elezioni
Renzi, le riforme e la Costituzione, di M. Ferro
Renzi dovrebbe smettere di turlupinare gli italiani con bugie e falsità sul problema delle riforme istituzionali.
Non è vero che le riforme istituzionali le ha chieste l’Europa. Anzi sarebbe gravissimo se così fosse. I Paesi europei non possono permettersi di interferire sulle modalità che ciascun Paese ha scelto per organizzare, secondo la propria storia e le proprie tradizioni, il sistema di democrazia interna, purché questo sistema rispetti i principi fondamentali della democrazia parlamentare.
L’Europa ha chiesto di riformare il nostro sistema economico perché esso sia confacente con le regole economiche che regolano l’Unione. (ed anche su questo ci sarebbe da obiettare che il nostro sistema economico deve rispondere, non solo alle esigenze dell’Europa, ma prioritariamente alle esigenze irrinunziabili del nostro Paese, soprattutto in materia di lavoro e di occupazione, ma anche di sviluppo e di protezione internazionale del nostro sistema industriale).
L’obiettivo di Renzi è quello di costruire un sistema parlamentare che sia il più controllabile possibile da parte del Governo. La riforma del Senato con un sistema elettorale indiretto che rischia di creare un Senato quasi monocolore, un sistema elettorale maggioritario che cancella totalmente il principio costituzionale della rappresentatività e che consente ai Capi dei Partiti di scegliere i deputati secondo il loro grado di sudditanza, costituiscono il più grave e subdolo tentativo nella storia della Repubblica di attentato alla nostra Democrazia.
Tenuto fermo il principio dell’intoccabilità della prima parte della Costituzione, la seconda Parte, l’Ordinamento della Repubblica, può avere, nel corso del tempo, necessità di adeguamento alle mutate situazioni politiche e sociali, ma tali interventi debbono tener conto degli equilibri e dei contrappesi che i Nostri Padri costituenti riuscirono ad introdurre nella Carta costituzionale. E’ perciò senz’altro possibile rivedere i poteri e le competenze del Senato tenendo conto che comunque questo deve esercitare un potere di controllo e di seconda lettura su alcune importanti materie rilevanti per l’intero sistema democratico.
Per quanto riguarda la Legge elettorale Renzi sa perfettamente che l’attuale proposta dell’italicum presenta notevoli aspetti di incostituzionalità e quindi è soggetta ad essere respinta dalla Corte costituzionale, ma sa anche che i tempi che la Corte impiegherà per farlo sono talmente lunghi che comunque la nuova legge può essere utilizzata per almeno due legislature e questo gli permetterebbe comunque, per questo periodo, di governare con un Parlamento costituito a sua immagine e somiglianza.
I più rilevanti aspetti di incostituzionalità della legge elettorale riguardano il premio di maggioranza che potrebbe consentire ad un Partito che ottenesse il 37% dei voti di impossessarsi del Governo del Paese a scapito del rimanente 63% dei cittadini che non lo hanno votato, e le soglie di sbarramento che impedirebbero a organizzazioni politiche che pur ottenendo un rilevante numero di voti (4% o perfino l’8%) di essere rappresentati in Parlamento (in tutte e due i casi il principio di rappresentatività verrebbe disatteso).
L’unica speranza per evitare questa deriva è che i Parlamentari (Deputati e Senatori) che hanno a cuore le sorti della Democrazia e il rispetto della Costituzione, indipendentemente dalla loro appartenenza politica, votino secondo la propria coscienza e non secondo le indicazioni dei propri Capi – partito.
Michele Ferro
PD, il primato dell’economia sulla politica, di G. N. Marras
Nello spazio politico che dovrebbe essere occupato dalla sinistra, la candidatura di Tsipras rappresenta un importante segnale per uno specifico motivo: conferire centralità e importanza ad un paese come la Grecia, regione periferica dell’eurozona e vittima sacrificale delle politiche di austerity decise sull’asse Bruxelles-Berlino. Tutti sappiamo che la crescita esponenziale dell’intelaiatura burocratico-amministrativa degli organi di governo dell’Europa non si è tradotta in una crescita della coesione sociale dell’Europa, (o nel concetto filosofico-politico dell’Europa dei popoli) bensì in politiche di rigore fiscale e austerity. Bisogna invertire questa tendenza e i paesi del Mediterraneo sono chiamati per raccogliere questa sfida. L’Altra Europa con Tsipras si presenta quindi come foriera di opportunità, il movimento che si sta costituendo in queste settimane potrebbe innescare quella scintilla necessaria per avviare una discussione necessaria in Italia: offrendo la storica occasione di elaborare un nuovo soggetto politico a sinistra, aperto e plurale. Una forza rappresentativa in grado di condannare le conseguenze sociali di un capitalismo finanziario predatorio, talvolta, perpetuato nella sua forma edulcorata del liberismo di sinistra. Forze politiche come il PD hanno perpetuato, e tuttora continuano a confermare, un modus operandi attendista in materia di gestione e programmazione della linea politico-economica abbracciando totalmente dettami conformi alla dottrina liberista laissez-faire. La proposta politico economica di un partito che si dice di sinistra deve andare in direzione di un monitoraggio delle attività dei mercati al fine di favorire un direzionamento delle risorse finanziarie verso attività realmente produttive piuttosto che verso quelle speculative. Difesa del Welfare e valorizzazione il capitale umano per la creazione di vero lavoro, le regole d’azione per un partito che si proclama “di sinistra”. Partiti come il PD hanno invece favorito una progressiva infiltrazione di oligarchie finanziarie all’interno dei loro organi di potere, una scelta che rischia di innescare un processo distruttivo per lo stato sociale e i diritti dei cittadini europei svantaggiati che vivono nella periferia dell’eurozona. La disoccupazione di massa, l’incremento statistico dei rapporti di lavoro precari e degli junk jobs, riduzione forzata dei salari (si veda il caso Electrolux), distruzione di migliaia di posti di vero lavoro, sono fenomeni accentuati dalle politiche di austerity e fanno ricadere sulle famiglie il peso della recessione economica. Nel frattempo ad essere in pericolo è la stessa democrazia, in tutta Europa si riaccendono pericolosi focolai populisti e xenofobi, l’euroscetticismo (sia di destra che di sinistra) impazza dalla Bretagna fino all’Attica. È necessario rivedere i trattati europei come il fiscal compact, il patto di stabilità, e il piano europeo per il lavoro, riformare il sistema bancario, (separando definitivamente le banche di risparmio e credito dalle banche speculative d’investimento) , favorire un “New Deal” che garantisca un forte intervento pubblico nell’economia. Permane in numerose orientamenti politici del centrosinistra italiano, l’illusoria convinzione dell’attuabilità di un progetto riformista della politica che trascuri totalmente l’analisi sugli aspetti finanziari e lobbistici che muovono la stessa politica nel mondo globale. L’attuale crisi è la conseguenza di sconsiderate scelte dei governi sul piano finanziario globale. Le scelte del PD dimostrano come il partito confidi in una sorta di autoregolazione del mercato economico, demandando il ruolo di monitoraggio del mercato al potere finanzcapitalistico personificato dalla finanza globale. Nulla di più assurdo, un mercato autoregolato è mera utopia. In questo senso giungono straordinarie analisi e considerazioni elaborate con magistrale lucidità da autori classici come Marx, Polanyi, Keynes, Schumpeter, Federico Caffè, Hyman Minsky, e più recentemente anche da autori “liberals” come Krugman e Stiglitz. L’egemonia neoliberista corre (anche e soprattutto) sul filo dell’informazione: idee liberiste ammantano le narrazioni dei media generalisti e col tempo hanno imposto un nuovo registro di valori dominanti per la sinistra, cementando nella coscienza dei cittadini che si dicono orientati a sinistra, teorie che promuovono le privatizzazioni come lecite e giuste. L’appiattimento dell’orizzonte critico e analitico della sinistra europea non consente di affrontare con autorevolezza e serietà il complesso fenomeno della globalizzazione economica e culturale in corso: la delocalizzazione della produzione (transplant), la finanziarizzazione dei sistemi industriali, sono evidenti segnali di un ridimensionamento dell’economia reale oggi ridottasi a giochi borsistici gestiti da holding transazionali. La distruzione creatrice del capitalismo magistralmente descritta da Schumpeter. Tornando alla politica, all’interno dello scenario italiano, numerosi militanti del centro-sinistra perpetuano l’illusoria e utopica convinzione che un PSE condizionato dall’interno possa essere un autorevole propugnatore di valide soluzioni per la crisi e le problematiche strutturali dei paesi euromediterranei. La lista Tsipras si pone in rottura totale con questi orientamenti liberisti che hanno preso piede nella sinistra politica. I detrattori del progetto consci della potenziale erosione del consenso dei partiti a cui sono legati fanno piovere le prime critiche. La maggior parte delle critiche mosse da sinistra giungono da tutti gli individui protagonisti della oramai solida tradizione della sinistra frazionista italiana. Questi non si stancano di contestare il progetto, e, comodamente imbracciati alla loro tastiera, scrivono articoli al vetriolo, dove la lista Tsipras viene sempre dipinta con giudizi complessivi apocalittici e negativi. L’artificio retorico e dialettico è il miglior strumento per mascherare il rancore per l’assenza “iconoclastica” di un simbolo di riferimento, gelosie pregresse, pregiudizi diffusi e revanchismi correntizi di partiti in via di dissoluzione ora divenuti fortemente ridimensionati in termini di consenso elettorale. Da destra i liberisti di sinistra distribuiti tra varie forze politiche, gettano facilmente discredito evidenziando –le peraltro lecite- riserve sul ruolo degli intellettuali nella costituzione della lista, altri ancora forti dell’egemonia neo-liberista dei media, hanno prontamente bollato il progetto “L’altra Europa con Tsipras” affiancando nelle narrazioni giornalistiche che lo riguardano, aggettivi come “comunisti”, “radicale” al fine di affibbiare un’etichetta estremistica per delegittimare agli occhi dell’opinione pubblica europea la valenza della proposta. In questo orientamento culturale rientrano a pieno titolo anche sia i fassiniani e i civatiani che, nonostante la loro debacle politica all’interno del PD, si sono sentiti chiamati in causa (chissà perché) e hanno seguito gli sviluppi del processo di costruzione della lista Tsipras, volgendo timidissimi encomi per il progetto. Interessante oggetto di discussione è l’indiscutibile movimento d’opinione messo in moto all’interno del PD dal “disobbediente democratico” Civati. Il suo operato politico non è da considerarsi come insignificante: la passione politica e la compilazione tematica messa in moto dal suo movimento d’opinione, risulta essere uno dei principali indicatori di un desiderio politico, quello di immaginare una realtà alternativa all’attuale panorama politico e culturale del PD. Impossibile sminuire il lavoro e la passione politica che ha animato la chimerica illusione civatiana di un PD di sinistra. La gratuità e la spontaneità di tanti (non troppi) militanti che animano la base di quel partito, non serve però a garantire un’alternativa praticabile, nonostante tanti di loro continuino a dedicarsi all’attività politica nelle sedi e nei circoli con passione e speranza. È la buona faccia del partito, quella delle timide buone pratiche. Ottimi propositi che certo non bastano per invertire la tendenza dominante che anima il PD, quella forma mentis affaristico-lobbistica che ha contaminato anche parte consistente della base, un agire sociale strumentale mosso dalla convenienza immediata estranea alla logica della gratuità delle idee. Ergo il problema nel caso di Civati è la prassi, la strategia pragmatica per la realizzazione politica delle proposte avanzate. I civatiani si configurano quindi come incapaci di guardare a sinistra, forse intimoriti dall’idea di superare un qualche tipo di invisibile limes dell’ortodossia socialista. Chissà. Allora mi rivolgo anche ai civatiani ricordando loro che è dalla società civile che dovrebbe emergere la politica. Con questo intendo dire che un politico di sinistra che desidera maturare una profonda conoscenza riguardo la composizione sociale del suo potenziale elettorato, o quello cui sostiene di volersi rivolgere, deve necessariamente avvicinarsi alle esigenze e ai bisogni di quei gruppi sociali esclusi dalla rappresentanza. Un progressivo processo di “insalottimento” (più che imborghesimento) ha allontanato quel partito dal paese reale. Quindi è dal magma sociale che dovrebbe emergere la politica, l’alternativa dovrebbe crearla lo stesso Civati se solo avesse il coraggio di maturare una scelta: mettere al servizio di tutte le persone della sinistra cui desidera rivolgersi, i contributi e le analisi elaborate nei suoi mesi di lavoro, maturare un progressivo dialogo con le realtà escluse dalla rappresentanza politica di sinistra (e sono tante) occupando finalmente uno spazio a sinistra in grado di coagulare sempre nuovi consensi e perché no partecipando attivamente alla costruzione della lista Tsipras. Tanti sono i cittadini che rimasti delusi dalla politica hanno rimpinguato le percentuali elettorali del M5S, perché esausti dalla oramai innegabile prassi affaristico-clientelare che avvolge parte consistente del PD. Altri continuano a vedere nell’astensionismo l’unica soluzione, altri ancora ripiegano sul tradizionale voto di scambio poiché proletarizzati dalla crisi economica. Se Civati e i suoi avranno il coraggio e l’intenzione di rivolgersi a questi gruppi sociali, piuttosto che al salotto di Montecitorio, avranno la possibilità di mostrare ai potenziali elettori se la loro è una “disobbedienza democratica” è fine a se stessa o è una convinzione ideologica indirizzata verso il desiderio di un’altra politica. Personalmente non credo che il personaggio Civati abbia il coraggio di mettere al servizio della comunità della sinistra extrapolitica i contributi sopra descritti, però non si può richiedere uno sforzo più alto: sganciarsi dal PD per lui e i suoi seguaci significherebbe abbandonare quella visione incantata, quella granitica illusione della scelta del percorso più comodo quando ci si trova davanti ad un bivio. Egli in quanto esponente del PD, è orientato verso un’idea di partito a vocazione maggioritaria, difficile che possa scegliere di mettere a disposizione il suo lavoro, le competenze e il consenso raccolto in questi anni da lui e dal suo staff a vantaggio di un partito minoritario (elettoralmente parlando) come SEL che per giunta ha scelto di avviare un processo costituente interessante per la lista Tsipras, quindi il dialogo e il confronto con altre realtà sociali della sinistra. Amici civatiani del PD abbiate il coraggio di ammetterlo: la poltrona è comoda e ci vuole un coraggio da leoni per abbandonarla a vantaggio di un cantiere incognita a sinistra del PD. L’errore storico dei partiti tradizionali è quello di essersi rinchiusi in una metodologia di valutazione complessiva degli individui calibrata solo esclusivamente sull’appartenenza politica e sulla loro capacità di “muovere voti”. Certo siamo in democrazia rappresentativa e i voti sono quello che conta, ma bisogna avere la lucidità di realizzare che viviamo in una società del lavoro in cui numerose persone operano e lavorano nell’associazionismo, nei movimenti e nelle battaglie civili, nella maggior parte dei casi le persone che si dedicano a queste battaglie acquisiscono competenze trasversali (organizzazione, gestione, amministrazione) ben più edificanti e costruttive della maggior parte delle pratiche politiche tradizionali. Non è proficuo ignorare completamente che il processo in atto di disaffezione e allontanamento dalla politica ridimensiona fortemente a livello elettorale ogni finalità diretta al cambiamento e alla gestione e valorizzazione dei nuovi fermenti sociali. Rinnovo ai critici e ai detrattori naif della sinistra extraparlamentare il suggerimento di non essere troppo “choosy” (usando una celebre espressione in voga nei tempi dei governi commissariati dalla BCE) perché le opportunità di ricostruzione della sinistra prima o poi cesseranno definitivamente. Non vorrei che proprio gli attuali detrattori della lista cadano dalle nuvole, come accadde in occasione delle politiche nazionali italiane del febbraio del 2013, quando il M5S sbancò alle urne. Ricordo quindi che il M5S sarà presente alle europee, non stupitevi se il populismo e la demagogia diverranno di casa nel parlamento europeo (o forse lo sono già vista la presenza di deputati leghisti?). L’importante è che questo promemoria arrivi alla sinistra radical-naif. Affinché la sinistra italiana non rimanga la sinistra del “qualcun altro avrebbe dovuto”. Dipende tutto da noi, anche questa volta.
Gian Nicola Marras
giornalista dell’edizione sarda de “Il manifesto”
Articolo pubblicato il 16 marzo 2014 dal sito: http://www.manifestosardo.org/pd-il-primato-delleconomia-sulla-politica/
Passo dopo passo, di S. Valentini
Pur tra tanti limiti e contraddizioni s’intravvede, dopo il voto alla europee, l’avvio a sinistra di un processo nuovo, in forte discontinuità con le esperienze fallimentari dell’ultimo decennio. Aver superato lo scoglio del quorum del 4%, dopo anni di rovinose sconfitte elettorali, apre nuovi scenari e orizzonti.
L’Assemblea Nazionale di Sel va in questa direzione. Per questo sono da considerare positive le conclusioni dei suoi lavori, pur restando nell’ambito del partito divisioni e opzioni diverse. Divisioni e opzioni diverse che si sono immediatamente manifestate nel gruppo alla Camera dei Deputati di Sel sulla discussione di quale orientamento avere sul provvedimento del Governo sugli 80 euro. Discussione forte che ha portato tra l’altro alle dimissioni di Migliore da Capogruppo.
L’accento della discussione è ora spostato sulla natura e sui caratteri di una forza di sinistra, con un Pd – renziano – a oltre il 40%, con la brusca frenata del Movimento 5 Stelle, che comunque resta il secondo partito in Italia, ma dove emergono diverse e significative contestazioni alla linea di Grillo, e un centrodestra in crisi che non riesce, per ora, a uscire dalla tenaglia del berlusconismo. Non poteva che essere così. Anche la vicenda dell’opzione di Barbara Spinelli va inquadrata come momento di questa discussione.
La Lista Tsipras ha prodotto un risultato politico importante. Per la prima volta, dopo tanti anni, la sinistra si è presentata ad una elezione con una sola lista. È questo un dato da non sottovalutare. La necessità di superare il quorum ha unito, ha fatto prevalere un po’ in tutti una spinta forte all’unità. Ma la spinta all’unità, che è comunque un valore da coltivare, non è un progetto politico. Per questo la Lista Tsipras nata come “cartello elettorale” non è in grado di trasformarsi, come le vicende post-elettorali confermano – in un centro propulsivo per la costruzione di una influente sinistra . Nel suo ambito infatti si fronteggiano diverse e radicate opzioni culturali, prima ancora che politiche e strategiche. Diversità che impediscono la trasformazione della Lista in un embrione di un nuovo soggetto politico. Di questo, senza faziosità ed eccessive polemiche, occorre prendere atto.
Il rilancio su basi del tutto nuovo di una moderna sinistra del XXI secolo non passa e non passerà su operazioni elettorali, sia pur importanti, da non sottovalutare, ma dalla condivisione di un progetto politico alla cui base vi deve essere la ricerca di una identità culturale comune. Con ciò non si vuole sostenere la marginalità del valore delle intese elettorali, quando sono possibili e necessarie, ma solo evidenziare il concetto – non sempre chiaro a sinistra – che tale ricerca non va confusa con quella ben più importante di indicare un progetto, un percorso di ricostruzione della sinistra appunto su basi nuove, lasciandoci alle spalle le macerie dell’ultimo ventennio. I firmatari dell’Appello per la costruzione a Roma delle “Case per la sinistra unita” hanno sostenuto con grande determinazione la Lista Tsipras senza però indicare preferenze di candidature e soprattutto non hanno aderito al Comitato elettorale di Coordinamento. Sappiamo che con questa scelta abbiamo suscitato qualche antipatia e che c’è chi ci ha guardato con sospetto, ma a noi interessava e ci interessa il progetto politico e non un passaggio elettorale sia pur decisivo. Per questo siamo nati e per questo lavoriamo. Il passaggio elettorale o s’intreccia in termini fecondi con il progetto o rischia di divenire esclusivamente un momento elettoralistico senza nessun respiro strategico; un passaggio che inizia e si conclude con una elezione e magari con una rappresentanza istituzionale del tutto autoreferenziale.
A rieleggere il nostro Appello a distanza di alcuni mesi pare che sia stato scritto ieri, all’indomani del voto e della discussione che si è aperta.
Al centro della discussione infatti non vi è oggi – pare un paradosso – il valore dell’unità, ma il carattere e la natura della sinistra, che resta ancora strettamente schiacciata tra radicalismo e subalternità. Il risultato delle urne in questo senso non aiuta. Dal voto la spinta al settarismo e a visioni identitarie e residuali traggono nuove motivazioni, come altrettanto trae nuovi argomenti la tendenze di racchiudere l’azione politica nel campo ampio del Pd, magari insieme ad altre forze, come il Psi e alcune aeree moderate di centro, che avevano prima in Monti il punto di riferimento. Negli ultimi vent’anni si è predicato molto sul tema dell’autonomia. Ma questa autonomia raramente è stata coltivata e praticata come necessità di affermare una propria cultura tramite la quale lavorare per un insediamento sociale. Purtroppo l’autonomia è stata esclusivamente coniugata e messa in relazione, positivamente o negativamente, al tema delle alleanze, degli accordi elettorali e di governo. Per questo crediamo che radicalismo e subalternità siano le due facce di una brutta medaglia.
Anche Sel, nata per contrastare il minoritarismo del Prc al Congresso di Chianciano, e la deriva moderata Ds-Pd, pur rivendicando fin dalla sua nascita una sua autonoma cultura, non è riuscita ad andare oltre al quadro del centrosinistra, trovandosi improvvisamente senza un solido orientamento nel momento in cui l’azione travolgente di Renzi ha spazzato via lo scenario politico su cui Sel aveva investito per marcare la sua presenza nel Paese.
Da qui oggi occorre ripartire. Dall’autonomia culturale della sinistra. Un’autonomia che può produrre novità e dischiudere nuovi orizzonti solo se riesce a coniugare il binomio cultura di governo e azione di trasformazione. Insomma se saprà essere una forza capace di governare la trasformazione, cioè di introdurre elementi sociali tratti dai valori e dai principi del socialismo. E questa capacità di essere forza di governo e di trasformazione prescinde – come del resto insegna la storia del Pci – dalla collocazione parlamentare: si può essere forza di opposizione mantenendo però forte una cultura di governo per non alzare solo i “cartelli dei no”.
È un binomio che va oltre a quello tradizionale di autonomia e unità.
L’autonomia infatti non s’intreccia solo con la politica, ma diviene il tratto culturale di una sinistra portatrice di valori sociali condivisi di ampi settori popolari e dunque per questo in grado di insediarsi nel sociale; come la capacità di produrre un’azione di governo per la trasformazione ingloba in sé anche il valore dell’unità, cioè la capacità non solo di realizzare intese elettorali o programmatiche, ma anche di avere l’intelligenza di attuare in concreto tali accordi con modalità, tempi e passaggi che possono minare l’unità se non si ha una solida cultura di governo.
Ecco perché affermiamo che occorre ripartire dai territori per la costruzione di una sinistra popolare in Italia. Non siamo né basisti né movimentisti e non siamo così stolti da credere che un ambizioso progetto politico di ricostruzione della sinistra possa essere la pura e semplice sommatoria di esperienze locali, sia pur significative. Sappiamo che occorre una visione nazionale – anzi europea – per dare una valenza credibile e strategica al progetto. Ma neppure crediamo che la realizzazione di un progetto così impegnativo possa essere affidato alle capacità e alla volontà dei gruppi dirigenti. Non seguiamo la moda dell’antipolitica, oggi molto in voga, che conduce alla negazione della funzione democratica dei partiti. Siamo semplicemente convinti che un’operazione promossa dall’alto dai gruppi dirigenti della sinistra – se ci fosse caso mai questa determinazione – sarebbe una sommatoria, tra l’altro per difetto, delle singole debolezze. Un meno sommato a un mendo non dà un più, ma un valore negativo più grosso: una debolezza più grande. Siamo attenti alla discussione in corso dentro Sel o quella in atto in aree significative, come quella di “Essere comunisti” del Prc o della sinistra del Psi. Come non sottovalutiamo il malessere della sinistra del Pd e le crescenti insofferenze nel Movimento 5 Stelle. Non ci sfugge neppure l’importanza del processo apertosi nella Cgil, con la possibilità di raccogliere attorno alla Fiom una grande aerea della sinistra sindacale. Tutto ciò è importante, è segno di una vitalità che ancora c’è a sinistra, che quel 4% (che in prospettiva può essere molto di più) ha contribuito ad alimentare.
Ma la nostra convinzione è che senza la risoluzione della questione dell’insediamento sociale della sinistra questa vivacità, come in altre occasioni, è destinata a deludere.
Da qui la proposta delle “Case per la sinistra unita” – e insistiamo Case per la sinistra e non della sinistra per dare il senso di un processo aperto che deve essere sopportato da un lavoro di lunga lena – come uno degli strumenti per la formazione di una cultura di governo e della trasformazione, come centri propulsivi di lotte e di iniziativa sociale, come spazi politici moltiplicatori di forze ed energie.
Siamo pertanto per la costruzione di “Case” per contribuire ad avviare e dare impulso a un processo. Non siamo per parole d’ordine ridondanti, come “costituente” o “scioglimento dei partiti”. La prospettiva di un nuovo soggetto politico non si costruisce con fughe in avanti, con astrazioni o definendo oggi a tavolino cosa questo soggetto dovrà essere. Siamo invece molto interessati all’apertura di un processo nuovo, di forte discontinuità anche con il recente passato. Per questo crediamo che le “Case” debbano misurarsi immediatamente con i problemi sociali reali e drammatici presenti nei territori per tentare di dare risposte e soluzioni con la lotta e l’azione, non disgiunte però dalla necessità di indicare la soluzione dei problemi. Non ci interessa fare delle “Case” la bella o brutta copia delle sezioni di partito, cioè luoghi di un generico dibattito o di propaganda politica o di iniziative elettorali.
Il nostro obiettivo è molto più ambizioso: le “Case” come centri di attività sociale, di lotta, ma anche di analisi e di costruzione della proposta politica. E chiediamo a tutti i militanti dei partiti della sinistra, ma anche a quelli impegnati nell’associazioni e ai quadri sindacali di partecipare attivamente a questo laboratorio, sulla base del criterio “una testa un voto”. E chiediamo alle Segreterie dei partiti di aprire le loro sedi alle “Case per la sinistra”, di dare il loro fattivo contributo alla loro realizzazione, proprio perché, come abbiamo scritto nell’Appello, vogliamo lavorare non contro ma con i partiti.
Attiviamolo tutti insieme questo processo e sulla base del suo sviluppo valuteranno passaggi e modalità successive. Ma oggi è decisivo partire. E noi siamo partiti.
A fine giugno sarà inaugurata la “Casa” di San Lorenzo. Passo dopo passo stiamo portando avanti il programma che si siamo proposti nell’assemblea dei firmatari dello scorso maggio.
Sono oltre dieci, ad oggi, le sedi che possiamo aprire, ma non ci interessa aprirle tanto per dire che ci siamo, insomma per mettere sulla mappa di Roma una bandierina per rivendicare la nostra visibilità. Vogliamo politicamente prepararle al meglio le assemblee costitutive delle “Case” coinvolgendo forze vere e vive della sinistra, politica, sociale e sindacale, romana. Vogliamo che le “Case” siano una novità irreversibile nello scenario politico romano. Stiamo dunque lavorando per aggregare e raccogliere nuove e significative adesioni, per consolidare rapporti e relazioni, soprattutto con l’articolato mondo dell’associazionismo. E abbiamo gettato lo sguardo anche fuori dai confini romani. Il nostro Appello infatti ha suscitato interesse. Iniziative simili alla nostra e strutture territoriali unitarie sono sorte un po’ in tutta Italia. Ad Asti e a Torino, a Milano, nelle Marche, a Bari e a Napoli, in Calabria e in Sardegna operano strutture unitarie che hanno svolto la campagna elettorale sulla Lista Tsipras ma a latere del Comitato elettorale, condividendo con noi la medesima scelta: di impegnarsi a lavorare sul progetto di un nuovo soggetto politico unitario della sinistra italiana, un progetto tutto da costruire, ma che è possibile avviare perché oggi vi è la consapevolezza di voler ripartire dai territori e dalla necessità dell’insediamento sociale.
Crediamo che sia maturo il momento di un primo incontro nazionale di queste realtà per valutare come insieme dare vigore e impulso alla costruzione di momenti organizzativi nei territori e per rendere irreversibile il processo unitario. Un lavoro che crediamo si debba intrecciare anche con quello di quei tanti Comitati territoriali della Lista Tsipras che non intendono sciogliersi e che sulla base dell’esperienza fatta intendono procedere sulla strada della costruzione di una moderna sinistra, nuova, in netta discontinuità con le pratiche del radicalismo e della subalternità.
Nelle prossime settimane lavoreremo anche per rendere possibile questo incontro nazionale, per mettere le prime basi al progetto politico.
Sandro Valentini
Renzi, Tsipras e il futuro della sinistra, di P. Ciofi
Con la vittoria sonante di Renzi cambiano radicalmente non solo i rapporti di forza tra i partiti ma anche i modi di intendere e di praticare la politica, in particolare nella distinzione dei ruoli tra destra e sinistra. È sconvolto il sistema politico che ha attraversato il ventennio berlusconiano, e il cambiamento in atto deve essere attentamente valutato. Non si tratta solo della crisi evidente dell’assetto bipolare, bensì di un processo più ampio e profondo, sebbene non consolidato, che attiene alle forme e ai contenuti della democrazia, alla funzione dei partiti e dei corpi intermedi, e quindi alla concreta possibilità di esercitare i diritti individuali e sociali costituzionalmente garantiti. A cominciare dal diritto al lavoro, che in Italia e in Europa ha segnato un passaggio storico.
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