Il leninismo del Pci- Recensione a “Il problema di Lenin” di Luigi Vinci, ed. “Punto Rosso”, di S. Valentini
Premessa.
Ho iniziato a leggere l’impegnativo volume di Luigi Vinci “Il problema di Lenin”, edito da Punto Rosso. A metà lettura confesso che la curiosità di leggere la parte dedicata al comunismo italiano era molto forte e così non ho resistito alla tentazione di visitare subito questo capitolo. Avrò altre occasioni per soffermarmi sulla ricca riflessione di Vinci su Lenin e il leninismo, riflessione che in larga misura condivido, per quello che ho finora letto. Sono stato indotto a questa scelta anche poiché ricorre il 50° anniversario della morte di Palmiro Togliatti e il 30° di quella di Enrico Berlinguer e dunque il lavoro di Vinci mi è apparso pure un’occasione per arricchire la discussione in corso sulle due importanti figure del Pci; pertanto mi sono impegnato in una recensione su questo capitolo, che però ha preso la forma, man mano che scrivevo, di un saggio passando sopra al resto del lavoro rigoroso di Vinci. Di ciò mi scuso con l’autore.
Il capitolo si sviluppa partendo dalla formazione culturale di Antonio Gramsci, formazione avvenuta su testi di Antonio Labriola, Croce, Gentile, Sorel, Dorso, Salvemini e infine Gobetti. A differenza di Lenin che si era formato sulle opere di Engels, Kautshy e Plehanov, oltre allo stesso Marx, Gramsci giunge “tardi”, rammenta Vinci, ai classici del marxismo. Mi pare che egli abbia ragione a sostenere che la peculiarità e l’importanza del contributo di Gramsci al marxismo va rintracciata proprio in questa sua formazione, la sua capacità cioè di legare lo storicismo non solo a un’analisi marxista delle condizioni storiche dell’Italia, ma al Lenin della Rivoluzione d’Ottobre. La conclusione di Vinci non è dissimile da quella di Togliatti nella sua famosa lezione (preceduta dagli appunti) “Gramsci e il leninismo”, che svolse alla Scuola di partito di Frattocchie.
Al centro della critica sia di Lenin sia di Gramsci vi è il determinismo, il “marxismo ortodosso” nella forma in cui era proposto dalla II Internazionale di Kautsky, a cui lo stesso “revisionista” Bernstein si era con qualche ragione opposto, separandosi dalla stessa. Un marxismo ridotto a dogmi classisti e dottrinari, come quello sulla “teoria del crollo”; un pensiero perciò del tutto incapace di leggere la realtà e di compiere un’azione rivoluzionaria. Se Bernstein rappresenta la fuoriuscita da “destra” all’attesismo socialdemocratico, Lenin e Gramsci rappresentano invece una fuoriuscita da “sinistra”, cioè rivoluzionaria. Il primo nel fare i conti con i populisti russi (e i loro eredi, i “socialisti rivoluzionari”) mentre Gramsci misurandosi con il “volontarismo spontaneista” e della “volontà politica” di Sorel e quello “vitalista” di Gentile, ma soprattutto con quel fiume in piena che era lo storicismo italiano, di cui Croce è stato la massima espressione.. Si può perciò affermare che nella concezione di Gramsci nella lotta al socialismo vi è Bernstein e Labriola nell’analisi delle classi (struttura) e Croce (come più tardi lo sarebbe stato Weber) sulla complessità della “società civile” (sovrastruttura) e il partito (“Che fare?”, di Lenin) come soggetto attivo della rivoluzione.
Lo storicismo di Croce e quello di Gramsci.
Svolgo come premessa alcune considerazioni sullo storicismo per non essere frainteso, per essere più preciso.. È noto che lo storicismo ha origine – almeno nella forma moderna – ad opera di grandi pensatori borghesi, come Kant e Hegel. La storia è, per quest’ultimo, il progresso della coscienza e della libertà e attraverso di essa lo “spirito” si fa libero. Gli uomini sono, ad un tempo, gli attori e gli strumenti della trama della storia. Ma negli uomini ci sono contemporaneamente passione e ragione, ma è la prima l’elemento attivo. Nulla di grande, afferma Hegel, è stato fatto senza la passione. Ma nell’azione degli uomini subentra qualche altra cosa che modifica i loro stessi intendimenti e ciò che immediatamente sono e vogliono. Questa altra cosa è “l’astuzia della ragione” che trasforma le azioni e i fini particolari in momenti della universalità. Questa astuzia è per Hegel “lo spirito della storia”. Da questa idea della storia discende il concetto per cui la realtà, tutta la realtà, è storia, cioè sviluppo in divenire. Ogni accadimento è quindi storicamente condizionato, cioè è possibile e valido solo nella determinata situazione storica che l’ha prodotto.
Questa impostazione è ripresa anche da Benedetto Croce con la sua polemica contro la trascendenza, contro la metafisica (anche religiosa), contro la filosofia dei “massimi problemi” e contro il razionalismo astratto che divide la realtà <<in soprastoria e storia, in un mondo di idee e di valori e in un basso mondo che riflette o li ha riflessi in modo imperfetto, al quale converrà una buona volta imporli, facendo succedere alla storia imperfetta, o alla storia senz’altro, una realtà razionale perfetta>>. Egli pertanto trae dall’incontro con Hegel una lezione immanentistica che vuol dire, in altre parole, lezione storicistica, giacché la realtà, tutta la realtà, come ho già ricordato, non è altro che lo sviluppo storico, ossia per Croce, come per Hegel, il divenire dello spirito.
Croce quindi coglie il senso profondo della dialettica hegeliana secondo cui il principio<< tutto ciò che è reale è razionale e tutto ciò che è razionale è reale>>, con il conseguente <<odio contro l’astratto e l’immobile, contro il dover essere che non è, contro l’ideale che non è reale>>. Ecco perché in Croce (“Etica e politica” e “Storia come pensiero e come azione”) la storia è pensiero ma anche conoscenza del passato e l’uomo, quando si rivolge ad essa per comprenderne il significato, ha il dovere di avere un approccio razionale, senza condanne né approvazione, cioè senza giustificarla o negarla attraverso un giudizio morale, ma accettando ciò che è stato e che non può essere modificato. Ma la storia non è solo pensiero ma anche azione e pertanto il giudizio storico – ecco il punto – è anche la premessa dell’ulteriore azione. E nell’agire ciò che si fa valere è l’ideale morale – razionale non meno del reale – che è espressione di ciò che la coscienza morale, nella circostanze date, comanda di fare. La storia perciò è sempre, come sottolinea Hegel, storia della libertà e diviene per Croce la più alta forma di religione (da qui la sua visione liberale) a cui si deve ispirare l’azione etico-politica. Questa è anche la ragione per cui egli tende a rappresentare la sua filosofia dello spirito come “storicismo assoluto” e a reinterpretare anche la categoria economica, a differenza di Marx, nell’ambito del principio di “vitalità” (“forza amorale”) che segna la complessa esistenza dell’uomo.
La lettura delle opere di Croce porterà Gramsci ad affermare, rovesciando con la filosofia della prassi la dialettica crociana e il suo storicismo assoluto, che lo studio della storia è sempre studio della storia contemporanea. Nel materialismo storico, ricorda Gramsci, non è vero che l’idea hegeliana sia stata sostituita con il concetto di struttura, come dice Croce. L’idea hegeliana è risolta tanto nella struttura quanto nelle sovrastrutture e tutto il modo di concepire la filosofia è stato storicizzato, cioè si è iniziato un nuovo modo di “fare filosofia”, più concreto di quello precedente. Dunque, nel materialismo storico di Marx ma anche di Lenin l’idea hegeliana è risolta nella “struttura” e la “sovrastruttura” è solo la sua emanazione, mentre Gramsci pone nel rovesciamento dell’idea crociana il rapporto in quanto tale “struttura-sovrastruttura”. Questo è il vero punto, tra l’altro, di distinzione del marxismo Occidentale da quello Orientale.
È evidente che il rovesciamento della dialettica hegeliana operata da Marx ed Engels, grazie a una intuizione di Feuerbach che suggerisce di invertire il rapporto spirito-natura facendo così dell’uomo il creatore dello spirito (di Dio), diede a loro la formidabile possibilità di inserire il materialismo degli hegeliani di sinistra nell’ambito del processo storico. È l’attività reale, cioè quella<< attività sensibile umana, come attività pratica, non soggettivamente>> (“Tesi su Feuerbach”). Quindi il rapporto tra uomo e mondo esteso, che l’idealismo hegeliano aveva risolto con la riduzione della realtà a spirito, è reimpostato da Marx con il concetto della prassi, dell’integrazione cioè dell’uomo nell’ambiente materiale e sociale. Per cui, come si afferma nell’ “Ideologia tedesca”, <<Hegel fa dell’uomo l’uomo della coscienza, invece di della coscienza, la coscienza dell’uomo reale vivente nel mondo reale>>. Cioè, in altri termini: <<Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma al contrario, il loro essere sociale che determina la coscienza>>, da “Per la critica dell’economia politica”.
Ma in questo rovesciamento operato da Marx della dialettica hegeliana e poi, come si è visto, di Gramsci di quella crociana nel porre contestualmente il rapporto “struttura-sovrastruttura”, non vi è una critica allo storicismo in quanto tale. Tutt’altro. Il concetto storicista non è mai messo in dubbio, in discussione tanto che porterà Engels a sostenere che il movimento operaio è l’erede della filosofia classica tedesca. Lo storicismo pertanto è una componente essenziale del marxismo ed è presente, non a caso nel pensiero di Lenin e in quello degli italiani Labriola e Gramsci. E non a caso quest’ultimo, nel “fare i conti con Croce”, allo storicismo assoluto del filosofo liberale contrappone una visione della rivoluzione non solo come momento della rottura sul piano economico e sociale, ma anche culturale e ideale. Gramsci, insomma, sostituisce lo storicismo idealista con uno storicismo radicale basato sulla filosofia della prassi. È la storia risultante da una teoria etica rivoluzionaria organizzata in partito, cioè in un soggetto politico capace di forzare i limiti economici, culturali e sociali entro cui il capitalismo vorrebbe racchiudere il suo sviluppo.
La formazione storica della borghesia in quanto forma dominante può oggi, per esempio con lo strutturalismo, l’esistenzialismo, il neopositivismo, il pragmatismo ed altre tendenze della filosofia contemporanea, mettere in discussione il momento speculativo di costruttori di sistemi filosofici come Kant, Fichte, Shelling e Hegel o gli Illuministi. La loro esigenza di esaminare e di analizzare criticamente il cammino percorso della filosofia era dettata non soltanto da necessità interiori, ma da una aspirazione alla compiutezza e alla sistemazione derivata dalle circostanze esterne, dallo stato di crisi prerivoluzionario di tutta la cultura spirituale. Il conflitto di idee in tutte le sfere della vita intellettuale, dalla politica alle scienze naturali, coinvolte nella lotta ideologica, stimolava sempre più la filosofia a scavare alle radici degli avvenimenti al fine di indicare una via di uscita alla situazione creatasi.
Lo sforzo di Hegel, quindi era quello di concepire lo spirito della storia nella sua autonomia e libertà, ma questo tentativo è oggi superato dalla libertà acquisita di cui gode la borghesia; anzi, certe tendenze della filosofia contemporanea possono avere lo scopo, sia pur inconsapevole, di garantire appunto l’esistenza, nella “sovrastruttura ideologica”, della formazione storica della borghesia che può perire solo se si sviluppa “la formazione storica del socialismo” fino a superarla. Ma se il “pensiero socialista” rinuncia o rimuove lo storicismo, attraverso il quale ha acquistato contenuto realistico il concetto di progresso e di libertà, non è più in grado di esprimere, almeno per tutta una fase o un ciclo della storia, un soggettivismo rivoluzionario che assolva la funzione del superamento del capitalismo. Per questo è necessario tornare al metro della valutazione storiografica, allo storicismo. So bene che questo “ritorno” implica dei rischi, delle insidie. Per esempio di scivolare nell’idealismo o nell’etica. Ma se per ricostruire una nuova soggettività rivoluzionaria bisogna correre questo pericolo: la posta in gioco fa sì che ne valga la pena, perché l’obiettivo oggi è “storcere il bastone da un lato per raddrizzarlo”.
Da più parti si sostiene che il pensiero di Croce oltre ad essere superato sia datato, ma a me pare decisiva la sua intuizione di sottolineare il ruolo appunto della “sovrastruttura” politica e ideologica nella determinazione dei processi storici, criticando dall’altro lato una certa interpretazione positivista, determinista ed economicista del marxismo allora in voga, presente anche nell’anziano Engels e non del tutto colta dallo stesso Marx con l’assolutizzare la sola “struttura”, ad eccezione che nei Grundrisse. Quello di Croce è ancora oggi un contributo notevole al pensiero filosofico moderno. Non bisogna mai scordare, del resto, che egli fu allievo di Labriola e in gioventù fu attratto dal marxismo.
“Gramsci e il leninismo”.
Ovviamente ha ragione Vinci nel chiarire che lo storicismo di Gramsci non è affatto in continuità con quello di Croce, come del resto anch’io ho tentato di chiarire, ma lo supera attraverso una interpretazione del materialismo storico non esemplificata alla sola economia come elemento trainante e condizionante , ma neppure al solo gioco politico, al volontarismo, prescindendo dai rapporti economici e di produzione. Quella di Gramsci è ancora oggi una lezione ancora di grande attualità. Il male della sinistra italiana contemporanea è il suo politicismo da un lato e l’economicismo dall’altro lato. Certi intellettuali e molti militanti rivalutano, sia pur inconsapevolmente, Croce – anche se solo all’idea di essere avvicinati a esso rabbrividiscono – scoprendo però poi il pensiero di Weber o del neocapitalismo o la politica come “scienza autonoma” che prescinde dall’economia.
Sono dunque d’accordo sul percorso politico e teorico che Vinci tratteggia di Gramsci, che lo porta prima, con il “biennio rosso” e il noto articolo “La rivoluzione contro il Capitale”, ad approdare al leninismo e successivamente, già con “Le tesi di Lione” del 26’ e il saggio del ’30 su “La questione agraria”, a un’elaborazione che sarà formidabilmente sviluppata nei “Quaderni dal carcere”. Una elaborazione teorica insomma con importanti nuovi contributi di arricchimento del marxismo. Emerge quindi già nel Gramsci della metà degli anni venti l’analisi sulla struttura dualistica della società italiana, cioè dell’alleanza tra gli industriali del nord e gli agrari del sud nella formazione dello Stato unitario. Un compromesso che impedirà in Italia il compimento di una rivoluzione democratica-borghese (debolezza del partito giacobino) e di conseguenza con una borghesia su una posizione più arretrata rispetto alle altre borghesie europee In questo compromesso svolgono una funzione decisiva i grandi intellettuali e il Vaticano nel dare forza politica egemonica al compromesso. Le radici politiche, culturali e sociali del fascismo sono il prodotto di tale alleanza e compromesso.
Ma il capolavoro teorico di Gramsci sono i “Quaderni dal carcere” in cui egli coglie pienamente la lezione di Croce sulla complessità della società occidentale e sul ruolo fondamentale della “sovrastruttura”, che deve sempre essere valutata nel misurarsi con l’azione politica (ecco, da qui emerge il suo leninismo, <<analisi concreta della situazione concreta>>) senza per questo prescindere dalla “struttura” economica. Da qui la sua impostazione sul “blocco storico” e sulla “guerra di posizione”, cioè di una guerra per l’egemonia tramite la conquista di “casematte” che producono ideologia e consenso nell’Occidente capitalistico. Insomma, una strategia rivoluzionaria all’altezza di una società non attraversata da conflitti elementari, come in Russia, dove è stata sufficiente l’accumulazione di forze per dare una spallata e disgregare il fronte avversario e conquistare il potere. Per questa ragioni, che ho un po’ rozzamente riportato, Gramsci è considerato il teorico del marxismo che si pone la questione delle questioni: quella della “rivoluzione in Occidente” dopo che tutti i tentativi europei degli anni venti di “fare come la Russia” erano falliti e repressi nel sangue.
Gramsci, con il concetto di “guerra di posizione”, non ha in testa, come precisa Vinci, una visione gradualistica dei processi rivoluzionari in Occidente. Anche in Gramsci è forte l’idea che la società capitalistica tende a momenti di crisi “organica”, generale, sicché in questi momenti di precipitazione della crisi (di una “situazione rivoluzionaria” avrebbe detto Lenin) comporta il passaggio a una “guerra di movimento”, decisiva per poter affermare un “Ordine nuovo” delle classi subalterne.
Torno più avanti su questo concetto. Ora mi preme precisare che vi è una particolare attenzione di Gramsci sulla “sovrastruttura”. Un pensiero forte, non frammentario rispetto a quello di Marx e di Lenin a proposito. Non a caso essi parlano più di “libertà” che di “democrazia”, osserva Vinci; e proprio perché sono fortemente condizionati da Hegel fanno della democrazia e dell’eguaglianza giuridica delle forme mistificatorie del capitalismo. I loro obiettivi di emancipazione delle classi subalterne sono così ridotti ai minimi termini, sostanzialmente alla prospettiva liberatrice del socialismo. In Gramsci, come in Lukàcs e nel marxismo occidentale invece si dà un peso specifico ai valori delle democrazia e dell’eguaglianza, cioè a categorie politiche non strutturali, dovuto proprio a una più alta considerazione della “sovrastruttura”, che rende la società occidentale molto più complessa a quella della Russia del ’17 (ma oggi si potrebbe anche dire della rivoluzione cinese o cubana).
Il nesso inscindibile tra democrazia-socialismo è dovuto proprio a questo approccio teorico gramsciano. Non è un caso che in Sud America, dove sono in atto processi rivoluzionari interessanti, Gramsci è il teorico marxista più letto e studiato. L’acquisizione piena del nesso democrazia-socialismo porta anche alla soluzione di un altro nodo teorico che Vinci rammenta ma che non sviluppa adeguatamente: al superamento dell’antitesi tra lotta politica per affermare la democrazia diretta e partecipata e democrazia parlamentare. La contrapposizione era già emersa nell’Illuminismo con lo scontro tra Rousseau con gli altri illuministi, poi ripresa da Marx ne “La questione ebraica” e da Lenin in “Stato e rivoluzione”. In questo contesto si pone la questione non risolta dell’estinzione dello Stato man mano che avanza il socialismo, che Stalin risolve capovolgendo Marx e Lenin con la sua teoria del “rafforzamento” dello Stato con la “realizzazione del socialismo in un solo paese”, cioè la dittatura del “partito unico” e le sue “cinghie di trasmissione”. Occorrerà attendere Gramsci e poi soprattutto Togliatti per definire una teoria marxista dello Stato alternativa allo stalinismo . Non è questo un passaggio di poco conto che condurrà alla “democrazia progressiva” di Togliatti e Curiel e che trova un forte riscontro oggi nei processi rivoluzionari in corso nel mondo per riproporre la transizione al socialismo. Una tematica, inoltre, quella gramsciana che ancor di più deve valere per l’Europa. Sarebbe però errato affermare, superficialmente e frettolosamente come molti hanno fatto, trarre la conclusione che con queste intuizioni Gramsci si allontana dal leninismo. È invece vero l’inverso. Egli giunge a questo formidabile intuizione teorica proprio collegandosi strettamente a Lenin e al suo primato, come rammenta Vinci, <<della politica sulla teoria>>, cioè sulla necessità di ricercare per l’Occidente in concreto una via rivoluzionaria di superamento del capitalismo.
Anche per queste ragioni le riflessioni gramsciane tolgono di mezzo, più dello stesso Lenin, <<ogni possibilità, staliniana o trockista o luxenbughiana – dice Vinci – di fare del partito comunista, di fatto o su base teorica, una formazione operaista settaria, una formazione cioè che si considera avanguardia rivoluzionaria del proletariato semplicemente perché raccolta in partito comunista o perché ha a proprio riferimento la “centralità operaia” o la “contraddizione capitale-lavoro”>>. È senz’altro un’affermazione impegnativa questa, ma parziale. Il settarismo derivato da concezioni economiciste e deterministe è una componente quasi fisiologica della storia del movimento operaio. Nell’ Italia del secondo dopo guerra il settarismo all’inizio è vissuto molto ai margini della vita politica proprio per la diffusione di massa dell’impostazione gramsciana, sia pur rivisitata da Togliatti. Per altre vie negli anni ’60 ha ripreso una sua significativa diffusione: con l’operaismo di Panzieri e con la crisi dello storicismo cattolico, manifestatosi in modo devastante in particolare nelle associazioni giovanili e studentesche. Rischio di andare un po’ fuori tema, ma la crisi dello storicismo italiano è in primo luogo il risultato dell’incontro tra questi due filoni politici e culturali che nel Pci e soprattutto nel Psiup potevano contare su complicità e simpatie. Si forma pertanto negli anni ’60 un nuovo gruppo dirigente attorno a riviste come i “Quaderni Rossi”e i “Quaderni Piacentini” che non era cresciuto nel Pci (ma che entrerà in buona parte nel Pci dagli anni ’70 in poi) composto da universitari e da giovani intellettuali di cultura non storicista. La Cina di Mao e la “rivoluzione culturale”, lo “cheguevarismo”, le critiche della sinistra comunista m.l. al Pci e altri fenomeni politici saranno presenze marginali e di corto respiro, del tutto contingenti, utili solo ad aumentare la “massa critica” delle nuove generazioni verso il Pci. Non è un caso che le due formazioni con una certa diffusione di massa furono “Potere Operaio” e “Lotta Continua” riconducibili appunto all’operaismo e alla crisi del mondo cattolico.
A oltre 50 anni da quegli avvenimenti sarebbe cosa utile rivisitarli alla luce degli sviluppi del percorso drammatico compiuto dalla sinistra italiana in questi anni per comprendere il fenomeno della diffusione di posizione settarie che avvenne sostanzialmente fuori dallo schema proposto da Vinci; e le responsabilità di questa crisi non posso essere accollate storicamente al solo gruppo dirigente del Pci, che non avrebbe saputo leggere la situazione che si andava determinando.
Torno più avanti su questo punto, cioè sulla crisi dello storicismo e alla discussione apertasi nel Pci dopo la morte di Togliatti. Ora mi preme sottolineare, per concludere su Gramsci, che egli includa, nel suo pensiero alto e robusto, molti contenuti del “marxismo antidogmatico” di Labriola, del “rivoluzionario liberale” di Gobetti, dell’azionismo e della “volontà politica” di un Sorel, ma anche il pensiero variegato del socialismo riformista: le intuizioni autonomiste e meridionaliste di Salvemini, il revisionismo teso al gradualismo sociale di Bissolati, il marxismo politico di Turati. A proposito bisognerebbe interrogarsi di più come mai nel Psi, fin dalla sua nascita a Genova, le componenti del socialismo riformista, spesso divise e in lotta tra loro, non furono mai effettivamente egemoni nel partito e non ebbero la capacità di contrastare il settarismo delle posizioni massimaliste, anarco-sindacaliste e successivamente della sinistra comunista bordighiana. Compito invece che riuscì al Pci di Gramsci e di Togliatti poiché la formazione del partito e dei suoi gruppo dirigente fu il risultato di un processo nato sulla spinta della III Internazionale che però si sviluppò lungo un percorso democratico e antifascista di essere a pieno titolo nel campo fecondo dello storicismo. La grandezza di Gramsci è anche questa: di aver compiuto una sintesi teorica tra leninismo e storicismo elaborando una teoria rivoluzionaria in larga misura ancora oggi attuale, non solo per l’Italia.
Togliatti.
Passo ora a Togliatti.
Sono molto d’accordo con Vinci che riprende una riflessione sia di Prestipino sia di Macri:<<La continuità di Togliatti con Gramsci è più significativa di quanto di solito non si dice>>. Non ho molte considerazioni diverse da svolgere rispetto dunque a quelle fatte da Vinci. Trovo, tra l’altro, puntuale e persuasiva la spiegazione che egli dà sull’operazione di Togliatti di diffusione dei “Quaderni”, sia nel modo in cui raccolse le note (per una più facile lettura per un pubblico di masssa) sia sui loro tempi di stampa (teneva conto che il grosso del Pci non conosceva gli scritti di Gramsci).
Ho da fare una sola obiezione e una critica a questa parte del lavoro di Vinci.
L’obiezione. Si è visto che in Gramsci la visione della “guerra di posizione” non comporta una scelta definitiva di indicare la via della sola scelta gradualistica nella lotta per il socialismo. In Togliatti invece e nel Pci post-bellico la scelta gradualistica, sostiene Vinci, diviene compiuta, strategica; anzi, addirittura si giunge a considerare la scelta evolutiva l’unica possibile, in contrapposizione ai “momenti di rottura”, fino al punto di giustificare con lo storicismo sempre una posizione politica gradualistica ,<< conservatrice e continuazionista e giustificatrice>>..
A me pare che le cose non siano proprio andate così o solo in parte siano andate in questo modo. Scrive Longo, nel ’63, un dirigente del Pci troppo spesso sottovalutato e dimenticato, in un articolo apparso su “L’Unità” dal titolo significativo “Rivoluzione e riforme”: <<Pur mancando una crisi rivoluzionaria acuta, si può e si deve lottare per far avanzare la classe operaia ed i lavoratori verso il potere e il socialismo, attraverso una serie di conquiste di carattere economico e di carattere politico, che si pongano in una prospettiva rivoluzionaria, cioè nella prospettiva di una radicale trasformazione della natura dello Stato e dei rapporti produttivi>>. E più a vanti avverte:<<Noi diciamo che per questa via democratica e relativamente pacifica, possiamo progredire, in Italia, verso il socialismo. Ma diciamo anche: non facciamoci illusioni! Non solo perché non ignoriamo che i gruppi reazionari borghesi sono sempre disposti a fare ricorso alla violenza per sbarrare la strada al progresso politico e sociale, come dicono le Tesi approvate al X Congresso, ma anche perché, per quanto possa essere relativamente pacifica, quella che noi chiamiamo via italiana al socialismo risulterà sempre da una serie ininterrotta di lotte accanite di classe, nel corso delle quali grandi saranno gli sforzi ed anche i sacrifici che le masse dovranno fare per portare l’Italia su un nuovo cammino, per conquistare gradualmente il potere e costruire il socialismo>>.
Questo straordinario articolo di Longo, scritto ancora vivo Togliatti e all’indomani del X Congresso, mi pare che ridimensioni molto la tesi che il Pci imboccò in quegli anni la via evolutiva al socialismo senza per altro interrogarsi su eventuali e possibili momenti cruenti di rottura. Sposterei molto più avanti, alla Segreteria di Berlinguer, dopo la morte di dirigenti appunto come Longo e la liquidazione di Cossutta dalla Segreteria nazionale del partito, il passaggio definitivo del Pci all’evoluzionismo. Quasi tutta la storiografia sul Pci passa, con un balzo, dal confronto Amendola-Ingrao, che si sviluppa dopo la morte di Togliatti, a Berlinguer e alla politica del “compromesso storico”. Questa impostazione è limitativa sia sul piano storico sia su quello della elaborazione teorico-politica del Pci. Infatti, non tiene nel dovuto conto del contributo di Longo.
Le posizioni della sinistra comunista (occorre dire sia ingraiana sia secchiana) e delle culture radicali, estremiste e settarie, che si diffondevano con la contestazione giovanile e il movimento studentesco del ‘68, furono battute proprio dalla costante e incisiva azione di direzione politica di Longo. Sapeva praticare con grande maestria la lotta sui due fronti. Si legga uno stralcio della la sua relazione al XII Congresso (1969).<< Mai si è affievolito il nostro sforzo e quello di centinaia e centinaia di migliaia di militanti comunisti per organizzare e guidare la lotta rinnovatrice e liberatrice. Altrettanto non si può dire per quella parte del Partito socialista che, sotto la guida dei socialdemocratici e di Nenni, ha ceduto alla pressione delle forze della conservazione sociale. Questo non si può dire neppure per coloro che quando, negli anni ‘50, vennero avanti nelle fabbriche massicci cambiamenti tecnologici e nuove forme di sfruttamento, si affrettarono, vantandosi magari di essere portatori di posizioni di sinistra, a decretare che l’inizio del ‘neocapitalismo’ segnava la fine del marxismo e della lotta delle classi. Così ancora più tardi, – prosegue Longo – mentre tanti, di fronte all’espansione monopolistica degli anni sessanta, caddero nelle illusioni riformistiche e in quello di tipo tecnocratico e dirigistico, altri si affrettarono ad annunciare l’ineluttabilità dell’integrazione della classe operaia nel sistema capitalistico e di conseguenza la solidità del centro-sinistra (…) E così ancora, mentre più tardi di tre, quattro anni fa, i soliti critici da ‘sinistra’ teorizzavano sulla morte delle ideologie fra le nuove generazioni, noi abbiamo respinto queste argomentazioni e abbiamo avuto fiducia nelle nostre idee generali e nella gioventù>>.
Dopo queste lunghe citazioni, di cui mi scuso, ma a volte sono decisivi per precisare meglio un’opinione, non mi sottraggo a dare una risposta alla questione posta da Vinci anche perché è evidente che una certa discontinuità tra Gramsci e Togliatti c’è e dunque nella sostanza qualche ragione Vinci ce l’ha.
Credo che il confronto su questo punto tra Gramsci e Togliatti sia astratto perché non si tiene conto del contesto storico. Gramsci scrive le sue note negli anni ’30, quando era in prigione e sotto il tallone di ferro del fascismo. Togliatti elabora la sua strategia di avanzata al socialismo molto tempo dopo, in un Paese, una Europa e un mondo profondamente mutasti con la sconfitta del nazismo e la divisione del mondo a Yalta in due sfere di influenza, quella Usa, quella Sovietica. Dunque, il confronto storico di Togliatti con Gramsci va fatto con il Togliatti degli anni ’30, cioè tra due contemporanei e che io sappia non mi pare che egli avesse all’epoca una posizione molto diversa da Gramsci e a nessuno è dato di sapere come quest’ultimo l’avrebbe pensata se fosse vissuto ai tempi in cui il Pci elaborava la sua strategia nazionale di avanzata al socialismo. Se si forza nel voler fare questo confronto – e Vinci non è né il primo né l’ultimo a farlo – non si ricostruisce obiettivamente la storia del Pci, soprattutto del Pci dal VI Congresso fino al suo scioglimento, ma si costruiscono solo “opinioni” di parte e propagandistiche, per ultima come quella di Veltroni con il film su Berlinguer.
La verità è invece di una semplicità disarmante: Togliatti giunge all’approdo teorico che conosciamo, così ben illustrato anche da Vinci, non perché le sue idee fossero contenute, sia pur in embrione, nei “Quaderni” , ma perché in esse vi sono riflessioni teoriche nuove che gli hanno permesso di elaborare una strategia rivoluzionaria originale di avanzata al socialismo. In ciò sta la discontinuità tra Gramsci e Togliatti, cioè nel riconoscimento che anche il secondo è stato un teorico e dirigente rivoluzionario. Ma vi è una forte continuità tra i due proprio perché entrambi formatisi nell’incontro del leninismo con lo storicismo italiano. D’altronde valorizzare la continuità non significa negare le differenze. Solo Stalin con il suo “marxismo-leninismo” è riuscito a costruire un “corpo dottrinario” in perfetta continuità con Marx e Lenin. Ma ora sappiamo che le cose non stanno così, che la ricerca per una “teoria della rivoluzione” non avviene in questo modo. Anche per questo in Togliatti prevale un certo Gramsci e non quello dell’esperienze consiliari del ’20 (di cui tra l’altro spesso si dimentica che anche Togliatti fu un protagonista) o di quello del “fordismo”. Non trovo in ciò nulla di scandaloso, anche Lenin mise più in risalto certi aspetti di Marx invece di altri per teorizzare e attuare la rivoluzione in Russia. Dopo di che non è una colpa di Togliatti se un certo Gramsci non al centro delle sue riflessioni, non sia stato adeguatamente ripreso da altri e non abbia avuto lo stesso imponente sviluppo politico e teorico.
Sul presunto “marxismo-leninismo” di Togliatti.
Passo ora al punto in cui dissento da Vinci, cioè sul presunto “marxismo-leninismo” di Togliatti. Sarebbe intanto utile porsi una domanda: Togliatti era stalinista? Ovviamente si intende qui per stalinismo l’insieme del “corpo dottrinario” di Stalin. Se si spuntano dai tratti distintivi di Togliatti certe modalità comuni un po’ a tutti i dirigenti della III Internazionale (una sorta di giacobinismo) , cioè l’attitudine al comando fondata sul principio di un partito fortemente gerarchizzato e centralizzato, allora Togliatti era uno stalinista come lo erano tutti gli altri dirigenti comunisti, compresi gli oppositori di Stalin da lui liquidati. Ma se per stalinismo s’intende il “corpo dottrinario” messo su da Stalin, il “marxismo-leninismo” allora mi pare di poter affermare che Togliatti non era uno stalinista, o lo era come lo erano molti altri nei “terribili anni ’30: lo subiva!
D’altronde già il Togliatti della guerra di civile di Spagna si era differenziato non poco da Stalin avviando una sua autonoma riflessione e dopo l’esito drammatico dell’esperienza spagnola fu arrestato e tenuto agli resti per una settimana a Mosca dalla polizia politica in quanto aveva manifestato, partendo proprio dalla lezione spagnola, la sua contrarietà alla politica del socialfascismo. Sono gli anni in cui Togliatti, insieme a Dimitrov, avvia una profonda riflessione che lo porterà alla svolta dei fronti popolare. Questa linea sarà in un primo momento osteggiata da Stalin che poi la farà successivamente sua, come era nella natura politica dell’uomo. Infatti, se vedeva un vantaggio tattico da utilizzare per continuare ad esercitare il controllo indiscusso sul partito faceva sua una certa determinata strategia e l’attuava in prima persona anche con un cambio repentino di linea. Da qui la svolta dei fronti popolari di cui, come è dimostrato in sede storica, Togliatti fu uno dei principali protagonisti. Una linea che porterà qualche anno dopo lo stesso Togliatti a concepire la Resistenza come un momento democratico unitario, addirittura come compimento, come più di qualcuno ha sostenuto o sostiene, della rivoluzione democratica-borghese e porre contestualmente le premesse, con la Costituzione repubblicana, della democrazia progressiva.
Resta pertanto difficile ricondurre Togliatti al “marxistsa-leninista” di Stalin se si considerano tutti i suoi più significativi passaggi teorici e politici: l’Assemblea costituente (a riguardo di grande attualità sono i suoi discorsi alla Costituente in un clima politico di attacco frontale alla Costituzione), la ”svolta di Salerno”, il “partito nuovo” e l’apertura al mondo cattolico, che lo porterà a pronunciare nel ’63 a Bergamo il famoso discorso su “Il destino dell’uomo”, l’intervista a “Nuovi Argomenti” e il “Memoriale di Yalta”, che Longo con determinazione volle che fosse pubblicato. Per non parlare delle Tesi del VI Congresso, quello della definizione della strategia della “via italiana al socialismo”. Non mi pare che Togliatti e il gruppo dirigente del Pci si attardassero su una impostazione ideologica e teorica “marxista-leninista”, nonostante la totale riaffermazione della “scelta di campo” con l’Urss.
Chiedo perciò a Vinci su quali basi giustifica la tesi secondo cui il <<Pci sin dal primo momento, cioè dal 1944-45, si era collocato in una sorta di intercapedine tra marxismo-leninismo e storicismo>>, oltre al fatto che tale tesi l’ha tratta da Luporini? Certamente il “marxismo-leninismo” era la dottrina della III Internazionale, fatta propria dal Pcus, dai paesi a democrazia popolare, dalla quasi totalità dei partiti comunisti. Inoltre, che in Italia vi fosse una parte del gruppo dirigente fortemente legato a Stalin e allo stalinismo, a iniziare da Secchia, è altrettanto vero. Ma in Italia era anche cresciuto, proprio tramite l’incontro del leninismo con lo storicismo e attraverso la dura selezione della lotta antifascista e l’occupazione nazista, un nuovo gruppo dirigente la cui formazione teorica era tutt’altro che riconducibile al dogmatismo del “marxismo-leninismo”. Non a caso concetti come quello della “dittatura del proletariato”, “dell’internazionalismo proletario” (soppiantato da quello della “solidarietà internazionalista”), del “partito guida”, erano già da tempo in disuso o stavano per essere superati. Si poteva andare con maggiore rapidità verso le innovazioni teoriche? Il processo non poteva prescindere dalla lotta per il rinnovamento dei gruppi dirigenti del partito, che fu molto aspra, in particolare in alcune città, come a Milano.
La tesi di Luporini mi pare costruita più per attaccare lo storicismo che per fare i conti con il “marxismo-leninismo –, conti con questo sostanzialmente allora già fatti dal gruppo dirigente del Pci, anche se perdurerà nelle Sezioni una diffusa nostalgia di Stalin, a decrescere, ma che subirà una certa ripresa, in epoca a noi più recente, con il ’68 e i gruppi m.l. della “nuova sinistra”. Mi sembra più corretto quindi sostenere che in quel intercapedine più che il “marxismo-leninismo” vi fosse il leninismo di Gramsci e di Togliatti. Può sembrare, per chi non ha dimestichezza di certi concetti cari ai comunisti di una “volta”, questo un gioco di parole, ma non è così perché il significato politico, teorico e ideologico cambia di molto, cambia profondamente.
Il Pci dopo la scomparsa di Togliatti.
La storia del leninismo s’intreccia in Italia con quello dello storicismo. Questo è un dato storico non confutabile. Non nego che vi siano state altre esperienze leniniste ma nessuna ha avuto lo sviluppo e la diffusione di quella che ha ruotato attorno all’asse Gramsci-Togliatti. Cadere nella trappola di un “marxismo-leninismo” del Pci che persisteva anche in piena epoca togliattiana, magari con il pretesto di tornare a Gramsci, a Lenin, a Marx, ha solo un significato: accettare, consapevolmente o no, la messa in discussione del leninismo italiano così come si è formato e sviluppato nel campo originale dello storicismo. Ed è proprio questo che si è inteso liquidare, non solo con il “revisionismo storico” oggi dilagante, ma anche con un atteggiamento antistoricista portato avanti da significative e consistenti componenti della sinistra, interne ed esterne al Pci.
Ho già detto che la storia del Pci, dalla morte di Togliatti fino al suo scioglimento, deve essere ancora in gran parte scritta. Del Pci si sa di più del suo lontano passato che sul dibattito e il confronto che si sviluppò negli anni ’60. Fiume di inchiostro è stato versato sulla sua “destra storica”, di Amendola, Pajetta, Bufalini, Alicata (assolutamente da non confondere con il “migliorismo” di Napolitano), che sarebbe stata responsabile nel trasformare lo storicismo in una sorta di conservatorismo che impedì l’apertura del partito verso i nuovi movimenti del ’68. Intanto ci si metta d’accordo su un punto: quella della “destra storica” era una posizione “marxista-leninista”? Anche i più accaniti detrattori di Amendola credo facciano fatica ad annoverarlo tra i “marxisti-leninisti”! Allora? Stiamo nel merito delle posizioni.
Vinci cita il Macri del “Il sarto di Ulm” per dare maggiore forza alla sua valutazione critica sulla “destra storica” del Pci e sul suo giudizio sugli orientamenti del capitalismo italiano, considerato debole e arretrato. Fu questo un punto alto dello scontro tra questa e la “sinistra” di impostazione ingraiana, che riteneva avviata con l’avvento del centro-sinistra una fase di modernizzazione e riorganizzazione capitalistica del Paese. Ma a me sembra che Macri, schierato con Ingrao allora, compie nel suo ultimo lavoro un interessante ripensamento fino a dare, nella sostanza, ragione ad Amendola. Del resto se si considerano gli sviluppi del quadro politico italiano in questi anni non mi pare che il nostro capitalismo, che tra l’altro ha smantellato l’intero comparto industriale e ha espresso fenomeni politici di lungo periodo, come il berlusconismo e diverse modalità di populismo di massa, si sia messo al pari con altri capitalismi europei, a iniziare da quello tedesco o che la questione meridionale sia stata risolta o avviata a soluzione.
Ma il giudizio sugli orientamenti del capitalismo italiano fu un confronto duro non solo dentro il Pci, coinvolse l’intera sinistra, che si schierò, gran parte, più o meno in sintonia con la critica ingraiana. Vinci ha fatto una considerazione che condivido molto, ma merita d’essere approfondita e non letta con la leggerezza con cui lui l’ha espressa, cioè nell’ambito di un inciso, tra parentesi. Dice Vinci: <<Dopo la scomparsa di Togliatti, nel 1964, dall’altro, a un lungo processo di indebolimento egemonico (il primo episodio fondamentale di questo indebolimento sarà l’allentamento e poi la dissoluzione dei rapporti di “unità d’azione” con il Psi)>>.
Il confronto Amendola-Ingrao assume carattere pubblico quindi clamoroso con l’ XI Congresso, che si svolse subito dopo la scomparsa di Togliatti. Il primo sosteneva che lo sviluppo dell’economia italiana e l’industrializzazione convivevano con antichi squilibri territoriali, soprattutto nel Mezzogiorno, e che sarebbe stato pericoloso protrarre questa situazione a lungo, senza interventi politici che introducessero correttivi. Occorrevano, pertanto, trasformazioni sociali ed economiche del Paese, come indicate dalla linea delle riforme di struttura dell’VIII Congresso del Pci; ma per fare questo era necessaria una svolta politica, una nuova maggioranza. Per questo egli considerava la proposta di un nuovo modello di sviluppo di Ingrao, che si basava sul ragionamento della costruzione di un’alternativa socialista al capitalismo italiano, non adeguata e non corrispondente alla realtà, allo scontro politico e sociale in atto. Si andavano così definendo due linee: la prima, ribadiva, sia pur aggiornandola, l’impostazione strategica dell’VIII Congresso, che faceva perno sull’unità della sinistra, Pci e Psi, senza rinunciare al dialogo con il mondo cristiano; la seconda, puntava a costruire un’alternativa attraverso il coinvolgimento dei movimenti sociali e dei sindacati e la costruzione di un rapporto nuovo con il mondo cattolico.
Non sono queste questioni secondarie, marginali, ma d’importanza strategica. E sono decise per una interpretazione corretta della storia del Pci. Il giudizio sul capitalismo, sulla sua più o meno capacità riformatrice tramite il centro-sinistra, sulla funzione del Psi e sulle prospettive dell’interclassismo della Dc, erano i veri temi al centro della discussione nel Pci. Vi fu invece una sostanziale unità del gruppo dirigente sui fatti di Ungheria e anche sul nuovo corso krusciovano (ho ricordato il coraggio e la determinazione di Longo nel pubblicare immediatamente il “Memoriale di Yalta”, fino alla condanna dell’intervento militare sovietico in Cecoslovacchia e il diverso approccio, rispetto al Pcus, sui rapporti con i comunisti cinesi. Dunque, non era su queste vicende il punto alto dello scontro. Certamente la componente di Secchia di matrice terzointernazionalista e legata al “marxismo-leninismo” aveva una ben altra visione degli avvenimenti internazionali, ma con il processo ormai compiuto di rinnovamento del gruppo dirigente questa area non aveva più la forza di ribaltare i rapporti di forza. Non è un caso che una serie di dirigenti e di quadri “secchiani” conclusero la loro vita politica nelle file dei gruppi m.l. anche se il maoismo stava a loro un po’ stretto. Quello d’altronde di una fuoriuscita di dirigenti e di quadri dal Pci verso la costellazione della “nuova sinistra” non fu solo un fenomeno della “sinistra secchiana”, ma anche dell’articolata area ingraiana, e non mi riferisco solo al gruppo de “Il Manifesto”.
Chi lavorò nel Pci per rompere l’unità d’azione con il Psi, considerato ormai organico ai processi di modernizzazione capitalistica? Longo? Amendola e la “destra storica”? Non furono invece proprio gli “ingraiani” (in ciò in sintonia con i “secchiani”) i principali protagonisti di questa battaglia? Area che tra l’altro aveva una sponda con la “massa critica” giovanile e studentesche fuori dal Pc organizzata dalla “nuova sinistra”; e poteva inoltre contare su nuclei operai metalmeccanici e l’alleanza di componenti sindacali di una certa consistenza, come quella socialista ex Psiup o come quella della sinistra cattolica che andava assumendo orientamenti antistoricisti. Non si può citare ed esaltare un Ingrao da contrapporre alla “destra storica” senza però vederne le responsabilità.
La Segreteria di Longo procedette quindi lungo la strada dell’adeguamento della linea togliattiana rispetto gli accadimenti che stavano maturando ed esplodendo, sia in Italia che nel mondo. Ho già detto del suo atteggiamento su il “Memoriale di Yalta” o della durissima condanna che espresse sull’invasione militare sovietica in Cecoslovacchia. E fu sempre il “comandante Gallo” a portare con coraggio il Pci a prendere le distanze dal Pcus. Alla “Conferenza internazionale dei partiti comunisti e operai”, che si tenne a Mosca nel ‘69, fu Longo a decidere che il Pci doveva tenere una posizione di dissenso, che fu espressa con il voto sul documento conclusivo, con cui si respingeva il “pacchetto” delle proposte sovietiche: la riproposizione del “partito guida”, la condanna dei comunisti cinesi (che non parteciparono alla Conferenza), il sostegno all’intervento militare in Cecoslovacchia. Il Pci, guidato dal Vice Segretario Berlinguer e da Cossutta, votò solo la parte del documento relativa alla lotta per la pace e contro l’imperialismo.
Come fece molto rumore l’apertura di Longo nel ’68 al movimento degli studenti, ricevendo una delegazione studentesca guidata da Scalzone, nonostante le non poche resistenze di alcuni dirigenti del Pci, tra cui Amendola. Disponibilità al dialogo che lo portò fino all’errore di avallare la decisione di Occhetto e Petruccioli di sciogliere la Fgci e far confluire i giovani comunisti nel movimento studentesco. È giusto rammentare gli errori compiuti dal Pci in quella fase tumultuosa di contestazione delle nuove generazioni, ma sarebbe anche importante accennare, a distanza di tanti anni, pure ai limiti di quel movimento e agli errori di settarismo dei suoi gruppi dirigenti, molti dei quali giudicarono la mossa di Scalzone una scelta di subalternità al Pci, il quale secondo loro di fatto ostacolava il processo di formazione di un nuovo soggetto comunista rivoluzionario in quanto ormai approdato al revisionismo socialdemocratico e all’alleanza con i socialimperialisti sovietici. Se l’incontro tra Longo e Scalzone non fecondò in un rapporto propositivo tra movimento studentesco e il Pci, al di là della questione contingente della scadenza elettorale per le politiche (Scalzone indicò al movimento “di votare scheda rossa”), le responsabilità vanno almeno equamente distribuite. Mi pare pertanto ingeneroso continuare a presentare ancora oggi un Pci chiuso e arroccato sulle sue posizioni.
Il tentativo più corposo e importante, di rilanciare, dopo le prime avvisaglie di crisi della strategia elaborata dal Pci negli anni ’50, una via nazionale al socialismo viene però da Amendola. Nel ’64, dopo pochi mesi dalla morte di Togliatti. avanza la proposta di riunificazione con il Psi per dar vita a un “partito nuovo”. La proposta è lanciata con un articolo su “Rinascita”, Il dibattito da subito ha un tono aspro e assume la forma della polemica,. tant’è che Amendola replica con un secondo articolo, con un intervento al Comitato Centrale del Pci e un articolo su “L’Astrolabio” di risposta al socialista Sarti, Segretario della Cgil, che aveva difeso Ingrao con il quale Amendola aveva vivacemente polemizzato nel corso del C.c.
<<Ora l’esigenza di un partito unico della classe operaia italiana – scrive Amendola in “Ipotesi di riunificazione” – nasce da una constatazione critica: nessuna delle due soluzioni prospettate alla classe operaia dei paesi capitalistici dell’Europa occidentale negli ultimi 50 anni, la soluzione socialdemocratica e la soluzione comunista, si è rivelata fino ad ora valida al fine di realizzare una trasformazione socialista della società, un mutamento del sistema. Se non si parte – continua – da questo riconoscimento, che è critico ed autocritico assieme non si può riuscire a comprendere l’esigenza di una svolta radicale che permetta di superare le cause che da cinquant’anni hanno impedito al movimento operaio dei paesi capitalistici avanzati di dare un suo determinante contributo all’avanzata del socialismo nel mondo>>.
Questa di Amendola è una riflessione, a distanza di 50 anni, attuale più che mai alla luce del dibattito che ha investito nell’ultimo ventennio la sinistra europea. Se è vero, come afferma Francois Furet, che <<il leninismo non ha lasciato eredità>, non lo credo, ma anche se fosse vero come a sinistra – anche di quella radicale – più di qualcuno crede, allora perché scandalizzarsi più di tanto nel voler superare le cause che portarono alla scissione di Livorno? Anzi, si dovrebbe ammettere che Amendola fu lungimirante. Del resto, non proponeva la formazione di un partito socialdemocratico un po’ più spostato a sinistra, ma l’unificazione tra due partiti marxisti per dare più forza alla lotta per il socialismo. Che sinistra avremmo oggi in Italia e in Europa se tale strada fosse stata sul serio percorsa?
Molti vedono nel superamento storico dei partiti comunisti e la formazione di un nuovo soggetto rivoluzionario di una nuova sinistra per il XX secolo (per dirla con Gramsci della riproposizione della questione della “rivoluzione in Occidente”, cioè della transizione dal capitalismo a una società superiore) il superamento dello stesso leninismo, in quanto teoria di una peculiare forma-partito: dei partiti comunisti. Non sono per nulla d’accordo con una tale affrettata conclusione. È senz’altro vero che il movimento comunista è il prodotto teorico del leninismo, ma l’insegnamento di Lenin va ben oltre al periodo storico caratterizzato dalla rivoluzione d’Ottobre fino al crollo del Muro di Berlino e al disfacimento dell’Urss e del campo del “socialismo realizzato”. Il suo pensiero mantiene infatti una formidabile attualità poiché in Lenin (come d’altronde in Gramsci) vi è la continua ricerca di una “teoria della rivoluzione”, magari mettendo in discussione idee e concetti del marxismo che non reggono alla prova della verifica concreta, con un’azione costante “pratico-politica” e “pratico-teorica”. Insomma, un dirigente e un teorico rivoluzionario “che fa” la rivoluzione e non l’ annuncia o le descrive; che mai prescinde dai rapporti di forza in campo per farsi condizionare da visioni idealistiche e volontaristiche del “dover essere”. In misura minore il ragionamento calza anche per Amendola portatore di una forma originale di leninismo. Per questo sarebbe ora d’abbandonare quello stereotipo che egli fosse un dirigente moderato del Pci, tutt’al più socialdemocratico, influenzato culturalmente soprattutto dal pensiero liberale del padre Giovanni e di Croce.
Longo riprende la proposta di Amendola inquadrandola però all’XI Congresso del Pci come prospettiva su cui lavorare. E ancora, al XII Congresso (1969) offre nuovamente ad Amendola una forte sponda. Nella relazione infatti afferma: <<È andato avanti un processo di avvicinamento, di intesa, di alleanza tra le forze della sinistra operaia e democratica avanzata che vogliono battersi per il socialismo (…) Pure le forze di sinistra che esistono anche all’interno dei partiti di maggioranza, o estranee ai partiti, guardano con interesse, con speranza, la possibilità che un tale sviluppo unitario vada avanti, ed anche alla proposta, da noi avanzata, di lavorare e lottare per la creazione di un grande partito nuovo di lotta per il socialismo. Tale proposta abbiamo confermato nelle Tesi, e intendiamo riconfermare qui>>. E più avanti chiarisce: <<Tale obiettivo non è affatto in contraddizione o alternativo rispetto al compito politico urgente di una più larga unità di forze democratiche, laiche e cattoliche (…) Non c’è affatto contraddizione – dicevo – tra questa politica, che per brevità chiamiamo politica di unità democratica, e il nostro obiettivo di lavorare e lottare per la creazione di una formazione politica nuova di lotta per il socialismo>>. E nelle conclusioni chiarisce: <<A questa politica noi opponiamo la costruzione di una nuova maggioranza, non come una astratta e lontana alternativa ma come un processo già avviato che ha nei problemi attuali le sue ragioni di essere e nelle lotte in corso le leve per la sua affermazione”; avanza cioè una proposta di governo che non è l’alternativa ingraiana.
Le resistenze e le contrarietà e le tiepidezze all’ipotesi dell’unificazione tra Pci e Psi non vennero solo da dentro il Pci, dalla “sinistra”, ma anche da una parte del “centro” sempre più composto da giovani dirigenti periferici giunti al vertice del partito attraverso la lotta per il suo rinnovamento. L’alzata di scudi avvenne anche da dentro il Psi, dove una parte del gruppo dirigente era ormai proiettato verso l’unificazione socialista, con il Psdi di Saragat, per rafforzare l’area socialista nel centro-sinistra. Infatti, soprattutto la corrente autonomista di Nenni interpreta la proposta di Amendola come un tentativo di contrastare l’imminente unificazione socialista.
Dunque, il gruppo dirigente del Pci era consapevole che occorreva andare oltre alle vecchie posizioni, di dover puntare a strategie nuove, ma è diviso, emergono in modo sempre più evidente e acuto le differenze . La strada per uscirne poteva forse essere una “riforma democratica del partito” e su questo sono d’accordo con Vinci -ma si ebbe paura di superare la regola del “centralismo democratico”, soprattutto da parte del nuovo “centro”, che andava costituendosi e che avrebbe avuto Berlinguer come punto di riferimento. Macaluso racconta, in un suo recente libro, che il primo dirigente che pose a Togliatti la questione di una maggiore democrazia nel partito fu Amendola in una riunione della Direzione. Pare che Togliatti gli rispose:<<Volete fare la vostra corrente? Vorrà dire che io farò la mia, poi vedremo chi vince il Congresso!>>. A quel punto Amendola si ritrasse. In seguito la questione fu riproposta da Ingrao all’XI e successivamente, molti anni dopo, da Cossutta. L’occasione vera però, per una riforma democratica del partito, la si ebbe con la questione de “Il Manifesto”, ma si ebbe il timore di legittimarlo come corrente organizzata, anche perché i filo-sovietici, con in testa Secchia, D’Onofrio e Donini (che disponevano ancora di una nutrita delegazione nel C.c.) minacciarono, se non si fossero presi provvedimenti disciplinari sul gruppo de “Il Manifesto”, di fare anche loro una rivista “marxista-leninista”sostenuta dall’Urss e di organizzarsi in corrente. Più semplice, meno rischiosa apparve allora la strada della radiazione del gruppo de “Il Manifesto”, riproponendo senza nessuna riflessione critica il “centralismo democratico”. L’espulsione fu accompagnata da una manovra che imbrigliò il dissenso di Ingrao e contestualmente garantisse al nuovo gruppo dirigente che si andava formando una autorevolezza tale dal porlo al riparo dalle pesanti incursioni politiche di Amendola.
Una volta che Longo, gravemente malato, è costretto a dimettersi da Segretario si apre nel Pci una fase nuova. Ed è in questa fase che devono essere collocate le osservazioni critiche di Vinci, di un Pci sempre più esposto a ragionamenti strategici da prima esitanti, poi di sostanziale resa, infine di crisi e di liquidazione del partito stesso.
Da Berlinguer allo scioglimento del Pci. Crisi e liquidazione dello storicismo.
Per obiettività storica la elezione di Berlinguer a Segretario avviene nella continuità della linea della maggioranza che aveva governato fino allora il Pci: la “destra storica” e il “centro togliattiano”, rappresentato in primo luogo da Longo. Non è un caso pertanto che le consultazioni nel C.c. sul Segretario fossero svolte da due esponenti di quella maggioranza: da Cossutta e Novella. La elezione di Berlinguer avviene con il sostegno pieno di Amendola (che ritira la sua candidatura) avendo l’assoluta garanzia che Berlinguer avrebbe diretto il partito in continuità con la linea espressa tra l’XI e il XII Congresso. Ma con il XIV Congresso (1975), in cui Cossutta fu defenestrato dalla Segreteria, vi è di fatto, un ribaltamento della maggioranza, il recupero della “progettualità ingraiana” allora si disse. Ma con quel ribaltamento per la prima volta i dirigenti del Pci che venivano da una formazione leninista intrecciata allo storicismo non erano più ai vertici del partito, non lo governavano, tra l’altro alcuni erano anziani o malati, altri erano scomparsi. So che la mia è un’affermazione impegnativa, per alcuni versi pesante, ma indico in queste linee la ricerca per una storia, non falsata dai miti e dai luoghi comuni, sull’ultimo Pci.
L’idea che in Europa i comunisti potessero governare attraverso le grandi intese non era né di Longo e neppure di Amendola, bensì di Berlinguer. L’idea che era possibile la nascita di un governo democratico assieme alla Dc fu in particolare da quest’ultimo teorizzata. Da qui “L’eurocomunismo” (con la contrarietà di Amendola), il “compromesso storico” (con vivo disappunto di Longo), lo “strappo” dall’Urss (con la netta opposizione di Cossutta). Tutte scelte di Berlinguer compiute nel tempo con il sostegno se non sempre convinto tatticamente sempre dato però dall’area ingraiana, che iniziò ad avere un timido imbarazzo solo con il Berlinguer che si sentiva protetto “dall’ombrello della Nato”. Ma quel Berlinguer poteva contare però anche su un altro “forno”, quello “migliorista”, la corrente di “destra”, che si era formata dopo la scomparsa di Amendola, con a capo Napolitano e Lama, Segretario Nazionale della Cgil. Era una corrente legata al Psi di Craxi che guardava favorevolmente a ogni eventuale processo di trasformazione del Pci in partito socialdemocratico moderato e al suo riposizionamento nella famiglia socialista europea.
Con “il compromesso storico” (molto allora si discusse se prevalentemente era una via di ricerca del dialogo con il mondo cattolico o una proposta politica, e alla fine così fu interpretata e di fatto attuata, cioè come apertura di credito alla Dc) il Pci di Berlinguer avvia un processo di allentamento e di dissoluzione dell’unità a sinistra. Per la prima volta nella storia della Repubblica si determinava una rottura profonda con il Psi che era stata faticosamente costruita in tante battaglie comuni e attivamente mantenuta nella Cgil, nelle associazioni unitarie e nelle amministrazioni locali, nonostante il quadro di riferimento nazionale di centro-sinistra. “Il compromesso storico” e la politica della grandi intesa non poteva che essere considerata dal Psi come un attacco frontale dei comunisti al partito. Un Psi, tra l’altro, in profonda crisi: che si sentiva prigioniero del centro-sinistra e per questo era alla ricerca con De Martino “di equilibri più avanzati a sinistra”; che aveva subito una scissione a sinistra con il Psiup per unificarsi con il Psdi, con il quale si era miseramente separato dopo pochi anni di Psu (Partito unitario tra Psi e Psdi). Un Psi, infine, ridotto elettoralmente ai minimi termini, al 9%, anche a seguito di una politica del Pci che tentava di scavalcarlo nei rapporti con la Dc. Da qui il “Midas” (il nome è quello di un famoso hotel romano in cui si svolse la drammatica Direzione del Psi) che destituì De Martino da Segretario. Un accordo della destra “autonomista” di Nenni e della “sinistra lombardiana” portò alla elezione di Craxi (giovane autonomista) a Segretario. Tutti gli anziani leader del partito si illusero che il “giovane” sarebbe stato facilmente controllabile, addirittura Mancini era certo che non sarebbe durato molto come Segretario. Sappiamo che le cose non andarono così. Il “Midas” fu l’atto di nascita del “craxismo”, che si presentò da subito come una orgogliosa reazione socialista alla politica antiunitaria di Berlinguer. A distanza di molti anni su alcuni passaggi della storia del Pase bisognerebbe ricostruirli con maggiore rigore e obiettività. Berlinguer poté attuare questa linea antisocialista proprio perché la linea del Pci era mutata e cambiata era la maggioranza che la sosteneva.
La rottura tra il Pci e il Psi non ebbe solo conseguenze di ordine politico, in alcuni casi devastanti, ma fu anche una rottura culturale con una sinistra, a prescindere dai due partiti, che si era formata su un marxismo fortemente intrecciato con lo storicismo . Né il nuovo gruppo dirigente del Psi né una parte (sempre più ampia e maggioritaria) del gruppo dirigente del Pci veniva da quell’esperienza o solo da quella esperienza. La frase che Vinci riporta di Luporini: <<Sono diventato… un nemico dello stoicismo>>è emblematica di questo passaggio. E trovo un po’ giustificatoria l’affermazione <<che lo storicismo del Pci, come afferma anche Magri, non fu esattamente quello gramsciano, bensì una sorta di “campo” teorico-filosofico nel quale certamente il pensiero di Gramsci risultava presente, e però era anche posto, deformandolo sottilmente proprio in tema di storicismo, in significativa continuità allo storicismo dell’idealismo italiano, da De Sanctis in avanti, e soprattutto in significativa continuità con il Croce>>. Mi pare questa una astrazione che non tiene nel dovuto conto dei processi storici. Il marxismo italiano e poi il leninismo (non “il marxismo-leninismo”) sono stati così fecondi, portando contributi e idee alla teoria rivoluzionaria, proprio perché hanno colto dall’idealismo, capovolgendolo, l’attenzione critica alla “sovrastruttura” e alla funzione del “volontà politica” del soggetto rivoluzionario. Un punto di arrivo del marxismo occidentale che gli ha permesso di fare – come lo stesso Vinci riconosce – un salto di qualità rispetto anche alle poderose intuizioni leniniane. Cosa resta di Gramsci se lo si scinde dallo storicismo? Quello consiliare che non ha avuto grande fortuna politica?
Vorrei inoltre precisare, per non essere frainteso, che Berlinguer nonostante limiti ed errori, resta l’ultimo grande Segretario del Pci che si pone la questione della transizione. La necessità di introdurre nella società italiana “elementi di socialismo” per “fuoriuscire dal capitalismo” non era una frase propagandistica, bensì una strategia. Lo stesso tentativo de “l’eurocomunismo”, che tra l’altro ebbe una breve stagione, fu un goffo tentativo per indicare una “terza via”, in quanto partiva dalla necessità di respingere nettamente la via sovietica, ma anche e altrettanto quella socialdemocratica. Sono evidenti in questi concetti temi cari ad Ingrao, sostanzialmente di abbandono della strategia togliattiana.
Con la sconfitta della strategia di Berlinguer, che avviene prima della sua morte (per questo si parla oggi tanto dell’ultimo Berlinguer), tutti i nodi politici e teorici che avevano profondamente diviso il gruppo dirigente del Pci vengono al pettine. Ma le vecchie “sensibilità” sono ormai liquidate. Non vi è più una “destra storica”, un “centro togliattiano”, una “sinistra ingraiana” e una sinistra di matrice “marxista-leninista”; nuove aree e correnti si formano e soppiantano le vecchie: i “miglioristi” i “berlingueriani” (tra l’altro divisi in laburisti di sinistra e in prosecutori della politica dell’ultimo Berlinguer, quello del referendum sulla scala mobile),i “liberaldemocratici”, gli “ingraiani di stretta osservanza” e i “filo-sovietici”, che non sono più la vecchia area “marxista-leninista” ma un composto di amendoliani, ex berlingueriani, secchiani, operaisti ed ex psiuppini. Con questo schieramento interno, che poco o nulla si richiama alla storia del Pci, si giunse alla “svolta della Bolognina”, al XIX Congresso, quello della “cosa” e poi, dopo un anno, al XX Congresso, quello dello scioglimento, con la nascita di due distinti partiti: il Pds e il Prc.
La datazione per meglio interpretare svolte e rotture è dunque decisiva. Per questo non sono affatto d’accordo con quella “critica di sinistra” che individua già nella politica di Togliatti i germi del futuro dissolvimento del Pci, operando così strumentalmente una cesura tra Gramsci e lo stesso Togliatti. O che l’avvio del processo della crisi del Pci ha inizio con le profonde mutazioni internazionali, con il varo del centro-sinistra e il ’68.
Fino al XII Congresso vi è un Pci in grado di rispondere, anche sul terreno teorico, alle tumultuose mutazioni della società italiana e mondiale. Non solo l’ultimo Togliatti, come ricorda Vinci <<stava pensando da tempo a un percorso del Pci più libero da impacci ideologici, tattici e di schieramento>>e stava rivisitando, aggiungo io, anche la nozione della “scelta di campo”. Questa esigenza era già un patrimonio politico-teorico condiviso dall’insieme del gruppo dirigente, almeno dall’asse che governava il partito: Longo-Amendola. Si trattava di dare una rotta nuova alla nave però utilizzando gli strumenti teorici e culturali con i quali il Pci in poco meno di 50 anni era divenuto il più grande partito comunista occidentale, come allora si diceva.
La scomparsa prematura di Togliatti, l’ictus di Longo che lo fece ritirare dalla politica attiva in un momento delicato della vita del partito e del Paese, furono dei duri colpi. Il formarsi di nuove tendenze politiche e culturali, dentro e fuori il Pci, da Berlinguer non adeguatamente contrastate, anzi a volte favorite, che richiedevano non misure organizzative o repressive ma una rinnovata capacità di esercitare una funzione egemonica, depurarono il Pci della sua formazione leninista e storicista. Avvenne, insomma, esattamente il contrario, rispetto a quello che Vinci sostiene se Togliatti fosse stato vivo. <<Se la sua esistenza fosse proseguita forse il suo tentativo di una linea gramsciana del Pci sarebbe riuscito a depurarsi degli elementi incongrui>>. Le contraddizioni nuove della società italiana emerse con le conquiste sociali ottenute dalla sinistra negli anni ’50, che portarono a uno spostamento verso sinistra del quadro politico con la nascita dei governi di centro-sinistra e poi il ’68 e gli anni ’70, videro un Pci in parte impreparato a raccogliere la sfida che veniva dalla società per riconfermare la sua egemonia culturale prima ancora che politica. Non era in grado non perché non fosse capace ad aprirsi al nuovo (anzi, forse lo era troppo, almeno in alcune circostanze), bensì perché non era sufficientemente attrezzato poiché il suo gruppo dirigente era sempre più diviso e privo di un leader autorevole riconosciuto in quanto tale, come lo furono Togliatti e Longo, sicché era nel più totale immobilismo. E non si dica che torno così all’idealismo, al ruolo del soggetto politico. D’altronde anche Vinci afferma nel concludere il suo paragrafo su Togliatti che <<forse la sua straordinaria intelligenza politica e questa ripulitura (dagli impacci ideologici) ci avrebbero risparmiato il crollo catastrofico del movimento operaio italiano>>. Bene, si caccia lo storicismo dalla porta ma ti fa “capolino” dalla finestra!
Sandro Valentini