Ultimi Aggiornamenti degli Eventi

Ancora sulla Sardegna. di S. Valentini

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Un terzo mio intervento sulle elezioni sarde. Non torno sulle questioni che ho affrontato negli interventi precedenti. Questa volta affronto la questione sullo stato della sinistra su cui vorrei spendere qualche parola.Sono contento per il buon risultato della lista Sinistra Futura, parte integrante della coalizione di Todde, che pur disponendo di limitati mezzi mette tre consiglieri regionali. È tra l’altro una forza politica correntemente impegnata nella lotta per la pace e nello schierarsi decisamente contro la mattanza di Israele a Gaza, per un immediato cessate il fuoco.Su Verdi-SI e sui Progressisti non ho molto da dire. La politica dei primi a livello nazionale la conosciamo molto bene in quanto stretti alleati del PD. Sui progressisti – poco conosciuti a livello nazionale – sono qualcosa invece di più: sono dei fedeli alleati del PD, sono insomma una loro diretta diramazione. Insomma, hanno condiviso tutti i passaggi più salienti del centrosinistra a livello regionale e nazionale, e condivisi in termini ancora più acritici di SI.Sommare queste tre formazioni con un atto matematico per dimostrare che vi è una area di sinistra di circa il 10 per cento è pertanto una operazione molto poco politica. Sono tre liste con visioni politiche profondamente diverse, in particolare i Progressisti sono il sotto prodotto del sistema di potere del centrosinistra quando era al Governo della Sardegna, già nell’epoca d’oro di Soru.Infine, una qualche riflessione su i frammenti di sinistra andati con Soru, chi aggregandosi in liste sardiste e chi come il Prc chiudendo con lui una alleanza insieme a Più Italia della Bonino e Calenda, invece di ricercare una interlocuzione con Sinistra Futura nell’ambito della alleanza con Todde. La loro scelta è stata un disastro e giustamente non compresa. Non si dice di no a Todde perché c’è il PD e poi si va a braccetto con Calenda, i radicali e la Bonino e con lo stesso Soru che nel tentativo di creare massa critica acchiappava di tutto. Se proprio si voleva fare una azione di testimonianza allora era più dignitosa andare con la Chessa e la Lista Rossomori.Credo che non sarà facile per il Prc riprendersi da questo ennesimo disastro e neppure sarà facile per tutti quei compagni che vogliono coniugare il sardismo con una visione davvero di sinistra. A loro si impone una dura riflessione. Spero che ciò avvenga poiché so che sono dei compagni molti generosi.

Sandro Valentini

La Repressione a Pisa e a Firenze: un atto di forza contro il Libero Pensiero e un attacco alla Democrazia. di A. Angeli

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Nell’ultimo episodio di ciò che gran parte dell’informazione interpreta come un preoccupante trend autoritario, le cariche della polizia contro gli studenti pro Palestina a Pisa e a Firenze, hanno suscitato l’indignazione delle forze di opposizione, le quali si sono dichiarate pronte a presentare interrogazioni parlamentari al ministro Piantedosi. Questi atti di violenza, non respingimenti ma manganellate da parte della polizia nei confronti dei manifestanti, tutti giovani studenti, che stavano esercitando il loro diritto democratico di esprimere opinioni e solidarietà, solleva serie preoccupazioni sulla direzione in cui si sta dirigendo il paese.

L’uso sproporzionato della forza per reprimere il libero pensiero, rappresenta un attacco fondamentale ai principi democratici che dovrebbero essere al centro della nostra società. La democrazia si basa sulla libertà di espressione, sulla diversità di opinioni e sul rispetto per i diritti umani. Tuttavia, l’azione della polizia a Pisa e Firenze sembra indicare un tentativo di soffocare tali valori, suscitando serie e ragionevoli preoccupazioni sulla messa in pericolo delle fondamenta stesse della nostra società democratica.

In un contesto, in cui la situazione geopolitica richiede un dibattito aperto e onesto su questioni come il conflitto in Medio Oriente, è essenziale che la libera voce degli studenti e dei cittadini venga rispettata e ascoltata anziché repressa con la forza oppressiva e lesiva. Infatti, l’utilizzo di cariche contro manifestanti pacifici è non solo un segnale di intolleranza ma anche una violazione dei diritti fondamentali sanciti dalla nostra Costituzione.

Le forze di opposizione, sensibili a questa crescente minaccia alla democrazia, stanno agendo con decisione annunciando interrogazioni parlamentari. Il ministro Piantedosi è chiamato a rispondere delle azioni della polizia sotto la sua responsabilità e a dimostrare se il governo è disposto a difendere i principi democratici o se preferisce scorciatoie autoritarie nel gestire le divergenze di opinione.

È imperativo che il dibattito politico rimanga aperto e costruttivo, senza ricorrere alla violenza come risposta alle divergenze ideologiche e politiche. La forza non dovrebbe mai essere uno strumento per piegare il libero pensiero; al contrario, dovrebbe essere la forza delle idee e della discussione a plasmare il nostro futuro collettivo.

Quanto accaduto a Pisa e Firenze richiede una riflessione profonda sulla situazione attuale e sulle minacce alla democrazia. Il popolo italiano merita un governo che rispetti e protegga quanti intendono manifestare le loro opinioni e i diritti fondamentali nella piena libertà di espressione che la Costituzione stabilisce e tutela in termini inderogabili, promuovendo un clima di apertura e tolleranza. La risposta alle divergenze ideologiche e di opinione, quando espresse nel rispetto delle norme generali, non dovrebbe mai essere la repressione, ma piuttosto il dialogo costruttivo e il rispetto reciproco, pilastri essenziali di una società democratica sana.

Alberto Angeli

La rivolta del mondo agricolo si diffonde in tutta Europa. di A. Angeli

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Gli agricoltori stanno organizzando rivolte in tutta Europa. In Italia e in Francia è stata programmata una mobilitazione che dovrebbe assediare le capitali dei due paesi. In Francia, già da alcuni anni gli agricoltori sollevano dure proteste contro le politiche del green deal dell’Europa. Quando parliamo dei paesi in cui dilaga la protesta, parliamo di Francia, Germania, Polonia, Belgio, Spagna, Paesi Bassi, Romania, Italia e Grecia  e del mondo degli agricoltori che stanno protestando con tattiche come bloccare le strade con i loro trattori, scaricano letame vicino agli edifici pubblici, spruzzano merda liquida sulle stazioni di polizia, mobilitano ovini e pecore per chiudere le città. E tanti trattori, rappresentativi di una classe sfiduciata, da mettere in crisi gli indici d’inquinamento ambientale, e tanti danni alla mobilità, una lotta  che però trova larghi consensi tra la popolazione, che condivide i motivi della lotta e le accuse alla grande intermediazione e distribuzione, rimproverate di arricchirsi pagando prezzi da fame i prodotti della terra mentre loro arricchiscono.   

Purtroppo, come accade di fronte ai movimenti spontanei , che si formano al di fuori delle linee ordinarie delle rappresentanze di settore e che si distinguono per la particolare natura sociale, politica e economica, immediatamente l’estrema destra  s’inserisce per manipolare gli obiettivi della lotta e assumere la guida della protesta. E’ ciò che sta avvenendo in alcuni paesi, in cui gli slogan dell’estrema destra sono dominanti e diretti contro l’Europa e le sue politiche. In Germania, il partito di estrema destra AfD si è affiancato alle  mobilitazioni, come sta accadendo in Italia e in Francia da parte dei movimenti di estrema destra, anche se alcuni agricoltori in Germania si sono uniti alle proteste di massa contro l’AfD.

Anche questa volta la sinistra Europea, cioè i progressisti e riformisti di nuova generazione, è in affanno, in ritardo su una questione che è all’ordine del giorno da anni. Non c’è da scrivere molto sulla presa di posizione del Pd, salvo evidenziare che si limita a fare delle contestazioni al Ministro Lollobrigida e al legame di parentela  con la Presidente del Consiglio. E’ agli agricoltori, almeno a quella parte in lotta e che reagisce, prendendo le distanze  dalle ingerenze della destra e dal riposizionarsi della Coldiretti a fianco del Governo contro l’Europa, che dovrebbe dire qualcosa, spiegare la sua idea di progetto politico per questo settore importante per la tenuta economica del Paese.  

Gli agricoltori in lotta affermano di essere gravati dai debiti, schiacciati da potenti rivenditori e aziende agrochimiche, colpiti da condizioni meteorologiche estreme, indeboliti dalle importazioni provenienti da altri Paesi a prezzi concorrenti ,  per cui sono costretti a fare affidamento su un sistema di sussidi che favorisce i grandi attori del settore a scapito delle piccole realtà agricole. Purtroppo gli agricoltori sono nettamente divisi tra quelli con grandi proprietà terriere che impiegano molti lavoratori, e i piccoli produttori autonomi che fanno affidamento quasi interamente sul lavoro familiare. E poi ci sono i mostri dell’industria agroalimentare: Esselunga. Ipercoop/Coop&Coop. NaturaSì  Coop.FamilamSuperstore- IperFamila. Interspar. Tigros. Conad Superstore/Spazio Conad.  Lactalis, Nestlé, Danone – e le catene di vendita – Leclerc, Carrefour, Esselunga, che si chiudono ad ogni richiesta di revisione delle condizioni  ( prezzi )di conferimento dei prodotti agricoli  La rivolta dei contadini mostra come le classi dominanti sopravvivano attraverso il divide et impera.

Le federazioni sindacali dovrebbero coinvolgere i lavoratori  con iniziative di sostenere agli agricoltori. Ma, purtroppo, non c’è alcuna spinta per l’unità di lotta che potrebbe riunire la famiglia del contadino con 1.200 euro al mese, con la commessa di 58 anni che teme di non vedere mai la sua pensione e il giovane migrante che viene sfruttato dai grandi produttori agricoli e che subisce molestie da parte della polizia. L’ unità non è mai facile, ma potrebbe essere costruita su un programma di cambiamento e di lotta contro la destra al governo e le grandi imprese.  Questa è la strada che la sinistra deve percorrere, sapendo che l’unità del mondo del lavoro, di cui il mondo agricolo è parte fondamentale, è il risultato che il potere economico e la destra temono di più ed è per questo che si stanno riorganizzando indicando l’Europa come il nemico da sconfiggere alle prossime elezioni Europee. Spetta alla sinistra impedire che si realizzi questo disegno.

Alberto Angeli

Si vis pacem para bellum. di R. Papa

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Noi che abbiamo vissuto protetti dall’art 11 della Costituzione.

Noi che siamo scesi in piazza contro la guerra in Vietnam.

Noi che abbiamo pensato ad un mondo pacifico e pacificato

Noi non ci siamo resi conto che la realtà andava verso un’altra meta.

Noi che ci siamo affidati, per scelta, al Patto Atlantico (4 aprile 1949) ma potevamo scegliere di stare sotto la protezione del Patto di Varsavia, ci troviamo oggi ad interrogarci sulla necessità di apprestare una difesa del nostro mondo e di chiederci se la scelta “pacifista” sia la strada giusta o come io ritengo quella di essere “contro la guerra”. Questa scelta però presuppone di dotarci di un esercito nazionale e/o europeo. Che sia in grado di contrastare eventuali attacchi da parte di “Stati canaglia”.

Il risorgente imperialismo russo con l’invasione dell’Ucraina, il mai sopito terrorismo islamico con l’attacco di Hamas ad Israele, il nuovo protagonismo dell’Iran e della Cina impongono anche a noi che “siamo contro la guerra” di predisporre, una volta venuto meno il dialogo e le relazioni diplomatiche, efficaci risposte anche armate.

L’ipocrisia che per decenni abbiamo accettato la narrazione sugli “eserciti di pace” l’altra faccia dell’esportazione della democrazia, hanno reso il nostro mondo debole e permeabile alle azioni, per ora avversarie, domani nemiche.

Forse abbiamo troppo presto elaborato la paura della guerra, accettando che sulle nostre strade stazionino mezzi dell’esercito. Da due anni a questa parte abbiamo visto il nostro mondo scivolare lentamente verso una guerra: prima l’Ucraina, poi Israele, ora lo Yemen. Tre situazioni che potrebbero diventare, se già non lo sono, esplosive. Senza contare i tanti conflitti armati in giro per il mondo che hanno fatto dire a Papa Francesco di “terza guerra mondiale a pezzetti”.

L’Italia spende per la difesa NATO (il famoso obiettivo 2%) solo l’1,46 del Pil, era l’1,51% nel 2022, il picco lo abbiamo toccato nel 2020 con l’1,59.

Secondo il governo neppure quest’anno potremmo raggiungere l’obiettivo del 2% e il Pd (l’ala movimentista-pacifista) ringrazia.

Magari, dicono, rinviando di cinque anni…chissà cosa ne pensano, e come gioiscono, i vari terrorismi islamici e i rinati neoimperialismi!

Oggi non si tratta di difendere le armi, ma di dotare i paesi del Patto NATO di un sistema difensivo tale da funzionare da deterrenza verso possibili e “prevedibili” nemici. Dimenticandoci troppo spesso che l’obiettivo del 2% è stato sottoscritto da governi di centrosinistra e centrodestra.

Siamo un paese che dimentica la propria storia troppo spesso e per il quale risulta più facile fare appello ai “valori”. E allora si tira fuori una volta il valore dell’antifascismo e un’altra del pacifismo. E intanto intorno a noi rinascono venti neonazisti e venti di guerra. Oggi abbiamo la necessità di ridefinire il nostro “antifascismo” e “pacifismo” in funzione di conflitti e guerre che non possiamo ignorare e che ce lo ricordano i milioni di morti sui vari scenari di guerra, perché ci piaccia o meno “siamo tutti coinvolti”.

Siamo un Paese che oltre a vivere sul presente, in questo presente vive alla giornata “tra l’acqua santa e l’acqua minerale”(cit. Leo Longanesi)

Roberto Papa

Palazzina LAF. La storia di una sconfitta ( e di una grande civiltà oltraggiata). di A. Castronovi

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Ho visto Palazzina LAF, il film italiano diretto e interpretato da Michele Riondino al suo debutto da regista. Il film è tratto da ” Fumo sulla città” , libro dello scrittore Alessandro Leogrande che avrebbe dovuto anche firmare la sceneggiatura ma che purtroppo durante la lavorazione del film è venuto a mancare. Il film racconta la tragedia di una città , Taranto, e dei suoi figli sfortunati, simboleggiati nelle figure umane sfigurate e abbruttite rinchiuse in un reparto-confino dell’ex ILVA, a sua volta erede dell’Italsider, la fabbrica d’acciaio di Stato più grande d’Europa, che doveva rappresentare il simbolo del riscatto del Mezzogiorno e di una delle sue più importanti città, erede dell’antica civiltà greco-mediterranea: la spartana Taranto. Quella Taranto che dette i natali ad illustri intellettuali come Aristosseno, musicista e filosofo pitagorico uno dei principali allievi di Aristotele; Livio Andronico, il ” poeta religioso” di Roma; Archita, filosofo della corrente dei Pitagorici, amico di Platone, allievo di Pitagora, ed illustre matematico, scienziato, astronomo, musicista, politico e stratega. Le scuole della città ce li ricordano ancora tramandandone la memoria con licei e scuole ad essi intitolati . Io mi sono diplomato in uno di questi . Quella stessa Taranto i cui paesaggi e bellezze naturali furono cantati e resi immortali da Virgilio nelle Georgiche e da Orazio nelle sue Odi.

Nel film questa città non si vede, non si percepisce, ma si vede il mostro che l’ha mangiata e deturpata, si vede la terra avvelenata che uccide la pastorizia, si vedono pezzi della sua degradata periferia, i Tamburi, quartiere reso famoso per le vittime da avvelenamento causate dal fumo nero che lo sovrasta. In questo quartiere era andato a vivere il protagonista del film, Caterino Lamanna, un operaio appena promosso a capo-squadra in cambio di servigi da rendere come spia dell’azienda e inviato nel reparto-confino della LAF, dove erano rinchiusi e mobbizzati decine di lavoratori e di sindacalisti che non si erano arresi e sottomessi alla disciplina di fabbrica.

È un film di denuncia di un episodio scandaloso della storia del conflitto sociale e di classe in Italia, conflitto rimosso e dimenticato dalla coscienza nazionale, ma che un tempo nutriva le speranze di riscatto sociale di un popolo e dei suoi ceti subalterni. Taranto è una città martirizzata ancora oggi da uno sviluppo disumano, cresciuto come un cancro da quella fabbrica disumana in cui ho visto nascere i primi metal-mezzadri, secolari contadini e braccianti che si trasformavano improvvisamente in operai, pur rimanendo contadini nell’anima. Ho visto negli anni ’70 i grandi cortei operai sfilare in città con le bandiere rosse e riempire le sue piazze. E ricordo i brividi e la commozione che ti davano quelle immagini.

Un futuro e una speranza sembravano possibili. Poi tutto è finito. Inesorabilmente. Poi è arrivata la normalizzazione neoliberale. Il socialismo buttato nella pattumiera della storia, la lotta di classe diventata un residuo del passato. Il mondo del lavoro viene così cacciato nell’inferno che nella ex-ILVA è rappresentato dalla Palazzina LAF. Ma quella palazzina è il reparto-confino di una storia intera , la storia del novecento, del secolo delle rivoluzioni sociali e proletarie, del secolo delle sue sconfitte e dei suoi tradimenti, di un secolo di cui si vuole cancellare persino la memoria nelle nuove generazioni. Diciamocelo. I nostri avversari sono stati “bravi”.Ci hanno sconfitto nella lotta di classe e stanno cancellando la memoria stessa delle lotte dei vinti anche nei suoi figli. Ma la Storia, come profetizzava Benjamin, sta alle nostre spalle con le sue macerie, e basta uno sguardo rivolto al passato per riconoscerla. È questa la chiave attraverso cui i rejetti possono redimersi e risollevarsi, riprendendosi il proprio posto nella storia. È l” Apocalisse” – Rivelazione che i vincitori di oggi temono: la resurrezione e il ritorno dei vinti.

Antonio Castronovi

Articolo già pubblicato su “L’interferenza”.

https://www.linterferenza.info/cultura/palazzina-laf-la-storia-sconfitta-grande-civilta-oltraggiata/?fbclid=IwAR34DKzBmss9Xxfl5q_2zWBKZeMGVQk0if-MOZgcgKx4fNPykc37NQUvHoE

La svolta autoritaria, di A. Valentini

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Molti a sinistra allarmati gridano alla svolta autoritaria. CGIL e UIL tentano timidamente di rialzare la testa e promuovono uno sciopero generale (8 ore di sciopero) molto articolato, che tra l’altro non coinvolge alcuni settori pubblici considerati vitali. Ma nonostante uno sciopero così blando, il Governo Meloni, addirittura Salvini invocano la precettazione, i media – fatte poche eccezioni – e quasi tutto il sistema dei partiti – espressione della metà degli elettori – si scagliano contro il diritto di sciopero e contro le due Confederazioni che hanno deciso una modesta mobilitazione sindacale, mentre sarebbero necessarie ben altre mobilitazioni di lotta per tutelare il mondo del lavoro, drammaticamente colpito dalla crisi e dai provvedimenti di un Governo perfettamente in linea con i falchi neoliberisti dalla Ue. Come del tutto inadeguata è stata la reazione dell’opposizione alla proposta costituzionale del centrodestra della elezione diretta del premier. Se tale proposta costituzionale dovesse essere realizzata l’Italia sarebbe l’unico paese al mondo ad avere un simile sistema istituzionale. Da qui il “grido di dolore”, l’allarme, il pericolo di una svolta autoritaria. Pare che nessuno si sia accorto che la svolta già c’è stata e si è affermata nel corso degli ultimi trent’anni. Con l’ascesa del dominio del capitale finanziario, ascesa sancita dal trattato di Maastricht, si è realizzato in Italia, come in tutto l’Occidente, un sistema politico a-democratico che ha messo in discussione anche il diritto di sciopero, regolandolo con molti limiti e restrizioni. La Costituzione è stata manomessa, attenzione non tanto nei principi fondamentali (nessuno è così sprovveduto da metterli in discussione) ma negli articoli successivi che regolano la loro attuazione. Dunque, le scelte di questo Governo sono il risultato di politiche in cui paritarie sono le responsabilità sia del centrodestra sia del centrosinistra. Si guardi, per fare un solo esempio, alla politica estera schiacciata sull’atlantismo e con tutti i media a sostenerla. Gridare allora alla svolta autoritaria quando tutti i buoi sono scappati dalla stalla politicamente significa solo mettersi lungo la striscia del susseguirsi di pesanti atti che hanno smantellato tutte le conquiste politiche, economiche, sociali e democratiche della prima Repubblica, che hanno condotto a questo sistema a-democratico, in cui le decisioni che contano sono prese da una ristretta élite finanziaria per giunta fuori dall’Italia. Se non è autoritarismo questo sistema non so che significato dare al concetto di autoritarismo. Una vera forza di cambiamento rivoluzionario allora invece di gridare al lupo, che si è già mangiato quasi tutto quello che c’era da mangiare, dovrebbe attrezzarsi di una strategia che contrasti tale sistema politico a-democratico espressione del capitale finanziario.

Comunque pur con i tanti e tanti limiti alla sciopero della CGIL e UIL aderisco. Meglio poco, anzi pochissimo del tutto insufficiente, che niente. Ma la strada da percorrere non è sicuramente questa.

Sandro Valentini

È la solita storia. di D. Lamacchia

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È la vecchia storia del dominio sugli altri popoli esercitato con la violenza. Sin dalla scoperta del Nuovo Mondo. È noto come Spagnoli, Portoghesi, Olandesi, Inglesi, francesi, Italiani abbiano dominato col colonialismo gli stati americani, indiani ed africani, con genocidi, schiavitù e razzismo. È noto come successivamente specie gli USA si siano resi protagonisti di ulteriori crimini politici e umanitari. Vale la pena ricordare l’intervento sanguinario in Vietnam, gli interventi golpisti in America Latina come quello in Cile a supporto di forze reazionarie nei vari siti del mondo, l’uso spregiudicato della forza per imporre i propri interessi come in Iraq, in Libia, in Afghanistan.

Perché’ nacque lo Stato d’Israele? Per lo stesso motivo, garantire i propri interessi nell’area che si vedevano surclassati dal dominio dell’allora URSS. Il “cane da guardia” qualcuno ha definito Israele.

Sia chiaro, non ci sarebbe piaciuta di più l’URSS. È insopportabile non il legittimo volere di uno Stato indipendente di Israele, è insopportabile la maniera di imporre il proprio volere a discapito di un altro popolo con l’obiettivo dichiarato, in particolare di alcune fazioni, di volerlo completamente annientare.

Come è noto a nulla sono valsi i tentativi difficilissimi di trovare accordi di convivenza e di ripartizione territoriale. Nonostante le dichiarazioni ONU sono continuati gli insediamenti illegittimi imposti con la forza. A nulla sono valse le proteste legittimissime dei Palestinesi, sin dagli inizi, ad essi. Alle proteste seguivano ritorsioni con bombe e armi modernissime e micidialissime contro lanci di pietre e fionde. Sono nella memoria di tutti gli episodi di Sabra e Chatila. Cosa resta da fare se la politica fallisce? Cosa resta da fare se si vuole che la politica fallisca? Non si possono eludere queste domande ad esse va data risposta! Sia chiaro la risposta non è l’uso delle armi o il terrore. Il terrore chiama terrore, è sotto i nostri occhi. Mi chiedo, come è possibile che questo non venga alla coscienza della dirigenza e del popolo israeliano. Cosa maturerà dopo i massacri odierni nella coscienza di un giovane palestinese di Gaza che si vede cancellare il suo futuro da una forza opprimente se non odio e volere di vendetta? Cosa centro io si chiederà con il terrore di Hamas, perché colpire me? Questo profondo senso di subita ingiustizia quale stato di coscienza politica potrà far maturare?

Necessita quindi che cessino immediatamente gli attacchi che si cominci ancora una volta un tentativo difficile di mediazione.  Consapevoli che in gioco non ci sono solo le questioni territoriali ma una visione del gioco politico basato sull’aberrante assunto: “o domini o sei dominato”. L’assunto che ha visto da secoli prevalere nelle politiche occidentali. Non è forse ora di far prevalere il principio anch’esso occidentale di “Liberta’, fraternità, eguaglianza”, non è giunto il momento che la Politica si faccia contaminare da un pizzico di “fantasia” per un esercizio del potere finalizzato al bene comune anziché’ a logiche di dominio?

Questo è lo sparti acque tra una logica di sinistra e una di destra! La Sinistra deve su questi temi riconquistare una sua logica identitaria senza tentennamenti, pena la sua sconfitta definitiva.

Donato Lamacchia

Due popoli, due Stati. Non ci sono alternative. di A. Angeli.

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La parola pogrom non doveva esistere in ebraico. Nel nuovo Israele, l’idea stessa che gli ebrei venissero assassinati in massa, con i loro figli massacrati davanti ai loro occhi, avrebbe dovuto essere relegata nel regno dell’amara memoria. Era solo nell’Europa orientale dell’esilio che gli ebrei avrebbero dovuto fuggire dai tormentatori decisi a ucciderli, solo lì si sarebbero nascosti nell’oscurità, cercando di trattenere il fiato per non emettere suoni traditori. Una volta che avessero avuto uno Stato proprio, dove potessero finalmente difendersi, non ci sarebbe stato bisogno di parlare di pogrom, se non nei libri di storia.

Ma è stato un pogrom quello che si è verificato in Israele lo scorso fine settimana, molteplici pogrom in realtà, letali come quelli che hanno sterminato gli ebrei di lingua yiddish all’inizio del secolo scorso o, secondo schemi ripetitivi, nei secoli precedenti. Gli ebrei ricordano ancora il pogrom di Kishinev del 1903, una calamità ricordata nelle poesie recitate ancora oggi. A Kishinev furono assassinati 49 ebrei. Sabato scorso, almeno 1.200 persone sono state messe a morte, molte in modi troppo sadici e brutali per essere descritti  in una breve riflessione . Purtroppo, la parola pogrom non è più riferibile agli eventi storici degli ebrei, poiché proprio quel popolo, oggi costituitosi in uno Stato democratico, Israele, si muove su questa scala di annichilimento del valore umano assalendo con il suo potente esercito un popolo che non ha nessuna responsabilità della feroce e animalesca strage compiuta da gruppi omicidi delle milizie di Hamas.

L’ONU, l’Europa e tanti altri paesi democratici hanno espresso la loro solidarietà ad Israele e condannato con durezza la carneficina di innocenti e il rapimento di oltre 150 israeliani chiedendone l’immediata liberazione, riconoscendo ad Israele il diritto di reagire, per scovare e punire duramente i colpevoli e liberare gli ostaggi. Ma ora questa parte del mondo sta seriamente giudicando  pericolosa la reazione Israeliana, una vendetta che si sta consumando mediante bombardamenti a tappeto di un’aera sovraffollata da milioni di persone, colpendo indiscriminatamente ospedali, scuole, abitazioni civili in cui trovano una morte terribile bambini, anziani donne e uomini senza responsabilità alcuna dei massacri di cittadini Israeliani compiuti da Hamas, un movimento terroristico che si muove in una logica di lotta senza quartiere contro lo Stato di Israele, per la sua completa estinzione.

Solo dopo molti giorni di bombardamenti compiuti alla cieca, Israele si è decisa ad invitare la popolazione a lasciare gran parte del territorio di Gaza, cioè  quanto rimaneva delle loro case, della loro vita e ad aprire un canale umanitario per consentire a questo  popolo di essere assistito al minimo vitale. La parola pogrom trova qui, di nuovo, la sua tremenda attualità, un contesto di inumana similitudine su cui non possiamo tacere e non esprimere la nostra preoccupazione riguardo al futuro di Gaza e del suo popolo. Infatti, non si tratta solo di scacciare oltre un milione e mezzo di incolpevoli cittadini oltre i nuovi confini indicati da Israele, spingendoli ai confini di un altro Stato, l’Egitto, che non sembra affatto disponibile ad accoglierli, ma di sapere cosa vorrà fare di quel territorio una volta compiuta la missione militare, e quindi capire quale sia il disegno di Israele. E qui il tema della caccia ai capi di Hamas diventa cruciale, poiché i veri comandanti delle milizie risiedono negli stati che finanziano e sorreggono Hamas, verso i quali il mondo:  ONU, USA Europa, Russia, Turchia,  si sta rivolgendo per una mediazione volta a liberare gli ostaggi, sempre che sopravvivano ai combattimenti che, si presume, si svolgeranno sul terreno di Gaza una volta che l’IDF farà il suo ingresso. La parte più seria della preoccupazione non  è se Israele riuscirà a sconfiggere Hamas  quanto se l’incendio non si allargherà verso il Libano, con gli Hezbollah  già in attivo  con il lancio di razzi e l’IRAN,  i cui capi proprio in queste ore non hanno mancato di esprimere bellicosi messaggi di guerra.

L’altra, motivata, preoccupazione è generata dal fallimento di Bibi” Netanyahu, un incapace assoluto, che ha portato il suo Paese nella guerra, dopo avere tentato di subordinate l’ordinamento giudiziario all’esecutivo  e spaccato il Paese, sottovalutato il ruolo di Hamas e inseguito una politica di insediamenti sul territorio palestinese alimentando così il giusto risentimento di quel popolo. Ma il vero punto critico della situazione è cosa Israele si aspetta da questa guerra una volta che  sarà conclusa, quali rapporti intenderà costruire con Gaza e la Cisgiordania, con il popolo palestinese, come pensa reagiranno i Paesi Arabi e i vari Regni con i quali aveva tentato intese chiamate “Abramo”, i quali sicuramente saranno indotti a ripensare e rimandare a tempi meno carichi di tensione gli approcci di distensione, non proprio di pace. Sempre che, nel frattempo, le cose non precipitino e il mondo si trovi con il Medio Oriente scatenato contro l’occidente a fianco dell’alleanza Russia, Cina, India, Brasile Sudafrica, meglio conosciuta come BRICS.  

La coalizione di governo che si è formata, sempre sotto la guida di Netanyahu, con la formazione di un gabinetto di guerra, dovrà dare molte risposte e risolvere tanti quesiti  in un momento tra i più difficili per Israele. Ne va della sua sopravvivenza. Certamente, spetterà al nuovo governo dare le risposte giuste a problemi complessi, come quello di una convivenza con il popolo Palestinese nel rispetto reciproco delle proprie convinzioni sociali, civili e religiose, ma soprattutto dei confini che dovranno segnare il territorio su cui ciascuno sarà libero di esercitare la propria, autonoma politica, amministrativa e giuridica. Eppure, su questa questione ci sono divisioni verticali e molti dubbi su questa possibile soluzione politica di due Stati due popoli, tanto che importanti Università Americane, Inglesi, Francesi,  e in altri Paesi sono diventate centro di manifestazioni studentesche  pro Hamas e contro Israele. Anche nel nostro paese si sono avuti scontri, confronti e, specie nei talk show, le posizioni spesso rendono introspettiva la posizione dei contendenti, fino a risultare squilibrata, quando non stupida e incomprensibile.

La ferocia commessa da Hamas il 7 ottobre ha reso molto più difficile invertire questo ciclo mostruoso. Potrebbe volerci una generazione. Richiederà un impegno condiviso per porre fine all’oppressione palestinese in modi che rispettino il valore infinito di ogni vita umana. Richiederà ai palestinesi di opporsi con forza agli attacchi contro i civili ebrei, e agli ebrei di sostenere i palestinesi quando resistono all’oppressione in modi umani – anche se i palestinesi e gli ebrei che adottano tali misure rischieranno di diventare paria tra la loro stessa gente. Richiederà nuove forme di comunità politica, in Israele-Palestina e nel mondo, costruite attorno a una visione democratica abbastanza potente da trascendere le divisioni tribali. Lo sforzo potrebbe fallire. Ha già fallito in passato. L’alternativa è scendere, con le bandiere sventolanti, all’inferno.

Alberto Angeli

Perché il socialismo italiano non è mai stato riformista. di G. Giudice

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Quando Bettino Craxi nel 1981 definì il sua corrente come “riformista” , al posto di “autonomista” , Riccardo Lombardi rispose che nel PSI non era mai esistita una corrente riformista. Affermando che lo stesso Filippo Turati definì la sua corrente “Critica Sociale” e non riformista. Ancora più esplicita Anna Kuliscioff nel condannare il termine riformista. Che invece fu fatto proprio da Bissolati e Bonomi (che si ispiravano a Bernstein) espulsi dal partito , perchè sostennero la guerra di Libia. E furono espulsi con il pieno consenso di Turati. Kuliscioff e Matteotti (che fu il più duro). Quindi il termine riformismo è una pura invenzione della pubblicistica. Non erano riformisti socialisti democratici come Jaurès (che espresso una critica forte a Bernstein), non lo erano affatto gli austro-marxisti come Bauer e Adler. Non furono riformisti né Morandi , né Saragat. Quest’ultimo socialista marxista democratico , definì il riformismo ed il massimalismo entrambi come “malattie dell’infanzia del socialismo” e il boscevismo come “malattia della pubertà”. SE è vero che Turati cercò un compromesso con Giolitti per fare approvare alcune leggi a favore dei lavoratori, rifiutò sempre l’appoggio organico dei socialisti ad un governo liberale, nè tantomeno un loro ingresso nel governo. E tuttavia ricevette critiche (con Giolitti non si tratta!) dalla sua amata compagna Anna Kuliscioff, da Giacomo Matteotti e Giuseppe Modigliani. Comunque è nell’austromarxismo che si possono trovare meglio le spiegazione per il rifiuto del termine riformismo. Otto Bauer e Max Adler operano una chiara distinzione tra rivoluzione politica e rivoluzione sociale. La rivoluzione politica è un atto (“la presa della Bastiglia”, la conquista del Palazzo d’Inverno) tipico delle rivoluzioni borghesi. La rivoluzione sociale è un processo volto a trasformare radicalmente la società e costruire una società socialista superando il capitalismo. non va confuso con il “putshismo”.Quindi il socialismo democratico è intrinsecamente rivoluzionario. Il carattere processuale certo implica delle gradualità, ma non è certo riducibile ad una somma di riforme che si accumulano su se stesse. E’ invece segnato da rotture di equilibri di potere, e di costruzione di nuovi equilibri, che sconta anche il tentativo degli interessi offesi di reagire anche in modo violento. Ma a questa violenza si reagisce con l’allargamento degli spazi di democrazia dal basso e consiliare che si integrano dialetticamente con la democrazia rappresentativa. Per Bauer , ad una offensiva violenta della borghesia contro un governo socialista, democraticamente eletto, si possono usare misure di emergenza atte a ridurre all’impotenza queste reazioni. Ma mai a restringere gli spazi di democrazia o addirittura ad annullarli. Anzi l’allargamento della democrazia, degli spazi di autogoverno popolare e dei lavoratori è l’antidoto più forte rispetto alla reazione. Qui si manifesta la enorme distanza dal bolscevismo che pone l’accento sulla necessità di reprimere la classe espropriata con la dittatura del partito unico (avanguardia politica e militare e la soppressione di ogni forma di democrazia e libertà). IN effetti questa è, in fondo, solo una giustificazione ideologica a quella che di fatto è stata la dittatura “sul” proletariato e sull’intera società che è poi la base su cui si è sviluppato lo stalinismo. Famosa la risposta di Rosa Luxembourg a questa tesi: ” compito del proletariato giunto al potere non è affatto quella di abolire ogni democrazia, ma di costruire una democrazia socialista fondata su democrazia e libertà illimitate”. E Bauer ed Adler si pongono il problema non dell’estizione dello stato. Quanto di una profonda e radicale modifica, in senso democratico , dello stato stesso. Dell’esercito, della polizia, della burocrazia. Gilles Martinet, riprenderà , dopo molti anni , tali temi , nel suo fortunato opuscolo “la conquista dei poteri” . In cui conia il termine “riformismo rivoluzionario” che poi Lombardi farà proprio. Il termine riformismo si reimpone , nel secondo dopoguerra, con il manifesto della SPD di Bad Godesberg, con il quale si rinuncia al superamento del capitalismo , a favore del compromesso sociale tra movimento operaio e capitalismo. Ma il PSI, già autonomista , con Nenni e Lombardi rifiuta e critica quel manifesto. Come fanno anche le tendenze più a sinistra delle socialdemocrazie. Poi il termine riformismo oggi ha perso ogni significato reale. Un socialista serio che si è sempre dichiarato riformista, Giorgio Ruffolo, scrisse 20 anni fa, che il termine era diventato inutilizzabile, perché aveva subito un vero e proprio “rovesciamento semantico” . Del resto se si definisce riformista un liberale di destra come Calenda, se si definisce riformista Renzi !!!! se in Europa c’è un gruppo parlamentare (a cui appartengono i nostri fascisti) che si chiama “conservatori e riformisti” vuol dire che il termine va gettato nell’immondizia. E comunque il PSI , per larghissima parte della sua storia , non è stato riformista. Certo viene poi un Martelli qualsiasi che afferma “Bettino non è stato allevo di Nenni – già massimalista- quanto piuttosto di Saragat, un vero liberalsocialista. Ignorando che Saragat non è mai stato liberal-socialista. Ha scritto una delle più penetranti critiche a “socialismo liberale” di Rosselli. Pur restando in ottimi rapporti. Del resto Rosselli oggi non si definirebbe certo riformista.

Giuseppe Giudice

Il campo largo. di M. Zanier

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Se c’è una cosa che sembra stia riuscendo alle opposizioni è la creazione del campo largo, ossia la confluenza delle differenti posizioni su temi importanti che disegnano la fattibilità di un campo alternativo al centro destra. Recentemente infatti PD, Movimento 5 Stelle, Azione e Sinistra italiana hanno trovato l’accordo sul salario minimo a 9 euro l’ora per tutti, mettendo nell’angolo il governo delle destre.

Il nuovo Pd a guida Schlein che sta finalmente rilanciando la componente di sinistra di quel partito, si trova frequentemente su temi concreti come le vertenze operaie più significative e la drammatica situazione lavorativa vissuta da milioni di precari. Il campo progressista presidiato dal Movimento 5 Stelle di Conte ha promosso una grande manifestazione nazionale per contrastare il precariato che ha visto la presenza anche di altri leader del centro-sinistra come la Schlein e Fratoianni. Dal canto suo, Sinistra italiana dà voce quotidianamente a molte vertenze dei lavoratori precari e porta avanti un programma radicalmente alternativo al populismo del centro destra.

In questo scenario il piccolissimo PSI mi sembrava aver preso dopo tanto tempo la via migliore: ridiscutere la sua linea negli Stati generali del socialismo con i socialisti iscritti e non iscritti. Un po’ come la Costituente socialista degli inizi. Avevo anche deciso di contribuire al suo dibattito interno ma poi il Segretario Maraio si è messo in testa di andare contro il campo largo con una sua dichiarazione che mi ha lasciato di sasso, affermando che la Schlein doveva cambiare linea e abbandonare i 5 Stelle al loro destino, evidentemente considerandoli il male assoluto.

Il sondaggio SWG de La 7 di stasera fotografa però un panorama ben diverso: il 64 % degli iscritti al PD è graniticamente d’accordo con la Segretaria Schlein nel portare avanti il campo largo col M5S.

Se si costruisce questo campo delle opposizioni in accordo su molti punti con le piattaforme di due grandi sindacati confederali come CGIL e UIL, secondo me i socialisti non possono girarsi dall’altra parte ma stare dentro le contraddizioni del mondo del lavoro, con la propria storia migliore, i propri valori, il proprio contenuto teorico.

Io personalmente voglio fare così, nel mio piccolo, perché credo l’unica cosa da fare con un governo di destra pericoloso sia sostenere le opposizioni che si contrappongono davvero al governo Meloni, lasciando il Psi attuale alla sua strada. Perché ho ben chiaro in mente l’esempio di Giacomo Brodolini, che all’epoca del centro sinistra organico degli anni Sessanta, da Ministro del Lavoro impegnato nella costruzione dello Statuto dei Lavoratori, andò ad ascoltare gli operai che facevano un picchetto per difendere il loro posto di lavoro per capire i loro problemi reali ed elaborare, da socialista, delle soluzioni politiche serie e conseguenti.

Marco Zanier