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Il 1° Maggio 1947, nel racconto di Serafino Petta, ultimo sopravvissuto alla strage di Portella della Ginestra

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Portella della Ginestra

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Due giorni fa, al “Giornale di Sicilia”, l’ultimo sopravvissuto all’eccidio dei lavoratori avvenuto a Portella della Ginestra il 1° Maggio 1947 ha lasciato la sua testimonianza importante, che vogliamo ricordare anche noi per capire il valore del 1° Maggio che quest’anno CGIL, CISL e UIL hanno deciso di festeggiare uniti proprio in quella località, per non dimenticare. Questo il suo racconto:

“Ci eravamo dati appuntamento per festeggiare il Primo maggio ma anche l’avanzata della sinistra all’ultima tornata elettorale e per manifestare contro il latifondismo. Non era neanche arrivato l’oratore quando sentimmo degli spari”, racconta settant’anni dopo ancora commosso Serafino Pett, l’ultimo sopravvissuto alla strage di contadini di Portella della Ginestra, che fece 12 morti e 27 feriti.

“Avevo 16 anni, pensavo che fossero i petardi della festa, ma alla seconda raffica ho capito – continua -. Ho cominciato a cercare mio padre, non l’ho trovato. Quello che ho visto sono i corpi distesi per terra. I primi due erano di donne: la prima morta, sua figlia incinta ferita. Questa scena ce l’ho ancora oggi negli occhi, non la posso dimenticare”.

“A sparare fu la banda di Salvatore Giuliano, i mandanti non si conoscono ancora ma ad armare la sua mano furono la mafia, i politici e i grandi feudatari – spiega Petta -. Volevano farci abbassare la testa perché lottavamo contro un sistema in cui poche persone possedevano migliaia di ettari di terra e vi facevano pascolare le pecore, mentre i contadini facevano la fame”.

“Un mese dopo successe però una cosa importante – dice con orgoglio – Tornammo qua a commemorare i morti senza paura, “Non ci fermerete”, gridavamo tutti e non ci hanno fermati. Abbiamo cominciato la lotta per la riforma agraria e nel ’52 abbiamo ottenuto 150 assegnatari di piccoli lotti. Ma neanche loro si sono fermati, e a giugno bruciarono sedi di Cgil e partito comunista, poi nel mirino finirono anche i sindacalisti”.

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La fonte di questo articolo è consultabile al link  http://palermo.gds.it/2017/04/30/portella-della-ginestra-la-strage-negli-occhi-dellultimo-sopravvissuto-ora-la-mafia-e-nei-palazzi_659736/

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Su Antonio Gramsci: i “Quaderni dal carcere”, libro 5, “Letteratura e vita nazionale”, di A. Angeli

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Alberto Angeli 2

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Note informative:

Il corposo lavoro di Antonio Granisci sulla letteratura venne pubblicato nel lontano 1947 e riguardava, per la maggior parte, la Letteratura e la vita nazionale. I Suoi lavori suscitarono un grande interesse e ammirazione, anche per la considerazione che si trattava di un l’intellettuale comunista, che morì nel 1937 dopo aver passato 11 anni nelle carceri fasciste. E tuttavia, non mancarono giudizi contrastanti sul valore culturale del lavoro Gramsciano. Infatti, non pochi critici ritennero come queste note potessero formare la base per una vera e propria estetica marxista; altri, riconobbero che vi erano degli elementi interessanti per una sociologia della letteratura. Alcuni opinionisti vollero invece evidenziare come il metodo Gramsciano, di trattare i problemi estetici in senso stretto, si avvicinasse a quello tradizionale del Croce. Altri intellettuali, dopo il presunto fallimento del neorealismo, ( del quale consideravano Gramsci una specie di teorico e animatore) sostenevano, riposando il loro giudizio su un concetto più politico che letterario, che lo scopo precipuo delle note Gramsciane, era quello di privilegiare una letteratura populista a sostegno di un movimento democratico-riformista.

La diversità dei giudizi verso l’opera del Gramsci riposa su una incompleta e talvolta poco attenta considerazione del pensiero Gramsciano, così come ci è stato trasmesso senza valutare la difficoltà delle condizioni generali in cui l’opera dell’autore è stata scritta. Gramsci fu arrestato nel novembre del 1926 e condannato nel giugno del 1928, a vent’anni di carcere per «impedire a questo cervello di funzionare» . Sono queste le parole testuali del pubblico ministero. Soltanto nel febbraio del 1929, dopo diversi tentativi, gli fu dato il permesso di prendere appunti di quanto gli veniva concesso di leggere, un evento , comunque, che gli diede finalmente la possibilità di realizzare il suo piano di studio, come risulta già nel marzo del 1927 da una lettera inviata alla cognata:

Sono quattro soggetti presi in esame : A) una ricerca sulla formazione dello spirito pubblico in Italia nel XX secolo, cioè una ricerca sugli intellettuali italiani, le loro tendenze culturali e politiche, le affinità e le adesioni a gruppi di interesse secondo le correnti della cultura. Ancora: il pensiero prevalente e le modalità di rappresentarlo. B). Uno studio sulla linguistica comparata, ovvero, limitatamente alla parte metodologica e puramente teorica dell’argomento. C). Uno studio del teatro di Pirandello e delle sue commedie, senza trascurare il fenomeno inerente alla trasformazione del gusto teatrale italiano, come capacemente Pirandello ha saputo rappresentare e ha contribuito a determinare. D). Un saggio sui romanzi d’appendice e il gusto popolare italico in letteratura.

Una premessa: i quaderni raggiunsero il numero di 32 con 2.848 pagine, poi pubblicati in sei volumi, col titolo complessivo di Quaderni del carcere. Devo ricordare al proposito che c’’ è uno schema, che oltre agli argomenti nominati nella lettera alla cognata, specificamente comprende : Cavalcante Cavalcanti, ovvero la sua posizione nella struttura e nell’arte della Divina Commedia; e la questione della lingua in Italia: Manzoni e G. I. Ascoli.

Bisogna evidenziare che a causa delle disastrose condizioni di salute, della lentezza e irregolarità con le quali riceveva i libri e le pubblicazioni segnalate ai parenti, quando non gli venivano negati, le annotazioni di Gramsci si limitano ad essere degli appunti o richiami sparsi nei diversi quaderni; oppure semplici spunti, per una ulteriore elaborazione e sistemazione in quanto non destinati alla pubblicazione. Peraltro, si deve tener presente che questi appunti vennero pubblicati dopo 15 o 25 anni e che i suoi articoli, scritti dal 1915 al 1926, su riviste e giornali, che in parte integrano i Quaderni del carcere, furono pubblicati (in cinque volumi) dal 1954 al 1971 e cioè addirittura 40, 50 anni dopo.

L’incipit sulla letteratura e vita nazionale si apre con le famose frasi :

Cosa significa e cosa può e dovrebbe significare la parola d’ordine di Giovanni Gentile: «Torniamo al De Sanctis»? Significa «tornare» meccanicamente ai concetti che il De Sanctis svolse intorno all’arte e alla letteratura, o significa? assumere verso l’arte e la vita un atteggiamento simile a quello assunto dal De Sanctis ai suoi tempi

Per Gramsci significa che bisogna assumere questo atteggiamento e vedere in quale nuovo contesto letterario-culturale-politico inserirlo. A seguito di questa procedura acquisitiva, del contenuto e del testo, secondo Gramsci due scrittori possono rappresentare (ovvero esprimere) lo stesso momento storico-sociale, ma uno può essere espressivamente artista, mentre l’altro, per incompletezza, trasformarsi in un semplice untorello. Per questa ragione, secondo Gramsci, sfumare la questione, limitandosi a descrivere ciò che i due tipi di espressione culturale rappresentano o esprimono socialmente, cioè riassumono in termini grammaticali e disciplinari, più o meno bene, le caratteristiche di un determinato momento storico-sociale, significa non sfiorare neppure il problema; e questo perché: «Un determinato momento storico non è mai omogeneo, anzi è ricco di contraddizioni». Ma ciò presuppone che si instauri una lotta, e allora “è rappresentativo del ‘momento anche chi ne esprime gli elementi ‘reazionari’ e anacronistici”, ma soprattutto: “chi esprimerà tutte le forze e gli elementi in contrasto e in lotta, cioè chi rappresenta le contraddizioni dell’insieme storico-sociale”.

Riprendendo da dove abbiamo concluso la prima parte, relativamente alla domanda che Gramsci si pone in merito alla parola d’ordine del Gentile:

Cosa significa e cosa può e dovrebbe significare la parola d’ordine di Giovanni Gentile: «Torniamo al De Sanctis»? Significa «tornare» meccanicamente ai concetti che il De Sanctis svolse intorno all’arte e alla letteratura, o significa? assumere verso l’arte e la vita un atteggiamento simile a quello assunto dal De Sanctis ai suoi tempi”

Gramsci risponde affermando che solo partendo da tali presupposti si può comprendere e quindi interpretare letterariamente il rapporto De Sanctis-Croce e valutare culturalmente le polemiche sul contenuto e forma dell’arte letteraria che coinvolge i due intellettuali, e ciò per la diversità del “metodo grammaticale” a cui diversamente ricorrono i due interpreti. Direttamente, perché rileva Gramsci, come la critica del De Sanctis sia militante, ( per la sua posizione politica ) priva di quella necessaria “freddezza linguistica” estetica, per cui diviene inevitabile una critica ad una impostazione che recupera un pensiero che appartiene ad un periodo di lotte culturali, di contrasti tra concezioni della vita antagonistiche. Per questo, allora, tutto ruota attorno alle analisi del contenuto, alla critica della «struttura» delle opere, da cui ne scaturisce una manchevolezza linguistica, che rende allora labile una linea di coerenza logica e storico-attuale delle masse, perché riduce o sminuisce il contenuto dei sentimenti rappresentati artisticamente nel la rievocazione delle esperienze della tradizione che, incondizionatamente, sono legate a questa lotta culturale: proprio in ciò allora è possibile cogliere l’aspetto qualitativo della struttura letteraria, nel quale pare consista la profonda umanità e l’umanesimo del De Sanctis, (Morra Irpina, 28 marzo 1817 – Napoli, 29 dicembre 1883 è stato uno scrittore, critico letterario, politico, Ministro della Pubblica Istruzione e filosofo italiano), che rendono tanto simpatico anche oggi il critico.

Tuttavia, non si può sottacere come la riscoperta di De Sanctis da parte di Gramsci riguardi soprattutto il metodo e con esso l’impegno dell’artista e l’atteggiamento dell’uomo, che lottò per la creazione in Italia di una nuova cultura; mentre, con minore entusiasmo, Gramsci intese valutare i contenuti della sua critica, soprattutto per il contenuto «aristocratico» che in essa prevaleva. Sebbene quindi non si possa accettare la critica del De Sanctis tout court, è altrettanto evidente per Gramsci che il metodo a cui ricorrere nello svolgere una critica letteraria, propria della filosofia della prassi, è offerto dal De Sanctis, non dal Croce o da chiunque altro (meno che mai dal Carducci). E’ appunto ricorrendo alla filosofia della prassi, per acquisire una consapevolezza critica e rinnovare i caratteri di un pensiero critico moderno, a favore della quale Gramsci insiste affinché da essa si fondi la lotta per una nuova cultura, cioè per un nuovo umanesimo, una critica politica del costume, dei sentimenti e delle concezioni del mondo; solo in questo modo, con la critica estetica o puramente artistica nel fervore appassionato, sia pure nella forma del sarcasmo, il mondo si muove verso una nuova rifondazione della cultura. Per questo, ai suoi occhi, Il modello non può essere quello trasmesso da Croce, appunto perché rappresenta, in ultima analisi, una fase conservatrice e difensiva della cultura.

Al proposito, è da richiamare la particolarità del movimento creatosi intorno alla rivista la Voce (1908-16. Rivista di cultura fondata a Firenze nel 1908 da G. Prezzolini; pubblicata dapprima con periodicità settimanale, poi (1914) quindicinale, fu diretta dallo stesso Prezzolini (eccettuato un breve periodo, aprile-ottobre 1912, in cui la direzione passò a G. Papini), quindi (dicembre 1914- dicembre 1916) da G. De Robertis. Alla rivista si affiancò la Libreria della V., che pubblicò volumi e specialmente ‘quaderni’, di natura sia critico-storica, sia creativa), un movimento che ebbe una notevole importanza nel corso di quel periodo storico, che influenzò e arricchì la formazione giovanile di Gramsci, una fase di piena maturità intellettuale, che spronò la sua curiosità intellettuale affinché la sua rivista, Ordine Nuovo (1919-20 – L’Ordine Nuovo è stata una pubblicazione a periodicità variabile fondata a Torino il 1º maggio 1919 da Antonio Gramsci ed altri intellettuali socialisti torinesi (Palmiro Togliatti, Angelo Tasca e Umberto Terracini). L’Ordine Nuovo dichiarava il suo programma di rinnovamento sociale e proletario nelle Battute di preludio scritte dallo stesso Tasca.), divenisse per il proletariato quello che la Voce era stata per la borghesia progressista, cioè un movimento rivolto ai fermenti dinamici della cultura e che, «lottando per una nuova cultura», promuovesse «indirettamente, anche la formazione di temperamenti artistici originali», anche se, invero, «non poteva creare artisti di una singolarità eclatante al punto da assumere il ruolo di una guida spirituale per la nascente formazione culturale nel campo della letteratura. E’ proprio con riferimento a questa considerazione, che egli sostiene come questo fenomeno si manifesti ogni volta che un nuovo gruppo sociale fa il suo ingresso nella storia con atteggiamenti egemonici.

Allora si evince come per Gramsci il problema stia proprio nella capacità di organizzare la lotta per una nuova cultura, spostando con gradualità l’accento dagli aspetti strettamente estetici a quello della critica, perseguendo l’obiettivo mediante la prassi. Nonostante questo rilievo, tale orientamento non motiva l’idea secondo la quale egli, con questa impostazione teorica, ritorni a un rozzo sociologismo, rinunciando al bagaglio teorico da lui costruito e inseparabile dagli elementi ormai acquisiti, sul piano del ragionamento e dell’analisi sia dal marxismo, che dalla moderna critica letteraria in generale. Per esempio, egli ammette la possibilità di operare una sintesi fra contenuto e forma, anche se in lui è palese una concezione diversa da quella Crociana, che però non esclude che si possa esprimere un giudizio estetico dell’opera d’arte e non soltanto culturale-storico-politico.

Muovendosi in questa prospettiva e dedicando molta attenzione alle implicazioni teoriche, approfondisce e chiarisce il presupposto, che prospetta come principio, secondo cui nell’ opera d’arte ci si deve limitare alla ricerca del carattere artistico, senza esclude che tale ricerca si rivolga anche a quella massa di sentimenti, di atteggiamenti verso la vita e delle sue tendenze, che nel concepimento dell’autore sia attivamente messa in circolo nell’opera d’arte stessa. Questa interpretazione ci induce a poter esclude che un’opera sia considerata bella per il suo contenuto morale e o politico, invece che per la sua forma, in cui il contenuto astratto si è fuso e immedesimato . E’ questo un criterio di interpretazione presente ovunque nelle pagine di letteratura e di vita nazionale, che si connette ad un’altra considerazione, anch’essa trascurata se non ignorata, anche se è stata sostenuta e fatta propria della critica letteraria marxista operante ad ogni latitudine, e cioè il principio della piena autonomia dell’ arte dalla politica.

Non spetta all’ uomo politico o a chi esercita il potere imporre una tendenza mediante la quale esercitare un’influenza sulla formazione artistico- culturale del suo tempo, determinando così le premesse perché si affermi un certo orientamento o che si formi un determinato mondo culturale, poiché ciò costituirebbe un’attività politica, non di critica artistica: se il mondo culturale, per il quale si lotta, è un fatto vivente e necessario, la sua espansività sarà irresistibile, esso troverà i suoi artisti. Ma, se nonostante la pressione, questa irresistibilità non si vede e non opera, significa che si trattava di un mondo fittizio e posticcio, elucubrazione cartacea di mediocri che si lamentano che gli uomini di maggior statura non siano d’accordo con loro. Gramsci prosegue: “Per l’uomo politico ogni immagine ‘fissata’ a priori è reazionaria”, perché egli “considera tutto il movimento nel suo divenire» e “immagina l’uomo come è e, nello stesso tempo, come dovrebbe essere per raggiungere un determinato fine; il suo lavoro consiste appunto nel condurre gli uomini a muoversi, a uscire dal loro essere presente per diventare capaci collettivamente di raggiungere il fine proposto, cioè a “confermarsi al fine”. Mentre l’artista deve avere “immagini fissate e colate nella loro forma definitiva”, perché egli «rappresenta necessariamente ciò che c’è, in un certo momento, di personale, di non-conformista, ecc, realisticamente”. Prosegue Gramsci: “perciò l’uomo politico come tale non sarà mai contento dell’artista e non potrà esserlo: lo troverà sempre in arretrato coi tempi, sempre anacronistico, sempre superato dal movimento reale”.

Fra gli studiosi di Gramsci ve ne sono alcuni che vedono in queste linee di studio e di interpretazione dell’arte della letteratura e dell’estetica non una critica generica e generale, una lettura astratta dei valori artistici al momento dominanti, ma una continuità della lezione di Croce. In questo senso molti di costoro si spingono fino a considerare l’elaborazione Gramsciana come un’ operazione di recupero degli elementi dell’ estetica e della critica Crociana, nonostante le dichiarazioni e le inequivocabili produzioni e analisi teoriche di Gramsci. Una interpretazione, quella di chi ha voluto dare del pensiero di Gramsci un approssimarsi al Croce che, invero, appare come un’operazione non conforme all’analisi che Gramsci sviluppa al proposito. Da parte di questi Studiosi si perviene a stabilire una connessione logica che muove nell’ambito dell’estetica per collegare il neoidealismo di Croce al marxismo di Gramsci; sebbene questi ne neghi in modo inequivocabile la sussistenza teorica e grammaticale; per esempio: quello di «poesia» e «non poesia», e metta in atto una rimozione di alcuni elementi incongruenti dell’estetica Crociana. Nella sostanza, essi affermano ( ma su questo si dovrà ritornare in altri studi): l’elaborazione teorica di Gramsci offre una serie di spunti importanti per una sociologia della letteratura, dalle quali si evince comunque una netta distinzione fra critica estetica e critica politica, senza per questo palesare la pretesa di avere individuato nella sua elaborazione una originale teoria estetica.

Per non rimanere nell’astratto ricorriamo ad una dimostrazione di questa “revisione”, condotta con una certa elaborazione da parte di Gramsci dell’ estetica Crociana, si rintraccia, secondo Bartolo Anglani, (Bartolo Anglani è docente di Letterature comparate all’Università di Bari, dopo aver a lungo insegnato in Francia e negli Stati Uniti. Studioso di Gramsci, al quale ha dedicato lunghi anni di ricerca, ha pubblicato anche numerosi saggi sulla letteratura del Settecento europeo: da Goldoni ad Alfieri, da Rousseau a Parini, da Baretti a Ortes), nel tentativo che Gramsci affronta in una delle sue rare critiche letterarie, riprodotte appunto nei quaderni, nell’intento di dimostrare come la distinzione operata da Croce, fra poesia e struttura, che invero non avrebbe alcuna funzione poetica, sia una distinzione fittizia. Non si tratterebbe, dice l’ Anglani, di un superamento, ma precisamente di una revisione tout court dell’estetica elaborata dal Croce.

Fino a qui il lavoro di comprensione degli studi sulla forma artistica ed estetica della letteratura, condotte da Gramsci, è stata formulata mantenendo un approccio generale, e quindi deideologizzando il contenuto della critica e delle elaborazioni, senza per questo ignorare l’aspetto mondano tra la forma espressiva, che a mezzo dell’arte si trasmette, e il suo pensiero sociale e politico, idealmente legato alla sua visione della produzione artistica. Una lettura del materiale su cui è elaborata l’ analisi di Gramsci è quella del decimo canto dell’lnferno; quel canto che, comunemente, viene chiamato “il canto di Farinata” ( Manente Degli Uberti, detto Farinata, fu uno dei principali capi dei Ghibellini a Firenze nel primo Duecento. Con l’appoggio di Federico II di Svevia nel 1248 cacciò i Guelfi, che tornarono dopo il 1250; fu uno degli artefici della disfatta guelfa di Montaperti (1260) e nel successivo convegno di Empoli fu l’unico a opporsi alla proposta di radere al suolo Firenze. Dopo Benevento (1266) i Guelfi tornarono a Firenze e i discendenti di Farinata, morto nel 1264, furono esiliati. Farinata fu accusato di eresia, processato dopo la sua morte e condannato (nel 1283 le salme di lui e della moglie furono riesumate e disperse). Le cronache ci riportano come Gramsci si fosse più volte interessato a questo canto, sul quale aveva lavorato sia prima che dopo l’incarcerazione.

Le osservazioni su cui Gramsci dispiega l’interesse possono essere riassunte secondo questo schema: nel X canto: «sono rappresentati due drammi, quello di Farinata e quello di Cavalcante, e non il solo dramma di Farinata». “Se non si tiene conto del dramma di Cavalcante, in quel girone non si vede in atto il tormento del dannato: la struttura avrebbe dovuto condurre ad una valutazione del canto più esatta, perché ogni punizione è rappresentata in atto”. “La parola più importante del verso ‘ Forse cui Guido vostro ebbe a disdegno ‘ non è ‘cui’ o ‘disdegno’ ma è solo ebbe. Su ‘ebbe’ cade l’accento ‘estetico’ e ‘drammatico’ del verso ed esso è l’origine del dramma di Cavalcante, interpretato nelle didascalie di Farinata: e c’è la ‘catarsi’”. “Il brano strutturale non è solo struttura, dunque, è anche poesia, è un elemento necessario del dramma che si è svolto”. Qui, come si coglie, Gramsci dà un’interpretazione mediante cui valorizza l’estetica dispositiva dell’atto proposto nel X canto, assimilandolo ad una espressione poetica e di forte tensione drammatica della rappresentazione.

Giuseppe Petronio, ((Marano di Napoli, 1º settembre 1909 – Roma, 13 gennaio 2003- critico letterario e accademico italiano e fervente antifascista, nel dopoguerra approdò al Marxismo e iniziò a dedicarsi a una intensa attività politico-sindacale con il Partito Socialista Italiano e in seguito con il Partito Comunista. Per lui sono stati usati i termini di “storicismo marxista”, “umanesimo laico”. Fece parte dell’Associazione per la difesa della scuola laica di Stato” Il suo pensiero è stato definito con i termini: “socialismo umanitario”, e spregiativamente quelli di “veteromarxismo” e “sociologismo”, ma un fatto è certo: egli seppe raccogliere le istanze di una società che – uscendo dalla paralisi del regime totalitario e dalla guerra – aspirava a modificarsi in senso democratico), con la sua critica alle scontate gerarchie di valore, con la sua attenzione a le forme della produzione letteraria, anche a quelle più screditate, senza con ciò negare una certa influenza del Croce che, per esempio, nella sua sintesi tra forma e contenuto e messo in guardia dall’avventurarsi meccanicamente dall’associare il giudizio storico al giudizio estetico, si pronuncia a favore di una idealizzazione dell’arte e dell’estetica, come emerge dalle pagine del Gramsci, nelle quali egli rileva gli esiti rivoluzionari dell’approccio marxista alla letteratura,

Si tratta, a ben vedere, di una tensione ideale, di un giudizio di valore sociale, tipico del sociologismo, quini non assimilabile ad una prerogativa esclusiva dell’ estetica crociana, tuttavia sempre presente negli scritti di Marx ed Engels, in specie negli sviluppi teorici e filosofici, la cui attenzione è rivolta ai problemi letterari. Essi dicono infatti che Gramsci ritorna, al di là del neoidealismo, a Hegel negando con ciò la dialettica di Croce dei distinti e sostituendola con quella degli opposti. E quando Gramsci afferma che l’arte è forma, allora è sottinteso che la forma è condizionata dal contenuto, il quale è sempre storicamente determinato. E, al proposito scrive Gramsci: “ristabilire un nesso necessario ed organico tra la forma dell’opera d’arte ed il suo contenuto, significa riaffermare la piena storicità dell’opera d’arte, cioè il nesso del tempo e dello spazio che racchiude l’essenza che lega l’arte e la storia”. Infatti, domanda Gramsci, citando un passo del Croce, che cosa vuoi dire in concreto: “rifare l’uomo» e “rinfrescare lo spirito” per far sorgere una nuova letteratura ? E Gramsci risponde cosi alla domanda : “La letteratura non genera letteratura, come le ideologie non creano ideologie, le superstrutture non generano superstrutture altro che come eredità di inerzia e di passività: esse sono generate, non per “partenogenesi» ma per l’intervento dell’elemento «maschile», è la storia, l’attività rivoluzionaria che crea il “nuovo uomo”, cioè, come in un preparato chimico, è il determinarsi di nuovi rapporti sociali che crea le condizioni delle quali l’uomo si serve per fare la storia.

Da queste considerazioni emerge in linea dialettica iI superamento del neoidealismo, anche se per il modo netto con cui è determinato non sembra impossibile conciliare, in via torica, come pretendono alcuni, il neoidealismo con il marxismo di Gramsci, come esso risulta dalla citazione riportata. Questa interpretazione rende plausibile affermare che Gramsci, dell’estetica del Croce, ha rifiutato l’impostazione generale conducendo la sua analisi a lambire solo qualche elemento, mentre la forza della sua teoria si è spinta su un piano superiore fino a raggiungere una nuova sintesi col marxismo. Tuttavia, questo non significa che Gramsci abbia elaborato un’ estetica marxiana, cosa che non risulta, dalla lettura del testo; nelle sue intenzioni, in primis se valutato come uomo politico, anche se, invero, un’estetica di questo tipo non può non prendere in considerazione la sua elaborazione.

Dunque, da queste prime riflessioni specifiche sui problemi letterari e considerato il contenuto elaborativo del suo pensiero, maturato non soltanto sui Quaderni del carcere ma anche negli articoli sull’Avanti degli anni 1915-26, non deve accogliersi come improbabile la rivelazione che ci porta a svelare come Gramsci giunga a formulare il concetto di “nazionale-popolare”, formulazione assunta per definire una letteratura che contribuisca al raggiungimento dell’unità culturale e politica della nazione, per meglio corrispondere alle esigenze intellettuali e morali del popolo. che, mentre all’estero è stata soddisfatta, non ha trovato in Italia la possibilità di venire realizzata, per il fenomeno negativo che vede gli intellettuali costituire una casta distaccata dal popolo, con spirito di corpo.

Muovendo da questa analisi storica, che lo induce a svelare come la letteratura italiana abbia un carattere prevalentemente non nazionale-popolare, Gramsci si domanda perché: “nessuno ha mai presentato questi problemi come un insieme collegato e coerente”, anche se “ognuno di essi si è ripresentato periodicamente a seconda di interessi polemici immediati “? “Ma”, continua: “ forse è vero che non si è avuto il coraggio di impostare esaurientemente la questione, perché da una tale impostazione rigorosamente critica e consequenziaria si temeva derivassero immediatamente pericoli per la vita nazionale unitaria”. Fino al 500 c’è stato un filone popolare, legato alle “forze sociali sorte col movimento di ripresa dopo il Mille e culminato nei Comuni; dopo il 500 queste forze perdono di vitalità e avviene il distacco tra intellettuali e popolo». Mentre «l’assenza di una letteratura nazionale – popolare, dovuta all’ assenza di interesse fra gli intellettuali italiani per l’attività economica e il lavoro come produzione individuale o di gruppo, ha lasciato il ‘mercato’ letterario aperto all’influsso di gruppi intellettuali di altri paesi, che, ‘popolari-nazionali’ in patria, lo diventavano in Italia, perché le esigenze e i bisogni che cercano soddisfare sono simili anche in Italia”. Insomma, secondo Gramsci, la cultura Italiana era divenuta, nel 1900, un fenomeno di provincialismo piegato alla cultura Francese.

Tra i grandi scrittori dell’epoca, egli annovera Goldoni, (Venezia, 25 febbraio 1707 – Parigi, 6 febbraio 1793) è stato un drammaturgo, scrittore, librettista e avvocato italiano, cittadino della Repubblica di Venezia) che, scrive: “è quasi unico’ nella tradizione letteraria italiana. I suoi atteggiamenti ideologici: democratico prima di aver letto Rousseau e la Rivoluzione francese, sia per il contenuto popolare delle sue commedie, il fatto di ricorrere ad una lingua popolare nella sua espressione, per la sua mordace critica della aristocrazia corrotta e imputridita. E poi: Leopardi e Verga. Mentre al Manzoni riconosce un comportamento aristocratico e psicologico verso i singoli personaggi di origine popolana, da cui emerge una posizione “nettamente di casta pur nella sua forma religiosa cattolica; i popolani, per il Manzoni, non hanno vita interiore, non hanno personalità morale profonda; essi sono ‘animali”. Infatti, il Manzoni, ribadisce Gramsci, “trova magnanimità, pensieri, grandi sentimenti, solo in alcuni della classe alta, ma nessuno del popolo“. Fino a definire il Manzoni troppo cattolico, per pensare che la voce del popolo sia la voce di Dio: tra il popolo e Dio c’è la Chiesa, e Dio non s’incarna nel popolo, ma nella Chiesa. Che Dio s’incarni nel popolo può crederlo il Tolstoj, non il Manzoni. Certo questo atteggiamento del Manzoni è sentito dal popolo e perciò i Promessi sposi non sono mai stati popolari”. E il nostro conclude: “il suo atteggiamento verso il popolo non è popolare-nazionale, ma aristocratico, e il suo cristianesimo ondeggia tra un aristocraticismo giansenistico e un paternalismo popolaresco, gesuitico”.

In questi termini Gramsci valutava il momento storico- culturale del suo tempo, una critica verso gli scrittori italiani e la produzione letteraria del tempo, rilevando come gli scrittori italiani, tranne qualche rara eccezione, si interessassero soltanto del passato e dell’ alta cultura, mentre i sentimenti popolari non erano vissuti come propri. Ed è appunto per soddisfare i suoi bisogni di letteratura che il popolo, rileva Gramsci, si aprì ad una nuova tendenza artistica, rivolgendo la sua attenzione al romanzo d’appendice. Tuttavia, c’era un limite anche in questo ripiegamento culturale, poiché neanche il romanzo d’appendice non era nazionale, in quanto veniva da oltre Alpi, soprattutto dalla Francia, dove questo tipo di letteratura aveva e manteneva un aspetto laico e democratico.

Gramsci si esprime fiducioso affinché anche in Italia si possa creare una specie di romanzo d’appendice, a cui affidare una funzione educativo-formativa di un pensiero sociale popolare, fornendo attraverso di esso le pulsazioni necessarie ad alimentare un interesse per la cultura letteraria. Infatti: «solo dai lettori della letteratura d’appendice si può selezionare il pubblico sufficiente e necessario per creare la base culturale della nuova cultura. Mi pare che il problema sia questo: come creare un corpo di letterati che artisticamente stia alla letteratura d’appendice come Dostojevskij stava a Sue ea Soulié “. D’altro canto era questa una esigenza che Gramsci aveva avvertito già nel lontano 1918, quando, nel pieno della lotta politica, riteneva di poter trasmettere anche un nuovo interesse per una “nuova cultura”. Ed è in questo clima di lotta politica, per un rinnovamento sociale, in cui egli vede una strategia vincente del proletariato, che il concetto di «nazionale-popolare» acquista un più ampio valore ed esce dall’ambito strettamente letterario. Aprendosi alla prospettiva a favore di una concezione dell’intellettuale e della politica del proletariato e con il pensiero rivolto alle altre classi sociali subalterne, la sua idea di fondare un nuovo blocco storico, cioè l’alleanza politica necessaria per arrivare alla rivoluzione, si pone l’obiettivo per una sua affermazione storicamente durevole e trasformatrice. In questo blocco storico agli intellettuali è affidato il compito di mediatori del consenso, sono cioè il collegamento con gli altri gruppi sociali e il proletariato, in modo che questo diventi dominante e dirigente, due qualità imprescindibili per esercitare una vera egemonia. Gli scrittori, in quanto intellettuali, svolgono quindi questa funzione di mediatori del consenso, facendo maturare fra le masse una nuova coscienza tramite la letteratura, la quale è appunto nazionale-popolare, solo se riesce a esprimere le aspirazioni e i sentimenti di queste classi subalterne. L’itinerario che si deve seguire, per realizzare questa aspirazione, deve assumere questa caratteristica: la nuova letteratura deve identificarsi con una scuola artistica di origine intellettuale, come fu per il futurismo. La base, la naturale forza della nuova letteratura non può non essere storica, politica, popolare: deve tendere a elaborare ciò che già esiste, polemicamente o in altro modo non importa; ciò che importa è che essa affondi le sue radici nell’ humus della cultura popolare così come è, coi suoi gusti, le sue tendenze, col suo mondo morale e intellettuale, sia pure arretrato e convenzionale.

L’azione indicata può apparire un punto di partenza non all’altezza dell’obiettivo , in sé molto debole, purtuttavia bisogna tener presente che: “lo sviluppo del rinnovamento intellettuale e morale non è simultaneo in tutti gli strati sociali”. Per esempio, nel momento considerato, il livello culturale e di coscienza del proletariato industriale era indubbiamente molto più alto di quello delle masse contadine, e il concetto di “popolo”, sulla cui esatta comprensione semantica si è appunto molto discusso, non completa e assolutizza l’inciso, dal momento che sociologicamente può sembrare molto vago, deve perciò essere esteso a comprendere tutte le masse lavorataci, tutti gli sfruttati: “l’insieme delle classi subalterne e strumentali di ogni forma di società finora esistita”. Comunque, si deve avere chiaro che non bisogna applicare meccanicamente l’invito di Gramsci a fecondare l’idea di considerare le radici nell’humus della cultura popolare “così come è”, dato che questo riflesso ideale non deve essere inteso “come qualcosa di statico, ma come un’attività in continuo sviluppo”. Alla base di questo «continuo sviluppo» ci sono altre considerazioni di Gramsci sui rapporti fra cultura, filosofia e scienza “alta” e quella riconducibile al livello popolare.

D’altro canto si deve considerare acquisito il principio secondo cui ogni strato sociale ha il suo “senso comune” e il suo “buon senso”, che sono in fondo i parametri e la concezione della vita dell’uomo tra i più diffusi. Cioè, ogni corrente filosofica deposita storicamente una sedimentazione di «senso comune”. E’ questo il documento della sua effettualità storica. Il senso comune non è qualcosa di irrigidito, dato per scontato e di immobile, poiché si trasforma continuamente, arricchendosi di nozioni scientifiche e di opinioni filosofiche entrate nel costume, valorizzando così la vita intellettuale dell’individuo. Il “senso comune” è il folclore della filosofia e mantiene un suo legame tra il folclore vero e proprio (cioè come è comunemente inteso) e la filosofia, la scienza, l’economia degli scienziati. Il senso comune crea e alimenta il futuro folclore, cioè una fase relativamente irrigidita delle conoscenze popolari di un certo tempo e luogo indefinito dello spazio umano.

Il compito dell’intellettuale di sinistra consiste allora nell’ arricchire e trasformare il “senso comune”, cioè svolgere un’opera di critica della cultura e della concezione del mondo precedenti e attraverso una nuova elaborazione arrivare a un nuovo «senso comune”, mediante il quale la storia sia l’elemento forgiativo della società dovuto all’opera dell’uomo.

La pubblicazione dei Quaderni del carcere avvenuta alla fine della guerra, che rappresentano il lavoro teorico di Antonio Gramsci sui compiti ricostruttivi di una nuova idea dell’arte letteraria e sul ruolo dell’intellettuale, riprodotta nella formula: nazionali-popolari di una nuova letteratura, fu accolta con grande interesse dal mondo culturale italiano. E tuttavia, per motivi diversi e talvolta speculativi, forse soprattutto di tipo politico, il populismo, come Gramsci lo aveva esaminato, cioè “l’andata al popolo”, e che aveva criticato parlando del romanzo verista e naturalista, si riproposero con una certa facilità e prepotenza critica improntando gran parte della letteratura neorealista italiana del momento.

Giunto a questo punto di questo breve saggio , che ha ripreso e riproposto le tante citazioni da Letteratura e vita nazionale, richiamate e descritte secondo uno schema interpretativo appropriato e pertinente, con valutazioni e di circostanza, che ho ritenuto di voler valorizzare e rendere attuali, perché ritengo convintamente che l’opera di Gramsci sia ancora troppo poco nota in Italia e tra i giovani,. Ma ho anche inteso sostenere, con metodo, come non si può accusare Gramsci di idealismo.

Ho trascurato volutamente di affrontare i tanti temi della problematica Gramsciana, specie la parte relativa al suo costante interesse per il teatro di Pirandello, all’ approfondita indagine nel campo dei problemi linguistici, che hanno, per ragioni sociali e politiche, connessione con la tematica nazionale-popolare. Sono infatti dell’avviso che ogni volta che affiora, in un modo o nell’altro, la questione della lingua, significa che si sta imponendo una serie di altri problemi: la formazione e l’allargamento della classe dirigente, la necessità di stabilire rapporti più intimi e sicuri tra i gruppi dirigenti e la massa popolare-nazionale, cioè di riorganizzare l’egemonia culturale. Proprio su questo terreno della linguistica Gramsci ha raggiunto risultati che si avvicinano ad altri studiosi della materia, presumo senza conoscerne le opere e dove “la distinzione operata da Gramsci al fine di definire la lingua nei suoi rapporti culturali e storici, e al fine di precisare i termini della sua autonomia, sembra coincidere con le più moderne teorie strutturalistiche”.

Il patrimonio teorico lasciatoci da Granisci, sui temi della letteratura, documentano l’intelligenza e l’acume dello studioso, un interesse e una conoscenza non comuni della letteratura in un uomo politico. Allora, se tante delle sue considerazioni oggi sembrano superate, dobbiamo ammettere che la colpa non è di Gramsci, ma origina dal disinteresse culturale delle èlite e degli intellettuali dell’attuale momento storico. Infatti, la società neocapitalista/ finanziarizzata, con i mass-media, tv, le moderne forme di comunicazione e trasmissione, ha reso illusoria la sua idea di una cultura nazionale-popolare, che è stata attuata nel peggiore dei modi. Eppure, anche pensando di essere i soli a crederci, Gramsci può ancora offrirci utili spunti e fare nostra la sua impostazione metodologica, perché il mondo ha estremo bisogno di comprendere il suo messaggio e trasformarlo in una concreta realtà.

Alberto Angeli

Nascita dei Movimenti e del movimentismo, un pensiero minoritario o un’alternativa ai partiti ?, di A. Angeli

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Uno strano fenomeno sembra pervadere la vita politica del nostro Paese, i partiti della tradizione repubblicana cambiano la loro natura di massa ( seguendo il lessico Weberiano) e al loro posto nascono movimenti, circoli, comitati, raggruppamenti. Insomma, alla tipica rappresentanza dei partiti si va sostituendo quella del movimentismo. Un contagio, si badi bene, che colpisce pure la tradizione della chiesa, delle parrocchie, nel passato animatrici di comitati parrocchiali e di gruppi per la preparazione catechistica. Questa propensione al movimentismo, dunque, sembra non avere preferenze di colore o collocazione politica, nasce a sinistra come a destra della rappresentanza politica. Ma, mentre per la destra politica la costituzione di un movimento politico non costituisce l’abbandono di una ideologia, questo non vale per la sinistra, la quale sembra muoversi in un orizzonte di superamento del marxismo come ideologia “ufficiale”, uccidendo contestualmente ciò che di più profondo la legava alla concezione Gramsciana della forma partito.

La scissione dal PD della parte costituitasi in MDP, quindi alla nascita di un nuovo movimento, non pare ai più attenti osservatori che abbia portato alla produzione di un altro “pensiero forte”, cioè strutturalmente definito e abbastanza univoco nella sua interpretazione e applicazione ai tradizionali modelli di rappresentanza partitica. Così anche per quella parte di socialisti ( PSI) che, a seguito del risultato referendario, si sono definiti “Movimento”, vale la domanda se ciò possa qualificarsi come un “pensiero forte”, cioè strutturato in termini di prospettiva e di valenza politica

Chi scrive rimane ad ogni modo convinto che non per questo le sinistre, tanto “di movimento” quanto quelle che ancora mantengono un legame con la tradizione/partitica, abbiano rinunciato o tagliato completamente le radici della tradizione ideologica su cui hanno fondato la loro esistenza. Questo rilievo vale soprattutto per quelle forze della sinistra radicale, quella parte della sinistra purista, che si è formata tra il post-strutturalismo di suolo francese (Foucault, Deleuze, Guattari), e con una dose della scuola di Francoforte (Marcuse) alla quale è associabile la speculazione politico-filosofica post-operaista di Toni Negri, esegeta di Spinoza, e Michael Hardt, per arrivare fino a Marcuse, tra i più ricordati filosofi del ‘900; e poi Foucault, filosofo critico del potere costituito e delle sue articolazioni,

Se lo stato delle cose è quello descritto, questa la domanda: la sinistra non è più nella condizione di rappresentare un’alternativa al capitalismo? Oppure si deve essere indotti a pensare che il momentaneo passaggio al movimentismo costituisca una scelta momentanea, una sosta per riflettere e rielaborare una progetto su cui ricostruire il Partito della sinistra?. Un progetto su cui si deve scommettere, per il semplice fatto che al di là delle critiche, come quelle di Jean Claude Michèa ed altri, il pensiero che prevale all’interno delle sinistre, sia riformiste che radicali, si fonda sul pensiero filosofico Marxiano e sulla consistente forza culturale del progetto Gramsciano.

Se si prende in esame la più influente tematizzazione della forma partito del XX secolo, contenuta nello scritto di Lenin Che fare?, si scopre che – per Lenin – il partito funziona come l’intelletto agente di Aristotele, che giunge a noi dal di fuori: “Solo l’intelligenza giunge dall’esterno e solo essa è divina, perché l’attività corporea non ha nulla in comune con la sua attività”. Nella grammatica Aristotelica, l’intelligenza, cioè l’anima, sta al corpo, simbolicamente, come il partito sta alla classe proletaria, come appunto indicato da Lenin. In questa fase storica, ci possiamo spingere allora a dare una più compiuta valenza al pensiero Aristotelico per cui è il partito che sta agli elettori, al corpo sociale, In tale passo Aristotele sembra conferire una certa equidistanza tra la forma e la sostanza dell’anima, di tipo Platonico, per intenderci. Così come la storia del rapporto partito/classe, nella cultura contemporanea del nostro Paese, fluttua tra l’idea di un partito costituito ( quindi costituzionale) e auto-organizzato per rispondere ad un progetto di classe, e l’idea invece che il partito sia superato e arretrato rispetto alla necessità di rappresentare i movimenti che si organizzano spontaneamente su temi e rivendicazioni tra le più diverse. Così che il partito diviene informe e senza vita. Tutto questo avviene con tutte le possibili variazioni intermedie, tra le quali un’idea di tipo kantiano, secondo cui l’intelligenza che il partito rappresenterebbe sarebbe da intendersi piuttosto come un giudizio riflettente che come un giudizio determinante.

Da tutto questo ne discende dunque che il Partito perde il suo significato, non essendo più né un’appendice della classe, né la sua sola salvezza, ma qualcosa come una rappresentazione, a partire dai dati di realtà portati alla politica dalla cosiddetta “società civile”. Nonostante questa condizione, rimane che in ognuno di questi casi, il partito è indiscutibilmente un’intelligenza, e l’idea/pensiero di sostituirlo con il movimento, che può associarsi all’idea della «mobilitazione cognitiva», da questo punto di vista, risulta minoritaria e limitativa rispetto alla capacità espressiva e rappresentativa del soggetto Partito.

Per continuare con Lenin: “La coscienza politica di classe può essere portata all’operaio solo dall’esterno, cioè dall’esterno della lotta economica, dall’esterno della sfera dei rapporti tra operai e padroni”.

Ancora: “La coscienza socialista è un elemento importato nella lotta di classe del proletariato dall’esterno, e non qualche cosa che ne sorge spontaneamente. Ciò significa – per Kautsky, le cui parole appaiono a Lenin «profondamente giuste e importanti» – che la coscienza socialista non è il risultato diretto della lotta di classe proletaria, ma un’aggiunta a essa da fuori”.

Per Lenin: “Socialismo e lotta di classe nascono uno accanto all’altra e non uno dall’altra; essi sorgono da premesse diverse………

Il termine Parteiverdrossenheit in tedesco significa insoddisfazione per i partiti e spesso si accompagna alla più generale espressione Politikverdrossenheit, che indica lo stesso sentimento, esteso alla politica. Queste definizioni esemplificano la fine del protagonismo della società di massa, che si forma in Europa all’inizio del Novecento, quando nella cultura europea si afferma anche una tendenza “irrazionalista”: filosofi, letterati, artisti, politici condividono un’attenzione nuova per le componenti irrazionali dell’uomo (l’inconscio, gli istinti, gli impulsi primordiali e irriflessi) e attribuiscono ad esse un ruolo preponderante nell’orientamento della vita individuale e collettiva. Oligarchie, gruppi dirigenti inamovibili, caste autoreferenti, assumono la guida dei grandi e piccoli partiti di massa. La democrazia partecipata, elezioni universali estese anche alle donne, nuovi soggetti e superamento dell’individualismo, nascita dei grandi partiti e formazione di ristrette cerchie di dirigenti, nuova classe politica. L’Europa occidentale vive una grande rivoluzione e si muove in universo di cambiamenti sociali orizzontali diffusi e profondi.

Nel 1921 Freud pubblicò un libretto, di circa cento pagine, chiamato Psicologia delle masse e analisi dell’Io. Era quello un periodo in cui stavano nascendo le lotte operaie organizzate, le grandi ideologie, le dittature. In Austria si assiste agli effetti della disgregazione dell’Impero asburgico, avvenuta alla fine del 1918; in Italia nascono il Partito Nazionale Fascista e il Partito Comunista Italiano, mentre in Germania Adolf Hitler diventa leader del Partito nazionalsocialista tedesco. Freud cominciò ad interessarsi sempre di più ai comportamenti delle masse, affrontando i temi sociologici in chiave psicoanalitica. Prendendo spunto dal testo di Gustave Le Bon, Psicologia delle Folle, Freud cominciò a riflettere sulla psicologia collettiva, cercando di dimostrare che i fenomeni che regolano la vita di gruppo non sono poi così lontani dalle scoperte psicoanalitiche relative ai processi individuali. Vi sono anzitutto due tipi di masse: quella occasionale, transitoria, non organizzata e quella organizzata (e dunque “artificiale”), che proprio per questo è destinata a durare di più nel tempo (un esempio ne sono la Chiesa e l’esercito). L’ “anima della massa” viene dunque descritta come elementare e passionale, incline alle illusioni, essendo il Super Io temporaneamente accantonato, a vantaggio di un legame di tipo quasi ipnotico, che fa scatenare le pulsioni, perdere lo spirito critico, sentire un senso di onnipotenza e di impunità. Gli individui che fanno parte di una massa perdono dunque autonomia ed equilibrio, ma acquisiscono la sensazione di essere forti, in quanto parte di un tutto organizzato, che rassicura e protegge.

La nascita del citizen (cittadino ) offre ai partiti l’opportunità di superare il concetto di massa dando vita a nuove forme di rappresentanza politica che, lentamente ma costantemente, pervengono al superamento della forma partito di massa, per costituire nuovi soggetti rappresentativi della società, passando quindi da una forma organizzativa verticale a quella orizzontale, con l’intento di raccogliere ed intercettare gli umori e le rivendicazioni dell’elettore/cittadino che spesso si organizza in movimenti portatori di rivendicazioni specifiche ed espressione di un sentimento antipartitico e anti stato, spesso associato ad una critica durissima contro la casta politica privilegiata e aristocratica, ritenuta troppo costosa e politicamente incapace ad attuare le necessarie trasformazioni richieste dalla terribile crisi socio/economica in cui si dibatte la società italiana.

Lungo l’arco del XX e gli inizi del XXI secolo si sono registrate trasformazioni dei Partiti, DC,PCI,PLI,PRI,MSI, PIUSP, e i tanti altri che hanno cambiato nome, modificato alla radice la loro struttura organizzativa adeguandola alle novità segnate dal progresso della moderna società, anche se con lentezza e talvolta con poche modifiche delle linee politiche, con lo scopo di meglio poter rispondere alle controverse riforme elettorali tentate per adeguare il soggetto politico alle aspettative della moltitudine, che segnalava la nascita un nuovo ordine inserito nella globalizzazione, a cui occorreva dare una diversa risposta in termini di egemonia politica.

Quindi non più il Partito di massa, non più praticabile l’esperienza del partito del cittadino guidato da una èlite politica, ma un nuovo esperimento con il quale testare la novità del coinvolgimento movimentista dell’opinione pubblica. Questa sembra essere la novità di questo inizio del XXI secolo, sulla quale occorre riflettere per capire quale orientamento prenderà la società del presente e quella che si appresta ad esplorare il futuro.

I confini dell’analisi non finiscono qui, poiché il vero spirito del pensiero del riformismo contemporaneo si situa nell’ambito di questa didattica politico-filosofica che, nel corso della storia, ha portato a sintesi la tendenza culturale del pensiero che si richiama alla sinistra sia radicale che conflittuale/riformista, che si manifesta con una certa forza ed in modi rappresentativi diversi nel nostro Paese. In definitiva, si tratta di riconoscere alla tendenza movimentista un orientamento transitorio all’interno della mobilitazione politica, poiché si rivolge a forze diverse: militanti, studenti, dirigenti, gruppi sociali, sindacati, che si muovono seguendo una logica di frastagliamento degli obiettivi e si presentano come movimenti minoritari, se comparati alla problematiche della società nel suo complesso e all’interno delle stesse classi che, guardate secondo le categorie della sinistra, risultano comunque subalterne al potere.

Per il fatto quindi che si sono raggiunti livelli di intensa contraddizione ( poca importa stabilire qui se ciò influenzi o meno il potere costituito economico e politico), la realtà delle cose ci spinge ad analizzare e comprendere le ragioni di questo minoritarismo originato del movimentismo, che si scopre essere divenuto lo strumento politico del nostro tempo. Non si guardi a questa pretesa contemporanea come ad una forzatura intellettualistica, filosofica o astratta, giacché la connotazione e la qualificazione sociale e culturale della materia qui sollevata coinvolge pienamente la vita politica, le lotte quotidiane e le prospettive che, con i movimenti, si intendono indicare al paese e alle classi sociali delle quali si sentono i rappresentanti. Il proposito di pervenire ad una comprensione del fenomeno è irrinunciabile, poiché risolvere oggi il punto, cioè come esprimere un pensiero maggioritario passando dai movimenti, se non altro nell’ambito della sinistra, diviene il tema e l’obiettivo culturale e politico per il quale lavorare, ciò per evitare quel processo di fraintendimento ( e frazionamento) sub-culturale verso cui stiamo indirizzando l’attenzione della classe lavoratrice e della sinistra democratica.

Sconfitta con il referendum l’idea del partito unico ed il proposito maggioritario che ne costituiva l’humus, anziché utilizzare la struttura del partito tradizionale, organizzato territorialmente ed “elemento imprescindibile nello stato moderno”, per usare il lessico Gramsciano, l’ala scissionista del PD ha optato per la costituzione di un movimento, MDP, in cui è stato possibile raccogliere le diverse correnti ideali che animano l’area frazionista. Una scissione non improvvisata e tuttavia sorprendente, poiché maturata lungo un percorso durante il quale molti provvedimenti, oggi contestati con durezza, sono stati approvati proprio con il consenso di gran parte dei fuoriusciti dal PD.

A questo punto è il caso di affermare: niente di nuovo, niente di reale, se intendiamo cercare un senso dottrinale o declinare a una novità metafisica la scelta di costituire un movimento politico, anche se indicativamente chiamato Democratico e Progressista. Una risposta minimale ad una crisi diffusa ad ogni livello: economico, sociale politico, alla quale il movimento DP, mancando di quella caratteristica identitaria del partito di classe, non ha acquisito in questo passaggio la fondamentale titolarità ad esercitare tale ruolo.

D’altro canto si deve considerare che i movimenti si distinguono dai partiti per una peculiarità loro immanente, in quanto si costituiscono per esercitare una pressione sociale limitata ad un tema specifico, anche se per la consequenzialità della sua natura, può in effetti influenzare tematiche più generali. Si prenda l’esempio dei movimenti ecologisti, animalisti, ambientalisti o di carattere sociale e civile. Spesso le forme attraverso cui sono sostenute le rivendicazioni assumono il carattere manicheo, di contrasto con altri movimenti portatori di contenuti rivendicativi opposti. Ecco, allora, che la funzione della politica, intesa come studio della situazione umana, dal singolo al collettivo, per cercare, proporre, imporre soluzioni, si evolve nel Partito, quale soggetto e sede di rappresentanza degli interessi collettivi e dei conflitti, impossibile da sostenersi nell’ambito di un movimento.

Il caso, o il fenomeno, qui esposto sembra interessare solo il nostro Paese. M5S, Forza Italia, Lega, molti gruppi della sinistra radicale, ma anche della destra estrema, il nuovo MDP e, se vogliamo essere obiettivi, anche lo stesso PD, con i suoi Circoli in luogo delle tradizionali sezioni, ha più vicinanza ad un movimento che ad un partito tradizionale. Quindi, più movimentismo che partiti. Se volgiamo lo sguardo verso Paesi dell’Europa occidentale non troviamo riferimenti di questa importanza e rilevanza.

Allora, dobbiamo chiederci da cosa origini la diversità dell’Italia, su questo tema della nascita di un orientamento movimentista, che decostruisce la funzione dei Partiti e del loro ruolo. Il sillogismo che ne discende individua nell’inettitudine della politica, nel gruppo dirigente, nelle aristocrazie che si sono impossessate dei Partiti, il fallimento del soggetto politico, che si è trasformato nel fallimento dei partiti.

In questa sede non è possibile cedere alla tentazione di aprire un filone di ricerca finalizzata alla comprensione dei processi sociali e politici che hanno determinato la fine dei partiti tradizionali, il superamento delle loro ideologie, l’obliterazione delle loro idee, poichè, come in un procedere apotropaico sono le oligarchie del potere politico a spezzare ogni legame con le masse, i cittadini. Si tratta di rendere evidente, non appena ci si svegli dal sonno della ragione, indotto artificialmente dai media e dalle élite intellettuali al servizio dell’informazione, come le vecchie ed eterne questioni divengano attuali, così i conti richiedono di essere fatti mettendo in atto il tentativo di tradurre in politica e nella realtà sociale i valori della modernità.

Nella paralisi dell’azione politica che si è costretti a registrare, a cui si associa la mancanza d’immaginazione e di prospettive, le risposte politiche di questo presente storico sono gli archetipi di un atteggiamento “astorico”, per cui si finisce con l’esaltare sia la perdita del valore educativo/gnoseologico del rapporto con il passato, sia la rinuncia a pensare ad un futuro inteso come storia da costruire da parte di tutti e di ognuno.

Alberto Angeli

Ritrovare l’unità, di C. Baldini

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Un Renzi qualunque senza alcuna cultura ha potuto imbrogliare o plagiare tanta gente. Gente che in gran parte proveniva dalla Storia, a volte dal PCI. Egli ha continuato il discorso berlusconiano del superamento delle differenze destra e sinistra. E i babbei della sinistra gli hanno creduto. Bisognerà pure capire che il peccato originale sta nella nascita dello stesso PD, che via via ha sposato più gli interessi di Confindustria che dei lavoratori.

Converrà rinfrescare che la Destra c’è ed ha convinto la Sinistra che lei non serve.

Sono di sinistra coloro che pensano che le diseguaglianze non siano accettabili e che un governo e una società debbano operare per ridurle, soprattutto ponendo in essere una condizione di eguaglianza di opportunità per tutti i cittadini. Sono di sinistra coloro che pensano che il mercato libero e sregolato insito nella globalizzazione, produca non solo diseguaglianze, ma anche ingiustizie e questi ritengono sia necessario dare delle regole al mercato, garantendo una competizione equa, e che debba essere indirizzato a conseguire obiettivi collettivi e non soltanto arricchimenti personali.

L’alternativa di sinistra si può costruire solo nel momento in cui si abbia una cultura politica di sinistra e si recuperino dei valori storicamente appartenenti alle sinistre europee; quando si progetti un welfare in grado di consentire a tutti di avere assistenza, previdenza, una formazione culturale adeguata e un lavoro dignitoso.

Se non si va in questa direzione, si perde un grande pezzo di quella che è stata la sinistra in questo continente.

Una prospettiva di sinistra la si costruisce attorno a una politica economica diversa, che comunque contenga aspetti keynesiani cioè di intervento dello Stato in molte attività che costituiscono bene comune e necessario. Certo, occorre tenere conto delle costrizioni e degli accordi a livello europeo, anzi lavorare dall’interno per cambiarli. Per questo è nata Sinistra Italiana. Che non avrà certo problemi ad accordi programmatici con qualunque forza lavori in questa direzione.

La cosa grave è che non vedo la volontà nemmeno da parte del cosiddetto nuovo centrosinistra o DP di ricostruire una cultura politica adeguata, all’altezza delle sfide europee, internazionali e naturalmente anche italiane.

Anche il sistema elettorale fa parte di questa cultura politica.

Gli elettori devono poter scegliere i candidati, e da questo punto di vista i collegi uninominali sono insuperabili, restituendo loro potere invece che lasciarlo solo ai dirigenti di partito. I tanto vituperati sistemi proporzionali possono essere molto buoni: ricordiamoci che tutta l’Europa adotta sistemi elettorali proporzionali, tranne la Francia e la Gran Bretagna, e che è il caso di comprendere che resta il sistema in grado di garantire maggiormente la rappresentanza degli orientamenti dei cittadini.

Dovremmo ragionare già da qui, in rete, noi di Sinistra Italiana con i compagni di Possibile. Così come ne abbiamo discusso a Bologna il 18 dicembre. Se la base è in grado di trovare comuni giudizi ed azzardare comuni proposte , avremmo già fatto un primo passo verso un partito unito. Perchè non scordiamo che dobbiamo poi parlare la stessa lingua sul territorio. Io ci credo.
Ed è così, solo se la gente si fida, che ci schioderemo dagli 0,.

E la nostra opposizione si farà sentire.

Claudia Baldini

Lasciate che i morti seppelliscano i morti, di R. Achilli

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Nelle parole di ieri di Bersani ci sono tutte le “ragioni” della scissione. “Non è più la Ditta”, “con Renzi non mi prendo umanamente”, “l’addio potrebbe non essere definitivo”, “credo nel centrosinistra”. Il Pd, per la componente non veltroniana degli ex Ds, nasce per prolungare, con altri mezzi, l’Ulivo a base socio-liberista ed europeista dei primi anni Novanta.

Non capiscono che il discorso del Lingotto fatto da Veltroni prefigura un partito interamente a base politica liberista, che abbandona anche i residui di solidarismo welfaristico e laburista che ancora sopravvivono in una piattaforma da economia sociale di mercato corretta con reminiscenze socialdemocratiche blande. Credono che il veltronismo non abbia la forza di conquistare il partito, che sia un fenomeno contingente che può essere distrutto con la sconfitta elettorale del 2008 e la susseguente cacciata dalla segreteria di Veltroni operata, con forza, da D’Alema. Non si accorgono che negli anni pezzi rilevanti della stessa base sociale sulla quale è stato costruito il Pd cambiano pelle.

Quel ceto medio istruito e riflessivo che negli anni Novanta forniva la base di consenso all’Ulivo chiedendo un liberalismo moderato da reti di sicurezza in caso di caduta, una ideologia dell’efficienza e della correttezza nella gestione della Cosa pubblica, un cosmopolitismo visto come motore di opportunità, esprimendo una ideologia di governismo, cioè di capacità di compromesso anche molto forte pur di rimanere dentro i meccanismi del potere, con la crisi economica degenera. L’ideologia del governismo si trasforma, con la paura di precipitare nella povertà, in conservatorismo difensivo. L’originario liberismo condito da elementi di solidarismo e l’efficientismo nella gestione degli affari e delle finanze pubbliche si trasformano in accettazione delle forme più radicali di neoliberismo, pur di rimanere agganciati al treno del potere, nel momento in cui l’Europa ci impone tale svolta.

In questa deriva, nasce il fenomeno di Renzi. Giovanilismo e rottamazione sono gli scalpi che il renzismo offre al popolo piddino per tagliare definitivamente i ponti con l’interpretazione ulivista di una sinistra moderata e di governo degli anni Novanta, ed entrare definitivamente nell’era “nuova”, senza pesi né ostacoli imbarazzanti, che potrebbero compromettere, con ricordi sbiaditi di socialdemocrazia, il nuovo “format” con il quale rimanere agganciati a potere e privilegi residui. I Sinistrati Dem, semplicemente, non capiscono la fase. Credono di essere ancora utili “coprendo” a sinistra questa operazione di svolta a destra, cercano un compromesso di sopravvivenza con il fiorentino trionfante. D’Alema, checché ne dica oggi, cerca il posto di Mr. Pesc, per uscire dalle diatribe italiche. Bersani e gli altri semplicemente una assicurazione di rimanere in pista alle elezioni. Il ragionamento della copertura a sinistra filerebbe anche, ma si scontra con la personalità, con evidenti tratti di sociopatia, tipica di Renzi. Incapace di immaginare un compromesso politico con i suoi interlocutori, Renzi vive dentro una dimensione psicologica personale di tipo salafita. Inseguendolo senza caprine la natura, i sinistrati perdono faccia, credibilità e seguito. L’unico a salvarsi parzialmente è D’Alema che, più sottile intellettualmente, capisce in anticipo l’antifona e si colloca rapidamente su una posizione di contrasto al fiorentino. Mentre Bersani ci regala le sue ineffabili metafore balbettando sul che fare al referendum, D’Alema già da mesi lavora per il No, prendendosi quella fetta i elettorato ex-Ds delusa da Renzi e rimasta ad una connessione affettiva con quell’idea di sinistra pallida che i Ds ancora incarnavano, nella loro discendenza, più attuale che effettiva, con il PCI.

Adesso, messi con le spalle al muro da un Renzi che vuole assolutamente tornare in sella, incapaci di finirlo con una strategia di logoramento che Renzi ha evitato con il congresso anticipato (mostrando peraltro più coraggio personale di loro, dimettendosi sia dal Governo che dalla segreteria) sono costretti ad uscire. Portandosi dietro le loro carabattole di sempre: l’Europa buona da riformare, gli immigrati da accogliere in quote stabilite con Juncker, l’Ulivo, il centrosinistra che fa le liberalizzazioni selvagge però, attenzione, mette in campo la social card. Sono morti che camminano, e la decomposizione gli fa perdere qualche pezzo non appena si muovono (vedi Emiliano che torna a coda bassa nel Pd). Qualcuno, magari altri morti come gli ex SEL scottiani che sognano ancora il compromesso assessorile di governo, dia loro degna sepoltura, perché in fondo per una parte della storia del Paese sono stati anche utili. Non adesso, però.

Riccardo Achilli

Lo spartiacque, di C. Baldini

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Pietro Ingrao disse:
“SEL è l’unica forza unitaria della sinistra che può ambire a governare il paese ed essere protagonista di un cambiamento reale”

Vorrei che scoprissimo questa anima che Pietro vedeva in Sel o Sinistra Italiana. Io non credo che Pietro Ingrao intendesse si dovesse continuare con il centro sinistra. Perchè Ingrao non era più rimasto a far parte dei DS? Perché la svolta della Bolognina lo preoccupava? Le risposta non è perchè lui fosse un comunista di vecchio stampo. Lui era un grande social-comunista, con ben chiari quelli che erano i cancri del nostro vivere e ben deciso ad andare in senso opposto.

Parlare di SEL era allora come dire Vera Sinistra, aperta, inclusiva verso ogni persona, movimento, associazione o partito che si organizzasse per una politica sociale innanzitutto ed economica volta all’uguaglianza dei diritti, alla giustizia sociale, alla difesa ambientale, alla redistribuzione del reddito. La forbice era troppo aperta allora.

Oggi è rotta. Ciò significa che Pietro aveva ragione e il PD torto. Un torto derivante dalla devianza verso non più obiettivi di giustizia sociale e sostegno agli ultimi, ma ad esercitare il potere insieme a chi già lo possedeva sia economico che finanziario.
Ed in questo, non solo dalle parole di Pietro, ma da quelle di Berlinguer che vedeva lontano, sono sorretta nella mia consapevolezza:

“I partiti di oggi sono soprattutto macchine di clientela e di potere ”
” I partiti hanno occupato lo Stato e tutte le Istituzioni, gli enti, gli ospedali, le università, la Rai e alcuni grandi giornali”
“La questione morale esiste da tempo, ma ormai essa è diventata la questione politica prima ed essenziale perché dalla sua soluzione dipende la ripresa di fiducia nelle istituzioni, la effettiva governabilità del paese e la tenuta del regime democratico.”

Da tempo il Partito Democratico che pure aveva illuso molti di noi, ha deviato pesantemente dal socialismo. Ha distrutto la stessa ideologia socialista predicando che non hanno senso le parole destra e sinistra e dandone valida prova. Conta solo sui plebisciti a favore del Capo e non condivide nulla della politica economica aticapitalista e liberista pur mediata in socialdemocrazia. E’ vero, quando dico Partito Democratico potrei dire, tranne una piccolissima parte.

Benvenga allora quella piccolissima parte, ancora forse con idee socialiste in testa a discutere con noi e fare cose buone per il Paese. Noi siamo aperti. Siamo chiusi totalmente ai partiti, persone, movimenti che sbeffeggiano il socialismo e il popolo sovrano. Non si è socialisti perchè si è entrati nel PSE. Anzi, a ben guardare quel partito è la copia del PD. Come lo è quello francese

Al male di partito, si è aggiunto in questi ultimi tempi il male del Berlusconismo continuato in Renzismo. Se in un partito, che alcuni insistono a chiamare impropriamente di sinistra, si è giunti a tanto, non capisco proprio chi teorizza unità della sinistra includento quel partito.
Lo spartiacque per me è chiaro: noi dobbiamo ritrovare la nostra gente, il nostro popolo, ci vorrà tempo, ci vogliono belle intelligenze e comprendere fino in fondo che significa Questione Morale.Quindi dobbiamo guardare a chi ci assomiglia nei nostri valori, non a chi ci snobba e ci usa come stampella.

Cerchiamo di andare al congresso uniti. Sì, va bene, cerchiamo, è indispensabile, ma la questione è di spessore, è vitale Socialismo o Liberismo nei valori, nel convivere, in economia.
Tutti dovrebbero fare lo sforzo di capire che l’unica cosa che manca al Paese è un Partito di sinistra, SOCIALISTA, non certo dei centri o delle destre. Se tutti crediamo che ci voglia , unità si trova , altrimenti io non vedo purtroppo una seria unità.

Claudia Baldini.

Facciamo un po’ di conti a sinistra dopo il referendum, di S. Valentini

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Quasi tutti i commentatori e molti politici che pascolano, nonostante il No al 60%, tranquillamente nelle televisioni e in tutti i media possibili, fanno molta fatica ad ammettere che questa non è la stata la vittoria del popolo sul “palazzo”, dominato dai poteri forti, italiani, europei e internazionali, a cominciare dall’alta finanza, bensì, avvertono, è stata la vittoria di 5 Stelle, della Lega, del populismo. Ora occorre porre subito riparo, contrastare adeguatamente l’eversione populista, questo movimento “anti-sistema”. Ma le cose stanno veramente così?
Dallo studio dei flussi elettorali emergono alcuni dati significativi. Tre sono quelli che mi hanno più colpito, al di là delle tante chiacchiere.

Il primo, 25 elettori su 100 del Pd hanno votato No; il secondo, 16 elettori su 100 di Forza Italia hanno votato Si, non compensando le perdite del Pd a sinistra, verso il No delle ragioni appunto della sinistra: Il terzo, la stragrande maggioranza dei giovani e della popolazione in età media hanno votato No, il Sì prevale, di poco, solo tra gli elettori oltre i 64 anni. Questo sta a significare che la proposta di “cambiamento” dell’Italia avanzata da Renzi ha ottenuto consensi soprattutto tra gli anziani e i pensionati e che la sua famigerata “maggioranza silenziosa” altro non è che una minoranza molto rumorosa, dal momento che il 64% degli incerti e di quelli che in questi anni non sono andati a votare hanno espresso un chiaro voto per il No e non credo che siano tutti attratti dal “populismo” di 5 Stelle o della Lega.

Emerge dall’analisi del voto un dato politico che pochi dicono e mettono in evidenza: il ruolo decisivo della sinistra nel successo per il No che si può quantificare tra il 12 e il 16 per cento, non mi pare poco! 
Ed è da questo dato che occorre ripartire per ragionare sul futuro della sinistra e di conseguenza del Paese. Si dice che Renzi ha un omogeneo 40%. Anche questo è un dato non esatto. Il Pci di Berlinguer prese al referendum sulla scala mobile il 47% e lo perse per il disimpegno della destra migliorista, a iniziare da Napolitano, e prese subito dopo nelle elezioni politiche il 27%! Attenzione dunque, per tutti, a riportare il voto dei referendum sul eventuale orientamento politico degli italiani. Questo ragionamento, ovviamente, vale per tutti, quindi anche per la sinistra. Per questo parlo di un 12/16 per cento potenziale. La questione è come trasformare questo bacino elettorale sul referendum in un voto chiaramente di sinistra.

Credo che per questo obiettivo occorrano che si realizzino alcune condizioni; in mancanza delle quali il rischio è ripercorrere strade già battute, di andare incontro ad altre sonore sconfitte e brutte delusioni.
La prima. Occorre costruire un nuovo soggetto politico, non una semplice lista elettorale; un nuovo soggetto politico che non sia però la sommatoria soprattutto del ceto politico esistente a sinistra. La sommatoria infatti somma le debolezze, non dà forza, nuova linfa. E un soggetto politico lo si costruisce avviando da subito un percorso costituente dal basso verso l’alto, non con gruppi dirigenti locali e nazionale già precostituito. Per questo, come sostiene il Sindaco di Napoli De Magistris, bisogna partite dai territori, dalle realtà di movimento, da chi in questi anni ha condotto appunto sul territorio battaglie importanti per la pace, il lavoro, i beni comuni, la tutela dell’ambiente. Una fase costituente di cui eventualmente la lista elettorale è un passaggio e non l’approdo.
In questo processo, seconda condizione, è necessario coinvolgere tutti, tutti quelli che ci stanno, senza pregiudizi, ad iniziare da chi ricopre responsabilità importanti, dirigenti sindacali e dell’associazionismo, amministratori locali e regionali, intellettuali.
La terza condizione, non meno importante, è quella di avere una linea chiara in grado di candidare la sinistra come forza credibile al governo del Paese, di essere alternativa al centrodestra, a 5 Stelle e a qualsiasi tentativo di rivincita del renzismo di riproporci l’avventura neocentrista del partito della nazione. Non abbiamo bisogno di una sinistra identiraria chiusa nel suo recinto, ancora una volta minoritaria che si accontenta del solito 3 per cento, ma abbiamo bisogno di una sinistra che mentre si costruisce e si rafforza, nel vivo della lotta e con un robusto radicamento sociale, costruisce un campo democratico e progressista con tutti quei soggetti politici interessati al suo progetto di non consegnare l’Italia senza combattere ad altri o magari nuovamente allo stesso Renzi. Per questo massima attenzione al dibattito e allo scontro in atto nel Pd; là c’è un pezzo non irrinunciabile al nostro progetto.

Una domanda è però d’obbligo. Sarà capace il ceto politico che oggi a in mano le sorti future della sinistra italiana a fare tutto ciò? Questo è il vero punto di domanda. Senza questa condizione continueremo a vivacchiare nella marginalità del dibattito politico, Ad accontentarci magari di aver migliorato la nostra percentuale elettorale passando dal 3 al 4 per cento mentre il potenziale del nostro bacino elettorale come ci dice il referendum è a due cifre. Emergerà a sinistra una nuova leadership in grado di compiere questo salto di qualità. Questa è per l’oggi la scommessa politica.

Alessandro Valentini

Un NO in difesa dello spirito repubblicano. Scritto soprattutto per i più giovani, di S. Valentini

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Che la seconda parte della Costituzione dovesse essere modificata, mentre la prima parte – quella dei principi fondamentali – dovrebbe finalmente essere completamente attuata, è fuori discussione.
Dovrebbe essere modificata per riordinare i rapporti tra Stato e Regioni (comprese le cinque Regioni a Statuto speciale, che sono divenute sempre più un pozzo senza fondo di spreco enorme di risorse pubbliche) e per razionalizzare e rendere più veloce ed efficace il momento legislativo con la costruzione dell’Unione europea e la elezione a suffragio popolare del suo Parlamento. Occorre avere solo tre livelli legislativi: europeo, nazionale e regionale. Per questa ragione il Senato dovrebbe essere trasformato in Camera delle autonomie come nel modello istituzionale tedesco, mettendo così fine al bicameralismo paritario, con una riduzione drastica del numero dei parlamentari, non più di 500 Deputati e 200 Senatori.

Ma le proposte di modifica costituzionale approvate a maggioranza dal Parlamento (la stessa che sostiene a colpi di voto di fiducia l’esecutivo) su iniziativa e impulso del governo non prevede tutto ciò. È a voler essere buoni sono un pasticcio che determina confusione e una pericolosa instabilità delle istituzioni, rischiando di favorire l’onda montante in corso nel Paese di ogni genere di populismo; a voler essere cattivi riducono gli spazi di democrazia in quanto modifiche costituzionali e combinato disposto dell’Italicum (la legge elettorale definita da Renzi la migliore del mondo), consegnerebbero a una minoranza anche del solo 30 per cento dei votanti – si badi – una maggioranza parlamentare del 51 per cento.

La questione non scandalizza più di tanto Sabino Cassese, autorevole costituzionalista del Sì, che candidamente ha detto che la democrazia è il governo della minoranza più forte perché questo è ciò che emerge dai cosiddetti sistemi liberaldemocratici con un’economia di mercato. Alla malora dunque la conquista del “principio una testa un voto”, realizzata con lacrime e sangue a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento dal movimento democratico, socialista e comunista, tramite il suffragio universale (comprese le donne) per attuare pienamente un regime democratico effettivamente rappresentativo.
Una proiezione dei 100 senatori che dovrebbero comporre il nuovo Senato (95 dei quali saranno eletti dai Consigli regionali, di cui 21 Sindaci e 74 Consiglieri regionali e 5 nominati a vita dal capo dello Stato) mostra che il Pd avrebbe quasi la maggioranza, la quale sarebbe ottenuta con i Consiglieri regionali Senatori eletti dai partiti locali delle Regioni a Statuto speciale (si capisce così il senso del voto di scambio sancito dalle modifiche costituzionali per cui i due Senatori della Valle D’Aosta rappresenteranno 40.000 elettori ciascuno mentre i Senatori delle Marche rappresenteranno 700.000 elettori ciascuno! ) e dai senatori a vita.

Lo scenario a questo punto sarebbe semplice: maggioranza parlamentare schiacciante al partito che ha appena un terzo dei voti dei votanti, cioè al Pd, Presidente della Repubblica sempre allo stesso partito (eleggibile tra l’altro con la maggioranza dei votanti presenti), Corte Costituzionale monopolio sempre del Pd. Non male come progetto del governo della minoranza più forte!

Nel merito poi non è vero che si supera il bicameralismo, il Senato continuerebbe ad avere importanti poteri: partecipare alla elezione del Presidente della Repubblica, eleggere la sua quota di componenti nella corte Costituzionale, ratificare i trattati internazionali e richiedere di valutare le proposte di legge della Camera se un terzo ne farà richiesta, con buona pace per chi sostiene che sarebbe abolita la famosa “navetta” tra le due camere! Dalle modifiche costituzionali si comprende solo che i Senatori saranno eletti dai singoli Consigli regionali tra i loro membri, mentre 21 saranno i Sindaci, che dovranno essere scelti tra gli oltre 8.000 Sindaci degli altrettanto 8.000 Comuni italiani.

Dunque ci tolgono la possibilità di votare i Senatori per cui la composizione di questa Camera sarà totalmente nelle mani delle trattative nei e tra i partiti, a livello locale e nazionale, come già avviene con la Composizione dei Consigli delle aree metropolitane e oggi per le Province decostituzionalizzate, ma non soppresse. Infine saranno nominati Senatori, con tanto di immunità parlamentare e probabilmente con lauti rimborsi quei Consiglieri regionali che non troveranno spazio nella giunta come assessori, nel governo del Consiglio e della Presidenza o come Presidenti delle Commissioni. Sarà quindi il personale politico meno qualificato dei Consigli regionali, spesso quello inquisito, che andrà a comporre il cosiddetto Senato delle regioni e delle autonomie.

Anche nel rapporto tra Stato e Regione le modifiche costituzionali presentano una forte negatività. Si attua con queste proposte una nuova centralizzazione dei poteri in mano dello Stato senza tra l’altro una riforma vera della pubblica amministrazione. Un processo forte di accentramento (non è questo un ulteriore segnale di riduzione degli spazi di democrazia?) mettendo sostanzialmente in discussione l’ordinamento della Repubblica che si articola in Stato, Regioni e autonomie locali.

Il paradosso è che si affida ai Consigli regionali il compito di comporre il Senato ma gli stessi sono privati di poteri importanti per realizzare le politiche territoriali. Ovviamente le 5 Regioni a Statuto speciale resteranno fuori da questo processo accentratore. Potranno impunemente continuare a spendere e sperperare risorse pubbliche!

Si dice che questa riforma è un primo passo per modernizzare il Paese, per cambiare. Non si comprende però perché non siano state poste tra le modiche costituzionali alcune questioni di grande importanza per il futuro del Paese.

Prima di tutto sopprimere la norma della parità di bilancio voluta in Costituzione dal centrodestra e avallato dal Pd. Renzi vuole fare un braccio di ferro con l’Unione europea per avere meno austerità e più politiche per la crescita, però nulla dice e ha fatto per togliere dalla Costituzione una norma che sancisce in termini costituzionali proprio le politiche di austerità.
Si dice di voler maggiore stabilità di governo ma non si è voluto introdurre la norma della fiducia costruttiva alla tedesca con la quale si evitano crisi al buio riducendo il trasformismo e il malcostume del cambio di casacca passando da un gruppo parlamentare all’altro o con la nascita di gruppi il cui unico scopo è sostenere una maggioranza non espressione del voto popolare per avere qualche poltrona ministeriale.

Si dice infine di voler ridurre i costi della politica, ma non si riducono il numero dei deputati e soprattutto non si mette mano al riordino della miriade di enti intermedi non elettivi che prosperano tra Comune e Regione (Comunità montane, Consorzi, ect), come non s’intende rimuovere quell’istituto napoleonico a-democratico del Prefetto.

L’aspetto però più grave e persino pericoloso di queste modifiche è che hanno messo in discussione quello spirito repubblicano che animò i padri costituente nella stesura della Carta: la Costituzione è di tutti, non di una parte e le sue eventuali modifiche non possono assolutamente essere ridotte come attuazione di un programma di governo su cui formare una maggioranza parlamentare.
La contrapposizione tra la Dc e il Pci era forte, tra l’altro in una situazione internazionale caratterizzata dalla divisione del mondo in due sfere d’influenza, quella Usa e quella Sovietica. Ma i padri costituenti seppero dar vita, nonostante ciò, a una Costituzione da tutti pienamente condivisa, considerata tra le migliori del mondo e della storia dell’umanità; ma soprattutto si evitarono crisi istituzionali e momenti di tensione tali da mettere in pericolo la convivenza civile e democratica di un popolo ideologicamente diviso da profondi solchi e alti steccati.

Con questo referendum sta passando l’idea invece che una maggioranza parlamenta può modificare profondamente la Costituzione. Avevamo già avuto esperienze negative del genere, sia da parte del centrosinistra sia del centrodestra; ma le corpose modifiche che il Pd di Renzi vorrebbe introdurre rappresentano un pesante e pericoloso salto di qualità non solo per porre in soffitta la Carta costituzionale, ma anche lo spirito con cui i costituenti avevano con grande impegno lavorato nello scrivere la Costituzione, prolungando quell’unità democratica realizzatasi con la Resistenza. Renzi avrebbe dovuto muoversi con maggiore cautele e prudenza anche perché il Parlamento è stato in parte delegittimato dalla Corte Costituzionale che lo ha considerato eletto da una legge non del tutto conforme ai principi costituzionali.

È vero la prima parte, quella dei principi fondamentali, non è stata toccata da queste modifiche, però l’aver brutalmente rimosso lo spirito repubblicano, anche in modo plastico, con il Presidente del Consiglio, ministri e sottosegretari impegnati a sostegno del Sì, fino a legare l’esito del referendum con la tenuta del governo, sviliscono la Carta costituzionale anche in quella parte sulle grandi enunciazioni di principio. L’aver cosparso questo veleno nel Paese è la più grave delle responsabilità politiche e storiche del Pd di Renzi. Solo se fosse per questo, per le lacerazioni e nuove divisioni che si stanno introducendo e producendo nel Paese, occorre votare No.

Alessandro Valentini