Il XXI secolo, è una società chiusa e gli stranieri i suoi nemici?, di A. Angeli
Parafrasando il titolo di un saggio del filosofo Karl Popper, La società aperta e i suoi nemici, di cui si riproduce un passo della prefazione: “Arrestare il cambiamento politico non costituisce un rimedio e non può portare la felicità. Noi non possiamo mai più tornare alla presunta ingenuità e bellezza della società chiusa. Il nostro sogno del cielo non può essere realizzato sulla terra… », si propone un interrogativo sul dirompente tema della migrazione, che vede in prima fila il gruppo di Visegrad, formati da: Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria; alle quali si associano anche l’Austria, la Francia, la Germania e l’Italia, in cui si rafforzano i movimenti politici contro l’accoglienza dei migranti, dividendo in modo verticale la popolazione. Un contagio che supera l’atlantico, fino a raggiungere gli USA e il suo Presidente Trump, che non perde occasione per dichiarare il suo odio contro i migranti. E’ forse il momento più buio della storia della civiltà occidentale, che si dimostra incapace di affrontare con la dovuta intelligenza e umanità un dramma su cui nel passato, fin dall’antica grecia, ci si è posti in modo più aperto e solidale, con uno spirito dell’accoglienza in cui al senso dell’ospitalità corrispondeva una disciplina fondata sull’etica e una linea morale a cui anche lo straniero doveva sottomettersi.
Allora, percorrere questo sentiero della storia ci consentirà di comprendere la linea che separa la riflessione della ragione dalla negazione irriflessiva che caratterizza il tempo presente.
Inizio questo breve scritto riportando un passo tratto dallo “Zibaldone”, (892 Zib) di Giacomo Leopardi.”…Quale nemicizia dunque è più terribile? Quella che ha co’ lontani, e che si esercita solo nelle occasioni, certo non giornaliere; o quella ch’essendo co’ vicini si esercita sempre e del continuo, perché continue sono le occasioni? Quale è più contraria alla natura, alla morale, alla società? Gli interessi de’ lontani non sono in tanta opposizione ai nostri ( e pe quanto lo sono si odia adesso il lontano, come e più anticamente, bensì meno apertamente e più vilmente). Ma gl’interessi de’ vicini essendo co’ nostri in continuo urto, la guerra più terribile è quella che deriva dall’egoismo, e dall’odio naturale verso altrui, rivolto non più verso lo straniero ma verso il cittadino, il compagno…..” (892. Zib) Egli termina questo paragrafo nei seguenti termini:” la società non può sussistere senz’amor patrio, ed odio degli stranieri..”
Leopardi muore nel 1837, 180 anni or sono, e nel suo lascito filosofico/ culturale la questione morale e della decadenza dell’Italia ci è trasmessa come un segnale profetico per il futuro, un male che tutt’oggi avvolge e opprime lo svolgersi di una vita politica e sociale pienamente partecipata. L’Italia vive sicuramente uno dei suoi momenti politici più critici, di questa parte del nuovo secolo, per il vuoto politico, culturale e ideale che contrassegna la nostra classe dirigente. E con l’Italia l’Europa, questa grande avventura che doveva approdare all’Unità Europea, che vive momenti di grande confusione: l’uscita dell’Inghilterra dall’Unione Europea, la rivendicazione della Catalogna di staccarsi dalla Spagna; le rivendicazioni autonomiste della Scozia e dell’Irlanda. E a queste difficoltà di natura politica e istituzionale, si addizionano i problemi della crisi finanziaria e del sistema Bancario, della diffusa crisi sociale ed economica e della disoccupazione giovanile, della dimensione ed estensione della povertà e della diseguaglianza sociale.
Quest’opera incompiuta ci induce a ritenere che L’Europa è solo una grande messinscena malamente recitata, che si può riassumere nella citazione di Bertolt Brecht « Lo ammetto: io non ho speranza. Il cieco parla di una via di uscita. Io ci vedo. Quando tutti gli errori sono esauriti l’ultimo compagno che ci sta di fronte è il Nulla »
C’è, infine, la questione dell’accoglienza dello straniero, cioè della migrazione di milioni di individui che fuggono da condizioni disumane e che travolge e avvolge la vita politica e sociale dell’ Italia e dell’Europa. Un fenomeno che ha mutato il paradigma della cultura dell’ospitalità, la cui sinonimia con l’accoglienza dei migranti ha rotto il vaso di Pandora da cui sono sgorgati i peggiori miasmi del populismo razzista e di odio per lo straniero.
Allora, per comprendere il senso ed il significato culturale e umanistico dall’ospitalità dello straniero, che nella Grecia di Omero e nella Roma dei Cesari era ritenuto un dovere propiziatorio per ricevere il favore degli Dei, prima di giungere al nostro tempo dell’accoglienza del migrante, partiamo dalla storia greco-romana e giudaico – cristiana, per arrivare fino alla nascita dell’illuminismo e del liberalismo. Una breve ricostruzione di un pensiero storico su una questione divenuta cruciale in questa epoca della post-modernità, che offre spunti per riflettere sulla capacità del nostro intelletto ad affrontare un tema, quello della migrazione di massa, senza gli isterismi ideologici o dell’idiotismo xenofobo, poichè già da oggi e per i prossimi 20/30 anni sarà il problema dominante.
E’ dalle pagine dell’Odissea che inizia il percorso, dal momento in cui descrivono l’incontro di Ulisse, che torna alla sua Itaca sotto mentite spoglie grazie all’incantesimo di Atena, con il suo servo Eumeo che, nonostante non riconosca il padrone per il fatto che si cela sotto poveri stracci, lo tratta con una disinteressata benevolenza. Nel gesto si coglie la forza del rispetto e dell’onore che nell’antica Grecia era riservato e riconosciuto agli stranieri. Del resto, tutto il libro XIV è riservato alla ricostruzione in cui il servo offre all’ospite le migliori attenzioni, donandogli addirittura il proprio mantello, affinchè il vecchio mendicante possa ripararsi dal freddo della notte e attendere al governo delle bestie. Il breve passo recita: Ei, la riva lasciata, entrò in un’aspra Strada, e per gioghi, e per silvestri lochi, Là si rivolse, dove Palla mostro Gli avea l’inclito Euméo, di cui fra tutti D’Ulisse i miglior servi alcun non era, Che i beni del padron meglio guardasse. […] Poi, rivolto al suo Re, […] gli disse […] “Ma tu seguimi, o vecchio, ed al mio albergo Vientene, acciò, come di cibo, e vino Sentirai sazio il natural talento, La tua patria io conosca, e i mali tuoi.” Ciò detto, gli entrò innanzi, e l’introdusse Nel padiglione suo […] L’eroe gioiva dell’accoglienza amica, E così favellava: “Ospite, Giove Con tutti gli altri Dei compia i tuoi voti, E d’accoglienza tal largo ti paghi. E tu così gli rispondesti, Euméo: Buon vecchio, a me non lice uno straniero, Fosse di te men degno, avere a scherno: Chè gli stranieri tutti, ed i mendichi Vengon da Giove.”.
Il richiamo all’Odissea ci svela una prassi adottata nella società omerica in cui lo straniero, essendo privo di diritto, viene accolto dalla comunità e con questa stabilisce un rapporto di reciprocità. Straniero, dal greco Xenos, voce rilevata da Wikipedia, acquisisce diversi significati: “ nemico straniero”, ovvero “amico rituale”. Verso l’amico rituale si seguiva un rito consistente nella consegna di un Symbolon, una “tessera ospitale”, un coccio di pietra che, come scrive Umberto Galimberti “spezzato in due testimoniava il legame tra due persone […] Ognuno portava con sé il segno di una comunione, di un patto amichevole che la distanza non poteva annullare. Se poi accadeva di ricongiungersi, allora si procedeva alla ricomposizione delle due metà, e l’unità così ottenuta attestava, dopo l’assenza, un’intimità ininterrotta, un legame che non era stato spezzato”.
La sintesi di questa accoglienza è data dalla trasformazione di Xenoi in philoi, cioè amici degni di rispetto, ai quali era riservata una particolare protezione da parte di Zeus e Athena. L’ospite incarnava in se una specifica sacralità. Questa forma di ospitalità era diffusa e radicata nella tradizione greca, al puto da essere tradotta nelle tragedie greche: Filottete di Sofocle, nel Prometeo di Eschilo in cui è dominante la sacralità dell’ospite, al quale sono riservate specifiche attenzioni erigendo intorno alla sua figura una difesa di sublimazione a cui tutti devono sottostare. Anche in Euripide, nella tragedia dell’Ecuba, specificamente da questa frase: “Nefando, innominabile crimine, al di là di ogni stupore, empio, intollerabile. Dov’è la giustizia degli ospiti [Dika Xenon]?” Nello scritto tragico di Euripide, dunque l’essere inospitali nei confronti dello straniero è paragonabile ad un crimine, innominabile addirittura, e pertanto punibile dagli dei.
Lo straniero diviene dunque il leitmotiv di un’altra tragedia di Euripide, l’ Alcesti,. Qui lo straniero ha il nome di Eracle, che chiede ospitalità ad Admeto, re della Tessaglia, dal quale viene impartito l’ordine ai propri servi affinchè preparino quantità di cibo e arredino e preparino stanze appartate per la tranquillità dell’ospite”.
Non possiamo ignorare Platone, in cui il senso e l’obbligo di giustizia e rispetto nei confronti dello straniero e l’importanza della xenia è il contenuto di molti suoi dialoghi, soprattutto nelle “Leggi” nelle quali si rileva: “che i medesimi riguardi vadano riservati, oltre che agli stranieri, anche alle straniere”, un riconoscimento di diritti paritari non attribuiti alle donne nella società greca. Precisa, inoltre, come gli stranieri dovranno essere accolti nello stesso modo col quale si pretende di essere accolti quando sia il nostro turno di andare lontano dalla nostra patria.”
A sua volta, nell’ Etica Nicomachea (lib.IX), Aristotele paragona l’ospitalità all’amicizia: come colui che ha troppi amici non ne ha nessuno, allo stesso modo chi ha troppi invitati non ne soddisfa nessuno. L’ospitalità non esprime neppure alcun moto altruistico e disinteressato verso l’altro, ma attiva una relazione che obbliga alla reciprocità: chi ospita vuole essere ospitato, chi è ospitato vuole ospitare. L’ospitalità istituisce legami mantenendo distanze e differenze. Mentre i latini esprimevano con il termine hostis “lo straniero”, accolto senza timore nella comunità poiché considerato un amico, Nel De Officis Cicerone usa questo termine per indicare “l’advena”, sconociuto, ossia “colui che viene da fuori”, insomma un peregrinus proveniente dai confini esterni , il quale, come si può rilevare dalle XII tavole – corpo di leggi redatto nel 450-451 a. C. dai Decemviri Legibus Scribundis ( come si rileva di Wikipedia ) che costituiscono la prima compilazione scritta di leggi nella storia di Roma– riceveva gli stessi diritti dei cittadini romani in base a qualche accordo o patto. San Tommaso e l’accoglienza
Mentre S. Tommaso D’Aquino, parlando dell’accoglienza dei forestieri, fa delle considerazioni che oggi, con l’immigrazione di centinaia di migliaia di musulmani nel nostro Paese e in Europa, risultano ancora attuali e ci possono insegnare qualcosa di buono. Infatti scrive che: “con gli stranieri ci possono essere due tipi di rapporto: l’uno di pace, l’altro di guerra” (in corpore). Egli, al proposito, porta l’esempio degli ebrei, che nella Vecchia Alleanza avevano tre occasioni per vivere in modo pacifico con gli stranieri:
– quando gli stranieri passavano nel loro territorio come viandanti;
– quando gli stranieri emigravano nella Terra santa per abitarvi come forestieri; in questi due casi la Legge giudiziale imponeva precetti di misericordia: “Non affliggere lo straniero” e “Non darai molestia allo straniero”;
– quando degli stranieri volevano passare totalmente nella collettività degli ebrei, nel loro rito e nella loro religione.
Diversamente da quanto scriveva Aristotele, ovvero, che “si possono considerare come cittadini solo quelli che iniziarono ad essere presenti nella Nazione ospitante a partire dal loro nonno” (Politica, libro III, capitolo 1, lezione. Ciò sembra corrispondere senza equivoci alla rivendicazione di dare corso allo Ius Soli nel nostro paese. (Politica, libro III, capitolo 1, ).
Compiamo un salto temporale per velocizzare il testo e affrontiamo lo scritto di E. Kant: “ La pace perpetua”. Il primo concetto che Kant tiene ad enucleare e chiarire nel Terzo articolo definitivo della Pace perpetua (il diritto cosmopolitico dev’essere limitato alle condizioni di una universale ospitalità) è quello di ospitalità (hospitalitat). Anzitutto, scrive Kant, l’ospitalità viene a configurarsi non un principio di relazionalità filantropica bensì un diritto vero e proprio, icasticamente definibile come ” il diritto di uno straniero che arriva su un territorio di un altro stato di non essere trattato ostilmente”.
Nella tesi di Kant il diritto di ospitalità assume una forma civica decisamente positiva. Egli specifica che tale forma non va intesa come la facoltà esercitabile dallo straniero ad essere ospitato ed accolto nelle strutture di un determinato Stato, e quindi ad un obbligo di accoglienza coabitativa con altri cittadini; caso mai tale status viene a proporsi come un diritto di visita, riconoscendo al visitatore la facoltà di circolare liberamente sul territorio di ogni Stato: ” non si tratta di un diritto di ospitalità, cui si può fare appello… ma di un diritto di visita , spettante a tutti gli uomini…[ che] devono da ultimo rassegnarsi a incontrarsi e a coesistere”. Si tratta ad ogni modo di un diritto che incontra l’ invalicabile limite del rispetto, da parte del suo titolare, a cui è richiesto un contegno pratico e pacifico; insomma, l’obbligo per il visitatore di attenersi ad una prassi che non contrasti con i diritti e le libertà del paese che lo ospita.
Il 9 aprile 1870, Karl Marx scrisse una lunga lettera a Sigfrid Meyer e August Vogt, due dei suoi collaboratori negli Stati Uniti. Con questa lettera Marx, oltre a molti altri temi, orienta il suo interesse sulla “questione irlandese”, in modo specifico e diretto sugli effetti dell’immigrazione irlandese in Inghilterra. Dal l’osservatorio di chi scrive. questa attenzione di Marx ai temi dell’immigrazione risulta sia stata la più estesa trattazione compiuto dall’economista e sicuramente un interessante testo su cui si è riflettuto poco riguardo al pensiero di Marx sull’argomento.
Questa lettera a Meyer e Vogt sorprendentemente ha suscitato poca attenzione nella sinistra del nostro Paese, in specie di quella parte più radicale, che con altre forze sono giustamente I sostenitori dei diritti degli immigrati. Del pensiero che Marx sviluppa in questa lettera è ignorato un riferimento attuale, che riguarda il modo in cui il sistema capitalista opera. Una tesi che, in effetti, riguarda l’afflusso di immigrati irlandesi sottopagati in Inghilterra, per cui per questa via si forzavano verso il basso i salari dei lavoratori inglesi nativi. Se ricondotta alla realtà odierna, questa tesi contrasta con quanto invece vanno sostenendo molti sostenitori attuali dei diritti degli immigrati, i quali si sono schierati dalla parte degli economisti liberali che insistono sul fatto che l’immigrazione aumenta in realtà i salari per i lavoratori nativi. (sic)
Nel primo libro del Capitale Marx sostiene espressamente che il capitale vive di una sovrappopolazione di lavoratori, di modo che sia sempre presente un esercito industriale di riserva, di non lavoratori pronti ad essere integrati nella filiera della produzione e dunque tali da esercitare una pressione al ribasso sui contratti dei lavoratori concretamente impiegati nella filiera della produzione. Ancora, prosegue Marx a proposito all’ esercito industriale di riserva: “ma se una sovrappopolazione operaia è il prodotto necessario dell’accumulazione, ossia dello sviluppo della ricchezza su base capitalistica, questa sovrappopolazione diventa viceversa la leva dell’accumulazione capitalistica, e addirittura una della condizioni di esistenza del modo di produzione capitalistico essa costituisce un esercito industriale di riserva disponibile, che appartiene al capitale in maniera così completa come se quest’ultimo l’avesse allevato a sue proprie spese, e crea per i mutevoli bisogni di valorizzazione di esso il materiale umano sfruttabile, sempre pronto, indipendentemente dai limiti del reale aumento della popolazione”.
Siamo giunti ad Emmanuel Lèvinas, al saggio: “Totalità e infinito ”,che esprime e dona alla ragione un pensiero che nasce dallo stupore del silenzio di Dio verso le tragedie, nel quale confluiscono diverse tradizioni e culture: l’ebraismo lituano,l’ intellettuale lontano dal mistico; amante della letteratura russa; filosofo francese e studioso della filosofia Francese, in particolare quella di Bergson. All’origine dell’etica Lèvisiana sta l’appello dell’alterità/esteriorità d’altri che significa nel “volto”, in quanto esso mi comanda di aiutarlo nella sua indigenza, nudità, esposizione, fragilità e altezza al tempo stesso. Il volto si esprime come nudità del povero, dell’orfano e della vedova, figure bibliche emblematiche dell’alterità, “che per la loro stessa miseria e indigenza sono per me comando di non lasciarli morire”. “La nudità del volto è indigenza. Riconoscere significa riconoscere una fame. Riconoscere Altri significa donare. Ma significa donare al maestro, al signore, a chi si avvicina in una dimensione di maestosità”. L’estraneità-miseria dell’Altro, che si esprime come volto nudo, pone l’io all’accusativo, convocandolo, inquietandolo, mettendolo in questione, è appello etico, “anzi, comando etico incondizionato che trasfigura la miseria altrui nella assoluta “Altezza” del Signore e del Maestro, e rovescia la mia libertà di soggetto egoistico nella libertà di soggetto responsabile, che deve rispondere della miseria altrui”.
E infine Jacques Derrida, per il quale l’ospitalità non è semplicemente una regione dell’etica, un suo capitolo delimitato e circoscritto, un suo modo o maniera (anche nel senso delle ‘buone maniere’), ma l’etica stessa, il suo principio – se è vero che ethos rimanda appunto all’abito, all’abituale, all’abitudine, e quindi anche all’abitare – ed anzi la sua interezza: accogliere l’altro che viene, farsi abitare dall’altro custodendolo e rispondendone, persino nella sua eccentricità e stravaganza, è, a ben vedere, non solo l’imperativo di un’etica da riformulare nel confronto con il problema dell’alterità, ma anche l’ethos stesso della decostruzione, il luogo ospitale che si offre alla venuta di un’alterità destrutturante che irrompe nell’evento incondizionato e magari fatale dell’altro. “Questione dello straniero: venuto da fuori”, è il testo del 10 gennaio 1996 a cui segue “Il passo d’ospitalità” del 17 gennaio 1996 In questi due testi si raccolgono insieme sia i tratti di un ripensamento radicale dell’etica, sia le linee che esaltano le potenzialità etico-politiche della decostruzione: quale risposta alla venuta dell’altro? La questione dell’altro è davvero semplicemente un problema, o è anche e soprattutto una domanda che l’altro rappresenta esso stesso e che mi pone, rimettendomi in questione?
Non è possibile riprodurre qui le due lezioni, anche già l’incipit ci induce a pensare in termini nuovi e diversi il tema dell’accoglienza e dell’ospitalità. Per questo , se si segue questa linea di valorizzazione del pensiero che si rivolge all’altro rimeditando il senso e la ragione dell’etica, il tema della migrazione, le conseguenze che con l’eccezionalità del fenomeno attuale stiamo vivendo, le tensioni politiche e sociali che dividono porzioni notevoli della popolazione, è possibile trovino una loro ricomposizione politica più rispondente all’eccezionalità del momento. L’etica comporta una condotta morale che coinvolge colui che accoglie e lo straniero, quindi un ambito di norme sostanziali entro le quali le coordinate del diritto e della legittimità rendano simmetriche le obbligazioni di convivenza sociale. Per questo, è fondamentale dare un segnale di coerenza, pervenendo all’approvazione della legge sull’ius soli a cui far seguire una politica e una strategia adeguate al fenomeno che la realtà prospetta all’Italia e all’Europa, in cui si affrontino gli aspetti più cogenti dell’integrazione, che non ignori la diversità culturale, religiosa e politica.
Alberto Angeli