Craxi, Proudhon e il socialismo: la storia di un fallimento. di A. Angeli
Il 27 agosto 1978 l’Espresso pubblicò un lungo testo di Bettino Craxi, Segretario del PSI, con il quale informava il popolo socialista della nuova dottrina su cui costruire il pensiero del Partito: Infatti, con pungente meticolosità toglieva dalla parete del Pantheon socialista il quadro di Karl Marx e cancellava con la durezza polemica della critica il pensiero di Lenin, quale interprete ortodosso delle tesi Marxiane tradotte in rivoluzione, e lo sostituì con il pensiero di Pierre-Joseph- Proudhon . Sono trascorsi ormai quarant’anni da quell’articolo, e 24 dallo scioglimento del PSI avvenuto nel 1994, che non fu certo una goliardica manifestazione di talento filosofico, poiché in quella dissertazione erano ben mimetizzati temi di cambiamento di una politica e del ruolo del Partito socialista.
L’astuzia contenuta nello scritto si condensava nella parola riformismo, sulla quale Craxi si era già impegnato alla fine del 1977 con una dichiarazione all’Europeo ricordando le radici del riformismo turatiano, che rimandavano al riformismo proposto fin dalla fine del XIX secolo da Eduard Bernstein. Il richiamo a Proudhon doveva quindi proporsi come proseguimento di questa trasformazione del PSI e fare emergere con questa rielaborazione dell’idea riformista la volontà di aprire una nuova fase della lotta politica. In primo luogo contro il PCI, dal quale il Psi doveva assolutamente distinguersi e presentarsi come alternativa muovendo le sue pedine sul terreno ideologico, con il fine di destrutturare l’ideologia Marxista_Leninista e le parole d’ordine del PCI, che Craxi le coglieva come dirette al PSI: fermezza, austerità, questione morale.
Il cosiddetto saggio Craxiano arrivò sul finire dell’estate come risposta ad una intervista rilasciata pochi giorni prima da Berlinguer alla Repubblica, in cui esaltò la preziosa lezione storica del Leninismo. La risposta di Craxi fu subito impugnata dalla stampa e indicata come Saggio su Proudhon. In questo scritto di particolare verve polemica, Craxi sembrò porsi in attesa delle conseguenze politiche (speranzosamente attese) , più che interessarsi ai riconoscimenti della critica dei media sul valore storico dell’impianto teorico del testo. Egli infatti non porse orecchio a quanti lo invitarono a non sottovalutare le accuse che da qualche decennio pendevano sulla testa di Proudhon. Quelle più implacabili: la misoginia e l’antisemitismo; come anche il sessismo proudhoniano, difficilmente difendibile, nonostante evidenzi, con una semantica involutiva, i semi di un discorso sul superamento del patriarcato, nel momento in cui ne coglie la genesi culturale: “ la vita del lavoratore è organizzata intorno allo sfogo della sua alienazione nelle relazioni domestiche. Il lavoro femminile deve indicarci che quell’alienazione è espressiva di un rapporto gerarchico del quale la subordinazione femminile è complice e ancella, non antidoto”.
Tuttavia il Proudhon: “ della proprietà è un furto “, a differenza di molti pensatori rivoluzionari a lui coevi, non rimuove il diritto dalla sua analisi, anzi ne amplia straordinariamente la componente gius-privatistica, non sempre considerata e utilizzata dagli esponenti e sostenitori del pensiero anarchico-rivoluzionario. Allo scambio vicendevole o nesso di reciprocità che pertiene al concetto liberale del negoziato giuridico (che anche Marx ostracizzava, mettendo in luce la non libertà di quella forma di contrattazione) oppone un modello commutativo: la corrispettività tra le parti non può limitarsi alle prestazioni, poichè una medesima prestazione riflette in modo diverso posizioni di partenza differenti. Come pure il federalismo pensato da Proudhon, cioè un federalismo contrattualista, che asseriva essere deliberazione, consenso organizzativo, e, in linea con la tradizione, riformista.
Proudhon negava la dialettica ed il suo rovesciamento materialistico, perché a suo avviso l’antinomia “non si risolve, dato che i due termini di cui essa consta si equilibrano”, e pertanto, perchè il potere sociale agisca pienamente, occorre che le forze operanti in tale ambito siano in equilibrio. Niente sintesi quindi, come superamento della contraddizione in un nuovo e più alto ordinamento. Marx collocava Proudhon tra i socialisti conservatori o borghesi, che “vogliono le condizioni della società moderna senza le lotte ed i pericoli che necessariamente ne discendono; vogliono la società attuale previa eliminazione degli elementi che la rivoluzionano e disgregano: vogliono la borghesia senza il proletariato. Karl Marx approfondì la sua critica al sistema di Proudhon ribaltando il titolo dell’opera da: “filosofia della miseria” a “miseria della filosofia”. in quanto Proudhon, al contrario di Marx, era convinto del fatto che per giungere al socialismo fossero necessarie delle riforme pacifiche che avrebbero abbattuto la proprietà, lo Stato e le classi sociali senza bisogno di una rivoluzione.
Il “Saggio su Proudhon”, con la critica del Marxismo e del Leninismo, rappresentò la mossa con la quale Craxi immaginò di cogliere una occasione storica per aprire, nella sinistra, un serio ed esteso dibattito sulle radici ideologiche del totalitarismo sovietico. Un tentativo che non ebbe alcun riflesso sulla politica e l’ideologia del PCI, tanto che nelle tesi approvate al XV congresso del 1979, fu espressa la rituale critica ai partiti socialdemocratici, rei di “non aver portato la società fuori della logica del capitalismo”, volendo così confermare che il Pci non intendeva affatto rinunciare al suo legame organico con la dottrina e la prassi ideologica e organizzativa fondata sulle tesi di Marx e Lenin e con tutto ciò che essa simbolizzava.
A questo punto una conclusione si impone da sé, se consideriamo il punto dell’approdo storico dell’iniziativa di Bettino Craxi. Il tentativo di aggredire, sconvolgere e travolgere la mitologia marxi-leninista rappresentata dal PCI non conseguì alcun risultato. Anche la reazione degli iscritti al partito socialista non fu quella che Craxi confidava di raccogliere con il suo scritto, sicuramente per il fatto che il pensiero di Proudhon non era conosciuto e diffuso da assumerlo come un faro della nuova visione teorica del socialismo italiano, salvo l’elites dirigenziale vicina al capo (Luciano Pellicani ? ) probabilmente la sorgente culturale responsabile di quel tentativo. Mentre Nenni espresse la propria sorpresa e preoccupazione per quel cambiamento o acquisto di un nuovo pensatore mediante una intervista che rilasciò giorni dopo ad un quotidiano nazionale
Le tesi Proudhoniane non avanzarono di una spanna mentre si avvertiva il vento del fallimento di un progetto politico che in un quarto di secolo (78/94) ha portato alla fine del Partito Socialista e del Craxismo. il dilagare della corruzione nel partito, che divenne un fatto fisiologico, fu la sua più grave responsabilità che si deve attribuire a Bettino Craxi. Nel 1991 il PCI diviene PDS, una trasformazione dl Partito indicata da Occhetto come una formazione politica democratica, riformatrice e aperta a componenti laiche e cattoliche, che superasse il centralismo democratico, che si rinominò poi DS e oggi PD.
Socialisti, comunisti e i movimenti satelliti della sinistra rivoluzionaria, pacifista, alternativista, Leninista, Marxista, che hanno accompagnato la storia del nostro Paese fino alle soglie del XXI secolo, sono ormai un excursus della storia, mentre il presente ci ricorda tristemente la scomparsa di una forte rappresentanza della sinistra. Un fallimento che ha aperto le porte alla destra più retriva e nazionalista, antieuropea e spregiudicatamente razzista, che oggi Governa anche il nostro Paese.
La macchietta Napoletana aveva per oggetto un certo “tipo”: la mantenuta, il ballerino, il deputato, il prete, il benefattore, l’esattore delle tasse, il guappo, lo sciupafemmine; insomma una caricatura del modo di esprimersi, di pensare, dei caratteri fisici, comportamentali e psicologici. Gli spettatori si divertivano, noi invece, che viviamo questa messinscena ogni giorno con il Governo Conte (Salvini Di Maio ) dobbiamo preoccuparci, seriamente preoccuparci. Soprattutto per il fatto che ciò che rimane della sinistra organizzata non dà segnali di cambiamento, di superamento delle divisioni che vertono su questioni di natura procedurale, formale, in quanto non riconducibili ad una ideologia, ad una dottrina politica che rende contendibili i confini della dialettica.
Il riformismo illuminato, che cala dall’alto le sue ricette di laboratorio è stata la spinta che ha indotto i partiti della sinistra a modificare la propria origine genetica. Un errore, un fallimento. Il terreno riformista su cui la sinistra può rigenerare la propria identità è la riappropriazione del pensiero Marxista rielaborandone i contenuti e il testamento politico rivoluzionario straordinariamente attuale. Lavoro, giustizia, equità, solidarietà, democrazia, pace, sono i valori di riferimento; 70 anni fa li avevamo perduti e li abbiamo riconquistati godendone i benefici. Oggi sono nuovamente in pericolo. Non si perda tempo.
Alberto Angeli