e i media hanno strabordato e concorso a determinare panico e paura, incrementando una psicosi suicida che, meno male, lentamente sta rientrando. Ma il più spregiudicato è stato il comportamento della Lega e del suo segretario, il quale continua nella sua inqualificabile azione distruttiva di ogni razionalità, coerenza, rettitudine e responsabilità al solo scopo di portare all’incasso il sogno di un governo autoritario e sovranista. Dobbiamo confidare che il governo resista al difficile momento e che i provvedimenti che si accinge a deliberare vadano nella direzione di un sostegno all’economia, al lavoro, al reddito, cogliendo il momento sicuramente serio per disegnare un diverso modello di sviluppo verso cui indirizzare i provvedimenti, affinchè una volta pacatasi la violenza dell’epidemia, il paese possa continuare nel cammino per approdare a un modello di società aperta, solidale ed egualitaria.
Alberto Angeli
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