Ripartire, ma a determinate condizioni, di S. Valentini
Da oltre un ventennio la sinistra mostra una incapacità a coniugare dialetticamente visione sociale e prospettiva strategica per condurre una efficace iniziativa politica. Il terremoto del voto è anche la conseguenza di questa sua incapacità. Al primo distruttivo scossone del 4 marzo, che ha politicamente spaccato l’Italia in due, nord e sud, ne seguiranno altri, delle scosse di assestamento più o meno intense e violente, che renderanno il panorama di macerie ancora più desolante. E non credo che il modesto 3,5 per cento di Liberi e uguali sia dovuto alla presenza di diverse liste di sinistra. Un punticino in più non avrebbe cambiato l’esito disastroso del voto: si sarebbe aggiunta ulteriore confusione politica alla tanta che già c’è a sinistra e che il dibattito del dopo voto inevitabilmente sta confermando.
È in atto, in Italia come in Europa, un processo di scomposizione e ricomposizione del sistema dei partiti, cioè della cosiddetta “crisi della democrazia”, o meglio della crisi istituzionale, politica e sociale dei sistemi liberali. Da tempo il capitale finanziario ha deciso di fare a meno della democrazia. Le istituzioni europee sono ridotte a momenti decisionali a-democratici. Basta mantenere in piedi un simulacro di “sovranità popolare”. Lo scontro tra i populismi, considerati forze antisistema, e l’élite finanziaria europea in verità non c’è mai stato. La riprova sta nel fatto che i mercati non hanno manifestato nervosismi e lo spettro dello spread non ha avuto picchi pericolosi, nonostante la gigantesca ondata populista. Lo stesso era accaduto con la elezione di Trump negli Usa. Rispetto a questa “crisi di sistema” la socialdemocratica manifesta la sua totale inadeguatezza e la sinistra radicale una residualità fatta di ideologismi impressionante, mentre una sinistra nuova non sempre riesce a emergere e ad affermarsi come soggetto con una discreta base sociale: l’Italia ne è la dimostrazione evidente.
Liberi e uguali si è presentato come un “cartello elettorale”, tra l’altro messo su tardivamente, con l’obiettivo di rilanciare una sinistra che diventasse il motore di un centrosinistra non a trazione renziana. Ha sottovalutato il sistema elettorale prevalentemente proporzionale, dove gli accordi di governo avvengono in Parlamento dopo il voto. Non so se siamo alla terza repubblica. Una cosa però è certa: dopo vent’anni di bipolarismo e di tentativi di costruire il bipartitismo (si pensi all’Ulivo e al Pdl), per molti aspetti siamo tornati alla prima repubblica, con la presenza di due partiti con caratteristiche di massa: Movimento 5 Stelle e Lega. Le due forze hanno dimostrato di saper declinare il lavoro politico del “porta a porta” con gli strumenti tradizionali dei media e con le nuove forme di comunicazione della rivoluzione digitale. Sono formazioni con i tratti del partito di massa (sarebbe errato considerarli dei semplici partiti di opinione). Quindi non è assolutamente vero che il partito di massa abbia esaurito la sua funzione: si è trasformato, ha cambiato pelle. Utilizza in modo intelligente le nuove tecnologie, oltre ovviamente i tradizionali metodi di ricerca del consenso e la costante mobilitazione dei suoi militanti. La sinistra non è stata capace di fare altrettanto.
Tutto ciò è stato possibile in quanto entrambe le formazioni hanno una visione del Paese e non una impostazione gestionale e amministrativa. Quando Salvini e Di Maio affermano che il concetto di destra e di sinistra sono superati non compiono una operazione a-ideologica o esclusivamente programmatica, ma rilanciano una loro precisa e chiara visione della società, definiscono la loro identità. È una forma moderna di ideologia che settori popolari e ceti medi impoveriti percepiscono essere in sintonia con la loro grande voglia di cambiamento, anche se poi queste spinte demagogiche e populiste vengono riassorbite per essere instradate dal sistema: devono infatti fare i conti, proprio perché non sono forze anticapitalistiche, con la realtà data, cioè con l’agenda politica che indica la necessità della stabilità dei governi sulla base dei dettati di Maastricht e del fiscal compact. La trasformazione di Di Maio in leader “responsabile”, attento alle dinamiche dei mercati e “atlantista” non deve perciò più di tanto meravigliare. Il Movimento 5 Stelle e Lega sono due diverse modalità di populismo intrecciato alla demagogia. Ma non sono le uniche: Renzi e Berlusconi non sono stati da meno. Le due formazioni vincitrici delle elezioni hanno vinto poiché in primo luogo hanno i tratti del partito di massa e non tanto perché sono populiste, che è una caratteristica di tutto il sistema politico. Sono state avvertite dalle popolazioni in sofferenza sociale a loro più vicine, proprio per questi tratti che hanno favorito la conduzione di una campagna elettorale in cui il proporzionale è stato valorizzato ed esaltato. Addirittura la Lega, pur facendo parte di uno schieramento di centrodestra, non ha rinunciato a sviluppare una iniziativa politica di forte competizione con Forza Italia.
Tutto ciò a sinistra non è accaduto. Non si è compreso che il problema non era la rifondazione del centrosinistra, ma della ricostruzione di un moderno e nuovo soggetto della sinistra. Con il proporzionale Liberi e uguali aveva l’occasione di mostrare la sua visione di società e la sua identità, invece si è presentato come copia piccina piccina dell’esperienze uliviste. Ha dato questa immagine, cioè di essere un “cartello elettorale” improvvisato, senza visione strategica e identità, dando la sensazione, tra l’altro, di essere la sommatoria di piccoli gruppi della sinistra al limite dell’autoreferenzialità i cui gruppi dirigenti sono un pezzo di ceto politico più volte duramente sconfitto (Si guardi alle ultime vicende della Regione Lazio). A prescindere dall’uso che si è fatto dei media e delle nuove tecnologie digitali, come è stato possibile ritenere che si sarebbe potuto riattivare militanti frustati e delusi dalle politiche del centrosinistra (non solo del Pd di Renzi) senza avere una visione di società, senza indicare una prospettiva, senza una identità che diventasse “senso comune di appartenenza”? A Pomigliano d’Arco la maggioranza degli operai è con la FIOM, ma il 65 per cento di essi ha votato per 5 Stelle!
Occorreva pertanto una discontinuità, di uomini e di proposte con le pratiche del centrosinistra: la precarizzazione (pacchetto Treu), le privatizzazioni (con svendite di un patrimonio produttivo del Paese a inaffidabili “capitani d’industria”), l’abbandono del Mezzogiorno a se stesso, il governo Monti con le sue controriforme sociali e l’inserimento del pareggio di bilancio nella Costituzione, per fare solo alcuni esempi, sono da addebitarsi al centrodestra o al centrosinistra? Su una questione Renzi ha ragione: la soppressione dell’articolo 18 e del jobs-act non sono stati provvedimenti altra cosa rispetto alle politiche uliviste, con tali politiche sono invece in forte continuità. Così Liberi e uguali non è stato un “cartello elettorale” credibile. Non si è presentato come forza nuova, in discontinuità assoluta con il passato. Doveva avere l’ambizione di essere, con la crisi profonda del Pd, una forza di sinistra che aspirava a divenire componente di maggioranza del campo progressista, e non apparire come la corta seconda gamba di un rinnovato centrosinistra. Con il proporzionale era questa la partita che si doveva giocare.
In un sistema proporzionale il centro-sinistra è una delle possibili proposte politiche di governo (in altri tempi si sarebbe detto una formula) su cui costruire in Parlamento una maggioranza, ma non è, a differenza di ciò che avviene in un sistema bipolare maggioritario, una coalizione programmatica e di governo, o addirittura un partito unico del centrosinistra. Non so se la inadeguatezza di Liberi e uguali sia dovuta a mancanza di coraggio o sia l’inevitabile conseguenza di una cultura politica di ispirazione ulivista, sia pure un po’ più a sinistra dal Pd. L’unica cosa certa che so è che il voto ha provocato la sparizione della sinistra (non l’estinzione), lasciando un senso di vuoto e di smarrimento.
Anche sul piano sociale Liberi e uguali ha evidenziato profondi limiti. È mai possibile che in un Paese in cui ci sono 6 milioni di poveri assoluti e una disoccupazione giovanile che in alcune zone del Mezzogiorno si aggira intorno 50 per cento la proposta qualificante della sinistra sia la soppressione delle tasse universitarie anche se importante? È questa la priorità delle popolazioni meridionali, dei giovani? Non dico che bisognava fare come 5 Stelle e la Lega che hanno spettacolarizzato la campagna elettorale con proposte confuse e demagogiche e a volte inquietanti, che però hanno avuto il merito di raccogliere il diffuso e profondo malessere sociale del Paese con messaggi forti. Si è opportunatamente denunciata la crescente diseguaglianza sociale, ma in concreto, oltre a indicare il principio costituzionale della progressività, quali sono state le due/tre proposte forti per rendere possibile e credibile davvero una diversa distribuzione della ricchezza? Idee forti, avrebbe detto Engels: un programma che sia una bandiera piantata nella testa della gente! Perché si è farfugliato sulla riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario dopo aver ricevuto, tra l’altro, dalla Germania una importante sponda? E si potrebbe continuare con il reddito minimo garantito, che avrebbe permesso un confronto non difensivo con la pasticciata proposta del reddito di cittadinanza, per non dire della “riforma Fornero” e di come correggerne gli aspetti più iniqui. Insomma, anche nei programmi ho visto molta timidezza, una cultura politica figlia dell’esperienze di centrosinistra.
Noi abbiamo invece la necessità di rifondare una sinistra del XXI secolo, che non sia la semplice continuazione delle esperienze storiche del Novecento, ma un soggetto nuovo, moderno, capace di raccogliere la sfida della globalizzazione sempre più dominata dal capitale finanziario. Una sinistra che prospetti una visione di andare “oltre il capitale”. Con il voto abbiamo perso una grande opportunità in Italia per avviare tale lavoro di lunga lena, iniziando da quello fondamentale del radicamento sociale. Si deve ripartire, ovviamente da una posizione ancora più arretrata, ma si può ripartire, a determinate condizioni però, non commettendo gli errori che ormai si commettono da più di un ventennio. L’auspicio è che da qui alle elezioni europee si sia imparata finalmente la lezione.
Sandro Valentini